Pirandello non è un poeta, anche se da giovane ha scritto poesie, ma è certamente un poieta, dimostrando che la narrativa realista, che l’aveva fatta da padrone nel 1800, non era l’unica strada percorribile e che anche senza versi si poteva procedere in termini di creazione.
Ricevette il Premio Nobel a dimostrazione che la letteratura italiana della prima metà del ‘900 era all’avanguardia, come dimostrano i Nobel alla Deledda, a Carducci, a Montale e a Quasimodo.
Non si tratta soltanto di Premi, ma anche di un riconoscimento che ebbe tra il pubblico, certo non il popolo inteso in termini attuali, ma le sue opere non rimasero nel culto di pochi eletti, perché, anche se complicate o meglio complesse, avevano qualcosa che entrava in contatto con l’universo degli uomini. I soliti critici che guardavano a Est apprezzarono, anche se non sempre, l’opera di Pirandello violentandone però il senso in una critica alla società borghese, di cui lo scrittore avrebbe svelato se non le nefandezze certo le difficoltà e la crisi.
Non solo la società capitalistica non è morta, ma le stesse tematiche affrontate da Pirandello sono diventate qualcosa di essenziale con cui l’uomo del XXI secolo non può evitare di fare i conti: non sono solo i temi ad essere attuali, ma anche il modo di affrontarli. Da questo punto di vista Pirandello è uno degli esempi più significativi della tesi che sto cercando di sviluppare, quella per cui la letteratura moderna ha anticipato, nelle forme che le sono proprie, tutto ciò che poi, nelle forme delle scienze della natura, sono diventate l’essenza della fisica contemporanea.
Non sono mai stato appassionato della narrativa perché l’ho sempre ritenuta troppo rappresentativa della realtà e poco incline a cercare al di là della superficie e, quando cercava di non limitarsi allo specchio, tendeva ad esagerare (ex-agro), cioè ad uscire dal campo, inventando horror e fantascienza. E’ stato grazie alla poesia che ho potuto valorizzare la filosofia e poi anche la narrativa, cominciando da quegli autori che, come Rimbaud, vedevano nell’IO un altro (e nell’altro un IO). Il matrimonio tra queste letture e la scienza della complessità mi ha permesso di cogliere aspetti importanti anche nei narratori che avevo evitato fino ad allora.
Pirandello è colui che ha usato la novella, il romanzo e il teatro per scandagliare in profondità quello che è il vero protagonista dei tempi moderni, l’IO, l’Individuo. Come ricorda Pietro Citati nel suo saggio del 1998 dal titolo “L’armonia del mondo” (Edizioni Rizzoli), riferendosi a un libro del celebre fisico S. Hawking (Dal big bang ai buchi neri: breve storia del tempo): “Mentre Newton crede che l’universo fosse statico, Hawking sa che l’universo, nato da un’espansione drammatica, è ancora oggi in espansione. Anche il nostro io (conscio ed inconscio) è in espansione. Il nostro io si dilata perché non è più un io, ma un sistema solare di figure, di persone e di simboli, in perpetua rotazione interiore, che accoglie in sé sempre nuove immagini e proiezioni.”
In questo senso lo scrittore siciliano è quello che forse meglio interpreta questa esigenza di farci dialogare con un IO in espansione, ancor più degli autori ricordati da Citati, cioè Kafka, Musil, Pessoa. Egli vi riesce perché l’espansione dell’IO che ci fa vedere coglie moltissimi aspetti e tante situazioni, evitando di insistere e ripetere; e questo gli è possibile perché la sua opera è accompagnata da una vasta e solida riflessione culturale. Teoria e pratica, pratica e teoria.
Cercherò di evitare la classica presentazione didattica, fatta di cronologia e contesto, mentre procederò in termini reticolari che a qualcuno possono apparire confusi e non organici; d’altra parte non voglio qui esaurire un argomento, ma suscitare delle suggestioni e invitare a delle proiezioni, sapendo in anticipo che non è mia intenzione ricercare “il vero Pirandello” e non è mia intenzione, come scritto più volte, perché non esiste nessun “vero Pirandello”. Per molti italiani Pirandello è stato uno scrittore noto che ha fatto parte della loro vita, grazie a certe semplificazioni che hanno permesso un avvicinamento. E’ entrato ad esempio nel linguaggio comune il termine “pirandelliano” nel senso di “strano, anomalo, di difficile comprensione” che riflette le situazioni frequenti nelle opere dello scrittore. Il termine ha modellato su se stesso un altro termine che rappresenta una certa somiglianza, quel “kafkiano” che però ne accentua l’aspetto di angoscia e allucinazione. Purtroppo ci si è limitati ad una acquisizione puramente estetica, nel senso che i suoi personaggi si muovevano secondo forme abbastanza note a tutti: chi non ha o ha avuto parenti strambi, chi non conosce in paese o nel quartiere quella persona vestita in modo eccentrico o dai comportamenti che permettono l’uso, spesso bonario, del termine “pazzo”. In questo senso i vari personaggi di Pirandello venivano ricondotti nell’alveo di quella visione estetica a cui siamo stati abituati da sempre, risultando dunque un componente della realtà, di cui esprimevano una caratteristica: come Jacopo Ortis era dominato dalla passione amorosa e politica, come Lucia era una brava e pia ragazza, come la Lupa una donna assatanata, Andrea Sperelli un esteta e i Malavoglia una normale famiglia meridionale, così Mattia Pascal, Vitangelo Moscarda e gli altri rappresentano quella realtà contraddittoria, che magari rifiutiamo ma che conosciamo bene. Per questo non è stato difficile far entrare Pirandello nel nostro mondo, quello dell’uomo comune.
Superati i limiti dell’estetica e della didattica provo a sottolineare come personaggi e storie dello scrittore siciliano abbiano forti punti di contatto con la scienza della complessità e ne anticipino molti aspetti, tenuto conto che Pirandello morirà nel 1936.
Cominciamo con uno dei fondamenti della scienza della complessità, la cosiddetta irriducibilità del Caso.
Da sempre la Scienza, quella classica con la Esse maiuscola, ha ricondotto il Caso alla nostra ignoranza, ma oggi l’approccio appare differente. Lo studio del calore, delle indeterminazioni microfisiche, delle strutture dissipative hanno portato alla luce aspetti nuovi: il matematico Chaitin ha definito il Caso come incompressibilità algoritmica, aggiungendo che non possiamo dimostrare se quello che ci sembra Caso non sia invece dovuto alla nostra ignoranza.
Come dice Edgar Morin in La sfida della complessità: “Da un lato dobbiamo constatare che il disordine e il Caso sono presenti nell’universo e svolgono un ruolo attivo nella sua evoluzione. D’altro canto non siamo però in grado di risolvere l’incertezza arrecata dalle nozioni di disordine e di Caso: lo stesso Caso non è sicuro di essere un caso.”
Se il Caso irrompe nella freccia del tempo che caratterizza l’evoluzione della natura, a maggior ragione esso deve essere preso in considerazione nello studio della Storia degli uomini, storia di relazioni individuali, sociali, economiche, politiche, culturali, religiose, sessuali. In questo senso il Caso cessa di essere un’eccezione che per forza dobbiamo ricondurre dentro un quadro di leggi necessarie e diventa componente essenziale del processo storico.
Per Morin (Scienza con coscienza) una delle più significative conquiste epistemologiche degli ultimi anni riguarda il ritorno dell’evento; evidenziato nelle scienze fisiche della complessità esso sta allargandosi e riproponendosi sempre più anche nelle scienze umane.
“Non esiste scienza del singolare, non esiste scienza dell’evento: è uno dei principi più sicuri di una vulgata teorica ancora dominante. L’evento fu perseguitato nella misura in cui fu identificato con la singolarità, la contingenza, l’accidente, l’irriducibilità, il vissuto. Fu perseguitato non solo nelle scienze fisico-chimiche, ma anche nella sociologia…Tende persino a essere perseguitato nella storia…Nel momento in cui le scienze umane si modellano secondo uno schema meccanicistico, statistico e casuale, proveniente dalla fisica, la stessa fisica si trasforma radicalmente e solleva la questione della storia e dell’evento.”
Con queste premesse possiamo comprendere meglio l’opera di Pirandello che ne anticipa, dal lato delle scienze umane, le argomentazioni. Prendiamo in considerazione il primo romanzo, Il fu Mattia Pascal, che è del 1904: la relatività ristretta di Einstein è del 1905 e quella generale del 1915.
Numerosi esempi compongono il romanzo in questi termini.
La vincita al Casinò di Montecarlo, del tutto inaspettata e imprevedibile, è un evento decisivo nella storia di Mattia.
Il ritrovamento nella roggia di un mulino a Miragno di un corpo riconosciuto come il suo, notizia che legge per caso su un giornale mentre è in treno: con certezza il giornale dichiara che si tratta del cadavere di Mattia Pascal, scomparso da molti giorni, suicidatosi per dissesti finanziari.
La serie di figli legittimi e illegittimi che spingono gli avvenimenti e le scelte del protagonista in direzioni non prevedibili né previste.
Trovo però che l’aspetto più interessante in questa direzione è la parte aggiunta al libro col titolo “Avvertenza sugli scrupoli della fantasia”. Questo brano non aiuta solo la comprensione del romanzo, ma getta luce su tante caratteristiche della narrativa pirandelliana, accusata troppo spesso di essere assurda, macchinosa, cerebrale e dunque di non essere verosimile.
“Le assurdità della vita non hanno bisogno di parer verosimili, perché sono vere. All’opposto di quelle dell’arte che, per parer vere, hanno bisogno d’esser verosimili. E allora, verosimili, non sono più assurdità.” E ironizza sui critici letterari che condannano personaggi ed eventi letterari “in nome d’una umanità che sembra essi conoscano a perfezione, come se realmente in astratto esistesse, fuori cioè di quell’infinita varietà d’uomini capaci di commettere tutte quelle sullodate assurdità che non hanno bisogno di parer verosimili, perché sono vere.”
Nello scritto in questione Pirandello riporta un fatto tratto dai giornali di New York del 25 gennajo 1921, che se non fosse avvenuto tutti avrebbero giudicato assurdo; ma l’evento più convincente è riportato alla fine ed è tratto dalla cronaca del Corriere della Sera del 27 marzo 1920. Si riporta un fatto che copia, anche in molti minimi particolari, la storia raccontata ne Il fu Mattia Pascal: in questo caso è la vita ad aver copiato dalla letteratura.
Un altro elemento importante nella scienza della complessità e che incontra la letteratura moderna è il ruolo dell’osservatore. Mentre nella fisica classica lo scienziato, cioè l’osservatore, deve rimanere fuori dall’osservazione e dall’esperimento, a partire dalla fisica quantistica si è riconosciuta l’importanza dell’osservatore nello studio dei fenomeni. Questo aspetto si è esteso dalla fisica a tutte le altre scienze sia fisiche sia umane e oggi la pretesa di un’osservazione pura e non contaminata è per fortuna appannaggio di pochi scienziati.
Nella fisica classica si era sempre supposto che entro i limiti degli errori la misura di una grandezza poteva essere eseguita con precisione sempre più rigorosa, a condizione di utilizzare un dispositivo sempre più qualificato e una tecnica sempre più razionale. In realtà ciò non è esatto: misurare significa sempre perturbare il sistema e quindi anche le grandezze che lo caratterizzano.
A.Caforio-A. Ferilli , Nuova Physica. 2000, Le Monnier, Firenze: p. 166 |
L’osservatore-concettualizzatore deve integrarsi nella sua osservazione e nella sua concezione….Possiamo dunque formulare il principio della reintegrazione del concettualizzatore nella concezione: qualunque sia la teoria, e di qualunque cosa essa tratti, essa deve rendere conto di ciò che rende possibile la produzione della teoria stessa. Se in ogni modo non è in grado di rendere conto di ciò, deve pur sapere che il problema rimane posto.E. Morin, in La sfida della complessità, Feltrinelli 1985 p. 55. |
“Si impose la ricerca di un ordine privilegiato. La ricerca della certezza prese forma anzitutto in un metodo, in grado di provare al di là di ogni ragionevole dubbio la verità universale delle ipotesi proposte e in grado di consentire a tutti gli individui di intendersi al di là della contingenza e della precarietà delle loro vicende e delle loro opinioni. Emerse l’ideale dell’oggettività razionale, espressione di un osservatore astratto. Interprete di queste esigenze, il ricercatore avrebbe dovuto discriminare fra rilevante e accessorio, fra permanente e transitorio, fra essenziale e superfluo”
G. Bocchi-M. Ceruti, Origini di storie, Feltrinelli 1993, pp. 122-123. |
“la reintegrazione dell’osservatore nelle proprie descrizioni segna gli sviluppi più importanti delle scienze fisiche (meccanica, termodinamica cosmologia) e biologiche…le scienze umane…le discipline trasversali (cibernetica, teoria dei sistemi, teoria dell’informazione)”.
(M Ceruti, La fine dell’onniscienza, Ed. Studium 2014, pagg.45-46). |
Dunque l’osservatore non è mai esterno al fenomeno, al contrario ne è parte integrante e il suo ruolo è interno, inevitabile elemento disturbatore dell’esperimento. Da questo punto di vista in letteratura, e soprattutto in poesia, l’autore-osservatore non ha preteso di scomparire, eccetto che nella stagione del realismo ottocentesco, quando ci si illuse di scrivere storie in modo oggettivo, facendo in modo che, come diceva Verga, il romanzo apparisse fatto da sé o con Zola che esso potesse esprimersi attraverso leggi universali. Tutto ciò accadeva nonostante il teorico dell’impersonalità, il francese Gustave Flaubert, dichiarasse senza remore che “Madame Bovary c’est moi”. Il realismo ottocentesco nasce in relazione e sintonia con l’esplosione della scienza e delle sue conquiste e cerca di stare al passo con quanto teorizzato e applicato grazie agli sviluppi delle scienze della natura. La letteratura però si muove su altri piani e sarà proprio nello stesso periodo che essa supererà persino la tradizionale forma di una letteratura di rappresentazione, si riapproprierà della soggettività dell’autore e farà del proprio tessuto materia di creazione di realtà.
Cito a memoria una frase di Calvino che iniziò la propria carriera di scrittore in termini realisti e che poi mutò prospettiva: come eravamo soggettivisti noi che credevamo di essere invece del tutto oggettivi.
Non deve apparire strano che il termine onniscienza venga usato alla fine del XX secolo per dichiarare l’esaurimento del determinismo e allo stesso tempo quel termine è sempre stato usato dalla critica (e dai libri di scuola) per fissare le caratteristiche del romanzo tradizionale. In esso infatti il narratore è esterno e onnisciente, non partecipa dell’azione e conosce tutto, eventi, pensieri e azioni dei personaggi.
Il romanzo in Pirandello è svolto in prima persona e segue ciò che il personaggio decide di farci conoscere, ma non si tratta solo di azioni e di avvenimenti, che rappresentavano il filo conduttore del romanzo in precedenza, bensì un peso maggiore e senz’altro decisivo risultano i pensieri e le riflessioni. Non si tratta però né di una sottospecie di autobiografia e neppure un romanzo filosofico, perché la storia dei personaggi è intimamente legata alle loro riflessioni, anzi queste riflessioni condizionano e determinano la storia dei personaggi. In un’epoca che ha cercato di sostituire la ragione e le regole del buon vivere con il sentimento, dilagante in tutte le forme espressive, Pirandello ci fornisce una quantità di esempi di persone e situazioni complesse che non riducono la vita umana al dualismo ragione-sentimento, ma mostrano come questi due aspetti siano strettamente connessi.
Pensiamo a quello che è il suo manifesto poetico, il saggio L’umorismo. Non sto a ricordare l’esempio della vecchia signora tutta imbellettata come un pappagallo, ma sottolineo l’importanza della distinzione che lo scrittore fa tra avvertimento del contrario e sentimento del contrario.
Vediamo una situazione che si presenta come l’opposto di quella che ci aspetteremmo e sorridiamo: abbiamo avvertito, cioè ci siamo accorti, abbiamo intuito in modo istintivo che quella vecchia signora si è pitturata come se fosse una giovinetta. Ridiamo. E’ una situazione comica.
Se però riflettiamo più profondamente, capiamo che lei fa così perché non vuole perdere l’amante molto più giovane, allora il riso si smorza e ciò che proviamo è qualcosa di più intenso e complesso. Pirandello lo chiama umorismo. Spesso non ci chiediamo quali siano le differenze tra comico e umoristico, termini che tendiamo a confondere, eppure già la definizione che incontriamo nella Treccani indica la caratteristica dell’umorismo che vede la presenza di “umana partecipazione, comprensione e simpatia”. E quando Pirandello ne fa il cardine della propria poetica egli chiarisce bene che il sentimento di cui parla non è quello che nella polemica tra Illuminismo e Romanticismo lo opponeva alla ragione:
“Ebbene, noi vedremo che nella concezione di ogni opera umoristica, la riflessione non si nasconde, non resta invisibile, non resta cioè quasi una forma del sentimento, quasi uno specchio in cui il sentimento si rimira; ma gli si pone innanzi, da giudice; lo analizza, spassionandosene; ne scompone l’immagine; da questa analisi però, da questa scomposizione, un altro sentimento sorge o spira: quello che potrebbe chiamarsi, e che io difatti chiamo, il sentimento del contrario.”
La riflessione diventa il nuovo strumento che supera la separazione tra ragione e sentimento, perché essa è l’anima con cui l’uomo dialoga con tutte le forme dell’esistenza per andare oltre la superficie: infatti essa “si pone innanzi…analizza…scompone”. Un nuovo orizzonte si pone dunque davanti a ognuno di noi, allo scrittore prima di tutti, per cui non può esserci narrazione senza riflessione capace di andare in profondità, di scomporre i diversi elementi non accontentandosi delle prime immagini e dei semplici collegamenti.
Questa non è solo la chiave di lettura delle opere pirandelliane, ma lo strumento di conoscenza e costruzione della persona che, incontrandosi con la poesia moderna, getta le basi per nuovi percorsi e nuovi compiti.
L’incontro più interessante è però quello con la scienza della complessità, e non si limita ai tre aspetti che ho già messo in evidenza: l’irriducibilità del Caso, il ruolo dell’osservatore e l’onniscienza. Vediamo altri nodi comuni.
Si è spesso detto della narrativa pirandelliana che era considerata astrusa, cerebrale, cervellotica; lo si è detto quando a tutte le latitudini, anche politiche, dominava una visione riduzionista e semplicista, la visione della coerenza, dell’unità, dell’eccezione che conferma la regola. Cambiati molti dei paradigmi epistemologici oggi non è più accettabile l’uso di un giudizio del genere e, al contrario, abbiamo gli strumenti perché l’opera di Pirandello sia in grado di arricchire e rendere più profonda la nostra conoscenza. Pirandello prende in considerazione un personaggio e fa in modo di scarnificarlo, scomporlo in modo sempre più minuzioso, non per catalogarlo in un tipo comune, ma per mostrare come siano numerose e molto varie le differenze tra gli individui.
E’ lo stesso approccio che ha permesso alle neuroscienze di diventare una tra le scienze più innovative e produttive degli ultimi venti anni. La scienza deterministica partiva dall’osservazione dei fenomeni, cercando l’elemento unitario da trasformare in legge universale ed assoluta; lo cercava essendosi convinta di ciò perché non poteva pensare a un Dio perfetto che avesse creato un mondo imperfetto. L’atteggiamento era quello di chi crede che il tutto sia la semplice somma delle parti. Così non era per Pirandello che invece andava alla scoperta delle numerose variabili che caratterizzano l’essere umano, mettendo in evidenza omogeneità e differenze, usando strumenti che riteneva importanti, ma che non avevano valore assoluto, come ad esempio il rapporto tra vita e forma oppure la tecnica umoristica. I personaggi, pur molto diversi, riuscivano a incontrarsi in situazioni disparate, tangenti che illuminavano ma che poi tornavano nell’oscurità dell’universo. Come per le neuroscienze quella scomposizione di scomposizioni ricorda le reti di reti dei sistemi neuronali e le connessioni-complicazioni del cervello. “nei circuiti di un cervello umano vi sono miliardi di neuroni; il numero delle sinapsi formate dai neuroni non è inferiore a 10 miliardi, e la lunghezza totale degli assoni che formano i circuiti di neuroni è dell’ordine delle svariate centinaia di migliaia di chilometri…nello spazio di un secondo della vita della mente il cervello produce milioni di schemi di scarica…” (A. Damasio, L’errore di Cartesio, Adelphi 1995, pagg. 350-351)” ”Non vi è alcun centro per la visione o per il linguaggio, e nemmeno per la ragione, o per il comportamento sociale; vi sono sistemi formati da diverse unità cerebrali interconnesse”( A. Damasio, L’errore di Cartesio, Adelphi 1995, pag. 46).
”La lunga storia di Mattia Pascal, il comportamento dell’avvocato nella novella La carriola, gli eventi che coinvolsero il personaggio de Il treno ha fischiato, le differenti percezioni della signora Frola e del signor Ponza (nella novella e in Così è se vi pare), Enrico IV e il rivale Belcredi e Matilde e gli altri personaggi dell’opera teatrale, gli equivoci e le verità di Marta e Rocco ne L’esclusa, Vitangelo Moscarda di Uno, nessuno, centomila e tutto il caleidoscopico mondo di personaggi, situazioni ed eventi: tutto ciò è il tentativo di mostrare la complessità degli esseri umani nelle loro variegate manifestazioni e gli elementi che rimangono al termine delle scomposizioni esprimono sia una condizione di autonomia sia una serie di contatti che non si trasforma né in uniformità né tanto meno in unità. Quelle scomposizioni non sono quadretti da ammirare, ma strumenti utili per aiutare il lettore, ogni lettore, a scavare dentro la propria storia, una storia che è molto più spirituale che materiale.
E’ curioso, da questa prospettiva, che per decenni Pirandello sia stato ostaggio di una corrente fortemente ideologizzata che, per contrastare la società presentata come un monolite, lo ha esaltato come il grande innovatore che rivaluta i pazzi, la cui debolezza li avvicina agli sfruttati, di cui quel movimento si ergeva a difensore. E così siamo cresciuti con l’idea che non ci sia differenza tra sani e folli perché nessuno ha il diritto di emettere giudizi come sentenze: in questa scia siamo arrivati a chiudere i manicomi. Con lo stesso procedimento del “chi giudica chi?” si è deciso di abolire la meritocrazia nelle scuole, dove l’insufficienza è vista come attacco alla salute mentale dell’adolescente, e dove l’insegnante non deve rendere conto a nessuno. La diffusione del relativismo culturale, privo di fondamenta culturali e spesso logiche, ha strumentalizzato la poetica pirandelliana, dove la perdita di valori assoluti autorizzerebbe a giustificare ogni cosa e ogni persona.
Non solo, ma l’idea storica di origine cartesiana e che ha influenzato la scienza moderna ha cristallizzato l’opera di Pirandello. La res cogitans, il cogito ergo sum, hanno convinto tutti che l’IO è una sostanza, che ha caratteristiche ben precise e che permette di dar vita all’identità: è lo stereotipo, tuttora vigente, del “vero IO”, per il quale, sbavature e deficienze (piccole o grandi) non impediscono la ricerca di quell’IO al quale eventi personali, familiari o sociali hanno impedito di manifestarsi. Ed è così che le “maschere” (pirandelliane) (Maschere nude è il titolo dell’insieme delle sue opere teatrali) sono state viste come qualcosa che copre il “vero volto” dei personaggi: togliersi la maschera e il “vero IO” appare. Purtroppo le cose non stanno in un modo così semplice, perché il mettere a nudo le maschere che indossiamo significa mettere in discussione il proprio IO, fare i conti con la realtà e comprendere che il disvelamento della persona con il rifiuto della maschera è solo una tappa del processo che porta alla costruzione dell’IO. In articoli precedenti ho messo in evidenza che per la letteratura e la filosofia moderne la realtà non è oggettiva e dunque anche l’IO non è oggettivo: Baudelaire, Rimbaud, Nietzsche e compagnia bella.
Ma il riconoscimento più alto su questo tema Pirandello lo riceverà post-mortem, dalla scienza della complessità. Il sé non è un’entità definita e definibile una volta per tutte né un’astrazione del corpo, esso è invece “uno stato neurobiologico continuamente ricreato” (A. Damasio, L’errore di Cartesio, Adelphi 1995, pag. 154). “Il sé che dà soggettività alla nostra esperienza non è un ente centrale di conoscenza, un incaricato con il compito di ispezionare tutto ciò che accade nella mente” (A. Damasio, L’errore di Cartesio, Adelphi 1995 ,pag. 310). O ancora nel suo studio del 2010 Il sé viene alla mente (Adelphi, pag. 19):”Un sé esiste davvero, tuttavia si tratta di un processo, non di una cosa”, Qualche anno prima il biologo F. Varela aveva scritto: “I nostri micro-mondi e le nostre micro-identità non formano un sé unitario, solido e centralizzato, quanto piuttosto una successione di mutevoli configurazioni che emergono e svaniscono” (Know-how per l’etica, Laterza 1992- pg.40).
L’opera in cui Pirandello svela compiutamente questi aspetti è il romanzo Uno, nessuno, centomiladel 1926 il cui personaggio principale è tal Vitangelo Moscarda che un giorno si accorge che il naso pendeva contrariamente a quanto aveva pensato fino ad allora, e pendeva a destra. E’ l’inizio di una lunga riflessione che lo porterà a fare i conti con se stesso e a fare delle scelte che non tutti capiranno, nemmeno la quasi totalità dei critici.
« La realtà mia era per lei (la moglie,ndr) in quel suo Gengè ch’ella s’era foggiato, che aveva pensieri e sentimenti e gusti che non erano i miei e che io non avrei potuto minimamente alterare, senza correre il rischio di diventar subito un altro ch’ella non avrebbe più riconosciuto, un estraneo che ella non avrebbe più potuto né comprendere né amare (…) Non mi conoscevo affatto, non avevo per me alcuna realtà mia propria, ero in uno stato come di fusione continua, quasi fluido, malleabile ; mi conoscevano gli altri ciascuno a suo modo, secondo la realtà che m’avevano data ; cioè vedevano in me ciascuno un Moscarda che non ero io, non essendo io propriamente nessuno per me; tanti Moscarda quanti essi erano, e tutti più reali di me che non avevo per me stesso, ripeto, nessuna realtà.
Gengè si’ l’aveva, per mia moglie Dida. Ma non potevo in nessun modo consolarmene perché v’assicuro che difficilmente potrebbe immaginarsi una creatura più sciocca di questo caro Gengè di mia moglie Dida. E il bello intanto era questo : che non era mica senza difetti per lei quel suo Gengè. Ma ella glieli compativa tutti! Tante cose di lui non le piacevano, perché non se l’era costruito in tutto a suo modo, secondo il suo gusto e il suo capriccio : no. Ma a modo di chi allora? Non certo a modo mio, perché io, ripeto, non riuscivo davvero a riconoscere per miei i pensieri, i sentimenti, i gusti ch’ella attribuiva al suo Gengè. Si vede dunque chiaramente che glieli attribuiva perché, secondo lei, Gengè aveva quei gusti e pensava e sentiva così, a modo suo, c’è poco da dire, propriamente suo, secondo la sua realtà che non era affatto la mia.
Era manifesto che il senso che io davo alle mie parole era un senso per me; quello che poi esse assumevano per lei, quali parole di Gengè, era tutt’altro. Certe parole che, dette da me o da un altro, non le avrebbero dato dolore, dette da Gengè, la facevano piangere, perché in bocca di Gengè assumevano chi sa quale altro valore, e la facevano piangere, sissignori. Io dunque parlavo per me solo. Ella parlava col suo Gengè. E questi le rispondeva per bocca mia in un modo che a me restava del tutto ignoto.» (Uno nessuno centomila Libro II,Cap.XII).
Ho scritto di come le conclusioni del romanzo abbiano creato problemi di interpretazione spingendo alcuni a definire il romanzo poco pirandelliano perché è diverso dalle altre narrazioni: qui è infatti il trionfo della vita e non della forma. Il punto è che Pirandello ha fatto del contrasto tra vita e forma un elemento decisivo dell’esistenza umana, ma questo conflitto non ha nulla a che vedere con la dialettica ottocentesca, non c’è la vittoria di uno dei due elementi o la creazione di uno status nuovo. Lo scrittore, come uno scienziato della complessità ante-litteram, sa che le differenze esistono e non necessariamente si compongono in unità e che i processi non sono determinati, cioè non sono deterministici. Non è un caso che sempre più spesso le varie discipline scientifiche, soprattutto quelle della natura, facciano riferimento alla narrazione nello studio dei fenomeni. E così Pirandello segue, studia, narra la complessità dei personaggi, delle situazioni e degli eventi: talvolta trionfa la forma e fa soffrire, talvolta pur in un dominio generale della forma esistono spazi in cui la vita può esprimersi ed affermarsi, altrove, come nel romanzo in questione, è la vita che si impone in modo definitivo. Si impone definitivamente, ma solo nel romanzo che per necessità ha bisogno di concludere, mentre nell’esistenza umana non sappiamo cosa ne sarà del nuovo Vitangelo Moscarda, perché i diversi canali non sono separati a tenuta stagna, ma sono comunicanti e percorribili in tutte le direzioni.
E’ giunto il momento di parlare del teatro. Ho già ricordato che le opere teatrali sono state raccolte col titolo di Maschere nude, espressione che può benissimo essere usata per l’approccio alla scrittura di Pirandello. In campo teatrale si possono apprezzare molte rappresentazioni che hanno come sfondo le relazioni umane al pari dei romanzi, una festa di Carnevale, un tradimento, la follia vera o presunta, le dicerie, il piacere e la passione, le superstizioni, il giustificare le proprie ragioni e tant’altro. C’è però anche una parte che è fortemente innovativa e si riferisce a tre opere che possiamo raccogliere nell’espressione “Teatro nel teatro”: Sei personaggi in cerca d’autore, Stasera si recita a soggetto, Ciascuno a suo modo.
A differenza delle altre opere queste affondano lo sguardo e scavano dentro il mondo del teatro, con tutti i suoi componenti, dall’autore al direttore, dagli attori al pubblico e a tutti gli altri che operano in questo settore. Pirandello conosceva bene il mondo del teatro e questo scavo in quel mondo corrisponde a un entrare in profondità dentro se stesso, una autoanalisi condotta con gli strumenti che lo scrittore ha sempre usato e che gli hanno permesso di portare alla luce la realtà sommersa dell’esistenza e dei suoi protagonisti. Il teatro nel teatro non fu un’invenzione di Pirandello e in quell’epoca storica soprattutto in Germania si procedeva a molte sperimentazioni, ma si trattava di qualcosa che mirava principalmente all’innovazione formale e scenica, mentre nelle opere dello scrittore siciliano si toccano aspetti che mettono in discussione il ruolo dei protagonisti fino a giungere a interrogarsi sul senso dell’arte e delle sue manifestazioni.
L’opera che ha colpito molto di più è stata la prima, Sei personaggi in cerca d’autore, per il suo carattere di maggiore coinvolgimento e di maggiore complessità, con la sovrapposizione marcata tra i personaggi che sono alla ricerca di un autore che ne rappresenti la storia e gli attori di professione che, nonostante le capacità, hanno difficoltà a rappresentare quella storia. Sembrano sfumature, piccoli elementi, quelli che segnano la differenza tra i due mondi, ma in realtà si tratta di quella quantità di aspetti che rende la realtà, e le persone che la popolano, completamente unici. L’arte crede di poter procedere a unità, ricomponendo le numerose fratture che ogni essere umano incontra nell’arco di una vita, ma è solo una pretesa; e Pirandello aveva compreso, negli stessi anni in cui si afferma la fisica quantistica, che l’arte, per quanti sforzi faccia, non riuscirà mai a dare una unica chiave di lettura.
Non si tratta di dichiarare morta l’arte, come pretesero molti che al suo funerale si presentarono come gli unici e veri depositari dell’arte. Pirandello riconosce un ruolo alle manifestazioni artistiche che servono a svelare il carattere complesso della realtà, ma per fare questo bisogna sottrarre l’arte al ruolo che ha sempre avuto, quello di rappresentare la realtà o quello di sublimarla.In questo senso, oltre agli aspetti già evidenziati che portano a un incontro tra letteratura e scienza della complessità, ne vanno evidenziati ancora almeno tre.
1)La dimensione frattale fu presentata da Mandelbrot negli anni ’70 del 1900 e permette una conoscenza più approfondita sia delle reali geometrie, che nella visione euclidea sono idealizzate, sia dei meccanismi che portano alla configurazione degli oggetti. Come scriverà Stoppard in Arcadia “le montagne non sono triangoli”. In questo senso la trilogia ci offre una prospettiva che cerca di individuare una dimensione che non sia quella tradizionale “o realtà o arte” ma che si collochi tra queste due dimensioni intere: non esiste solo il mondo a due dimensioni o a tre dimensioni, ma anche un mondo a dimensioni frattali.
2)Il teatro nel teatro introduce un tema che sarà sempre più pressante e decisivo nell’epistemologia contemporanea: non esiste solo la realtà da conoscere, ma la conoscenza stessa è parte essenziale del processo di conoscenza. Come ricordano i biologi Maturana e Varela: “Noi affermiamo che alla base delle difficoltà dell’uomo attuale sta il mancato riconoscimento della conoscenza. Non è la conoscenza, ma la conoscenza della conoscenza ciò che obbliga…Confondiamo l’immagine che cerchiamo di proiettare, il ruolo che cerchiamo di proiettare, il ruolo che rappresentiamo, con l’essere che realmente costruiamo durante la nostra vita quotidiana” (L’albero della conoscenza, Garzanti, 1987).
3)Come sappiamo, l’epistemologia contemporanea sottolinea il cambiamento del concetto di problema. Storicamente si è sempre considerato problema solo quello che poteva avere una soluzione, mentre oggi, recuperandone il significato etimologico (pro-plema da pro-ballein, gettare avanti) è qualsiasi cosa su cui riteniamo doverci impegnare. Questo avviene perché si è abbandonata la concezione oggettiva della realtà, nella cui indagine potevamo giungere alla formulazione di leggi assolute, universali e quindi definitive. E’ così che questa nuova concezione trova in Pirandello un precursore già nelle altre opere, ma in modo ancora più marcato nella trilogia del teatro nel teatro. Pensiamo ai personaggi che compaiono all’improvviso nel teatro dove si stanno facendo le prove di una rappresentazione (per l’appunto di Pirandello, Il giuoco delle parti), figure che il senso comune tende a rigettare perché di difficile comprensione e anche intuizione: non sono né una famiglia comune né personaggi silenziosi scritti sulle pagine di un libro. Eppure ciò che impongono all’attenzione di tutti è qualcosa di ancor più reale e significativo; sono il problema che non trova soluzione, ma che può e deve essere posto, perché è qualcosa che dobbiamo comunque affrontare. Non arriveremo alla formula che lo risolva, ma la sua narrazione in termini di problema ci permette di poterlo gestire, in forme sempre nuove e sempre più adeguate.
POSTFAZIONE
Questo articolo non è una lezione cattedratica, come ne ho fatte in tanti anni nelle scuole italiane e nei Licei stranieri; esso presuppone al contrario una conoscenza generale dello scrittore siciliano, una conoscenza frutto dello studio scolastico. Non era mia intenzione parlare della vita, delle opere, della poetica: sarebbe stato interessante ma di fatto chi ha frequentato in modo dignitoso una scuola secondaria superiore non ha bisogno di nuove ripetizioni. Di libri su Pirandello, come su ogni altro scrittore, librerie e biblioteche sono piene e in più Internet ha offerto la possibilità di interessanti riassunti come quelli proposti dai numerosi siti per studenti.
Questo articolo vuole essere in sintonia con quanto mi propongo da anni, e cioè mostrare il legame profondo che esiste tra la nuova letteratura e la scienza contemporanea, quella che chiamo della complessità. Non è importante credere a un’anticipazione, come io credo, soprattutto perché, posta in questi termini, la questione può dar adito a incomprensioni ed equivoci. In realtà metto in evidenza che da metà dell’Ottocento il pensiero e il costume hanno espresso tratti comuni sia in ambito letterario sia in ambito scientifico tradizionale. Ciò è successo pur tra mille contraddizioni, ma questo è il bello della complessità, e solo chi abbandona le certezze e la fede nella verità unica può apprezzarne il valore, anche a livello individuale e personale. Quando parlo di complessità voglio mettere in evidenza una serie di elementi allo stesso tempo omogenei e contraddittori: quando si insegna letteratura si tende a cercare una linea che favorisca la creazione di uno schema. Questo percorso unidirezionale lo si fa per motivi didattici, perché siamo convinti che un adolescente riesca meglio ad avvicinarsi alla letteratura se ne semplifichiamo i processi. Così al Medioevo secolo buio si contrappone la Rinascita del Rinascimento, e a questo universo di ordine subentra la confusione barocca, ma finalmente la ragione riprende il sopravvento con l’Illuminismo, sovrastato dal Romanticismo e così via. Questo modo di presentare autori e movimenti non è più adeguato e dobbiamo fare un salto, adeguandoci a quanto e come la cultura si sia evoluta: in questo senso la crisi del determinismo è un punto di non ritorno. Se fino a non molto tempo fa si continuava a chiamare post-romantico il movimento decadente e a privilegiare la rappresentazione realista e neorealista, oggi dobbiamo porci oltre.
E’ in questo senso che va letto il mio articolo su Pirandello, in sintonia con gli intenti di questo Corso di letteratura non deterministica, con la differenza che, mano a mano che ci avviciniamo al XXI secolo, i punti di contatto risultano essere maggiori. E’ per questo che ho preferito sviluppare questo aspetto, perché ciò che mi interessa, dopo aver dialogato per decenni con gli adolescenti sul “perché studiare letteratura”, oggi posso fornire non delle verità e delle risposte sicure, ma senz’altro delle suggestioni che allargano la prospettiva e gli orizzonti. Come sempre dipende dal lettore.