Gabriele D’Annunzio | L’incompreso |
Non ero molto convinto di dedicare un capitolo, pur breve, al Vate D’Annunzio, ma la propaganda per buttarlo fuori a calci dal panorama letterario, orchestrata dalla critica militante che ha invaso la scuola per decenni, mi ha spinto a cimentarmi con uno degli autori più importanti della letteratura italiana degli ultimi due secoli. Quando studiavo, l’ideologia non aveva ancora avuto il sopravvento e si studiava uno scrittore per le sue opere senza nascondere nulla della sua vita, ma prestando maggiore attenzione a ciò che aveva scritto. Dagli anni ’70 però egli fu estromesso e, se fosse stato in vita, sarebbe stato mandato in un campo di lavoro per essere rieducato: l’etichetta di fascista (o peggio) era sufficiente al Tribunale Popolare e pronto era il plotone d’esecuzione.
Insisto su questo aspetto perché, una volta passata la tempesta, si contano i danni e viene anche da sorridere: gli stessi che avevano osannato Stalin, il piccolo padre e benefico protettore dell’umanità, osavano criticare D’Annunzio perché fautore del Superuomo di derivazione nietzschiana.
Un italiano che aveva combattuto per l’Italia e soddisfatto i legittimi interessi e i profondi legami con l’Italia degli abitanti di Fiume, un italiano che aveva ottenuto riconoscimenti in tutta Europa e i cui legami col fascismo e Mussolini erano più tesi che coesi: antidemocratico per profonda convinzione culturale come gli antidemocratici che sedevano in Parlamento per smascherare lo Stato borghese in attesa della Rivoluzione.
Ho intitolato questo capitolo: D’Annunzio, l’incompreso. L’ho fatto perché si continua a non voler comprendere la complessità dello scrittore e poeta e uomo d’azione e uomo di cultura. Dopo che col nuovo millennio anche i personaggi scomodi ricevevano almeno un’attenzione che era loro mancata, è rimasta una certa remora ad affrontare D’Annunzio, una remora solo in parte ideologica, ma soprattutto metodologica. Questo perché si continua a ricercare una linea che permetta di individuare “il vero D’Annunzio”, per cui, a seconda degli interessi di chi ne parla, si evidenzia ora questa ora quella caratteristica, dichiarando le eccezioni come conferma della regola e rispondendo sempre con la solita frase: “Sì ma”.
Anche i migliori manuali delle Superiori, pur adeguandosi ai nuovi orientamenti, mantengono un profilo basso rispetto al poeta abruzzese. Ad esempio il testo che ho scelto a cavallo di millennio dedica una sola Unità a D’Annunzio con 5 poesie tratte dall’Alcyone e qualche altro brano. Questo in un libro dedicato al Novecento dove lo stesso spazio è dedicato a Giacosa, ai Manifesti del Futurismo, al Gattopardo, alle Lettere di Gramsci. Non mi interessa criticare una scelta sacrosanta in un libro che comunque ritenevo un ottimo libro, ma mettere in evidenza la fatica che in Italia facciamo nel fare i conti con la storia e la cultura del Paese, sempre anteponendo posizioni ideologiche e avendo difficoltà a prospettive ed orizzonti più attuali. Quando è apparso nelle scuole quel libro di testo, il pensiero complesso era già uscito dal campo dei neofiti e sempre di più erano gli studi sulle nuove epistemologie e li potevamo leggere tradotti in italiano.
Cercherò di evitare una interpretazione personale secondo schemi abbastanza tradizionali, ponendo maggiore attenzione sugli aspetti che fanno pensare alla complessità e che dunque possiamo meglio utilizzare oggi, per la comprensione e la costruzione della nostra persona.
Il manuale che ho avuto come riferimento nei miei anni di insegnamento, oltre alla riduzione di D’Annunzio al solo Alcyone, riduce anche le sue caratteristiche poetiche a quel fenomeno letterario che va sotto il nome di “estetismo”, di cui vengono proposte tre varianti: la voluttà e la sensualità, un certo sentimentalismo quasi di sfinimento e il desiderio di dominio con una forzatura della “volontà di potenza nietzschiana”.
La cultura italiana ha impiegato quasi un secolo per riconoscere le differenze tra il superuomo di Nietzsche e il superuomo dannunziano, preferendo demonizzare il poeta abruzzese per non fare i conti con il pensiero del filosofo tedesco. Già Svevo si era sentito in dovere di criticare l’interpretazione che di Nietzsche aveva fatto D’Annunzio, in modo più profondo di Montale (…i poeti laureati si muovono soltanto fra le piante dai nomi poco usati: bossi ligustri o acanti) e sicuramente agli antipodi delle offese di Tabucchi-Pessoa (assolo di trombone). Desolante spettacolo, ma in sintonia con purghe e gulag che hanno polarizzato la riflessione su D’Annunzio: così che l’epurazione della sinistra ha fatto sì che la destra ne rafforzasse la visione autoritaria e la stessa cosa succederà decenni dopo con Ezra Pound, come sappiamo dai fatti di cronaca. In questa polarizzazione si è inserita la critica meno intransigente che ha cominciato a valorizzarne alcuni aspetti, più vicini a quello che veniva chiamato “decadentismo”, come La sera fiesolana, La pioggia nel pineto e in generale Alcyone. Questo avvicinamento è stato importante seppur timido, e attento a non disturbare troppo chi aveva emesso la sentenza capitale.
Premetto che esco fuori dalla diatriba ideologica, mi considero un liberaldemocratico, anticomunista e antifascista, che non ha amato D’Annunzio perché pecora del gregge, che ha cominciato a recuperarne alcune parti perché amavo Pascoli e che infine si è liberato completamente del piombo del politicamente corretto e ha cominciato a leggere gli autori con l’obbiettivo di cui parla Paz, di far nascere il poeta che legge.
Ricapitoliamo brevemente l’attività letteraria e umana dello scrittore.
Fu poeta, novelliere, romanziere, tragediografo, diarista, autore di lettere e proclami, musicista e musicofilo; non si cimentò nella saggistica nonostante la sua ampia e ricca cultura, preferendo trasferire il suo pensiero nell’animazione delle opere.
A livello umano fece di tutto, nel senso letterale del termine, un tutto sempre elevato e mai superficiale: noti i suoi amori, il suo impegno militare in onore dell’Italia (Prima Guerra Mondiale, volo su Vienna e Impresa di Fiume in modo particolare), il suo impegno politico sia in Parlamento sia a Fiume, alla cui Costituzione molto libertaria dette il suo contributo, sviluppò amicizie importanti nel campo della letteratura, della musica e della pittura.
D’Annunzio è uno dei pochi scrittori che ha saputo coniugare IO storico e IO poetico, non avendo il bisogno di coprirsi dietro personaggi che in qualche modo parlassero al posto suo, e lo ha fatto in modo ampio senza forzature e senza nascondersi, usando il vocabolario, etico e linguistico, che gli apparteneva.
Credo che manchi nei confronti dello scrittore abruzzese proprio questo punto di partenza e questa ottica che ci permette di coglierne gli aspetti più particolari e specifici, ma allo stesso tempo di vederne le proiezioni, molto utili oggi a un secolo di distanza.
Non trovo interessante quanto finora esposto ai vari angoli della riflessione, D’Annunzio servo del capitalismo, proto-fascista, fascista, a-fascista, come se il problema sia valutarne l’integrità rispetto al “male del secolo” ovvero il fascismo. Dopo decenni di condanna si è cercato di rivalutarlo mostrandone la distanza dal fascismo e così provocando la reazione della destra che si è opposta a questa separazione del poeta dal fascismo. Anche i critici più moderati che hanno cercato di evitare questa taratura del poeta intorno al fascismo, mostrano difficoltà nel riconoscerne persino il valore culturale: D’Annunzio sarebbe stato abile e geniale nel saper assimilare i temi e i modi della migliore letteratura contemporanea, ma quasi mai tale assimilazione fu autentica e profonda.
Risulta ostico comprendere in cosa consista l’autenticità e la profondità di questa assimilazione come pure risulta difficile capire quale sia la migliore letteratura contemporanea, visto che nonostante tutto Il piacere rimane tutt’oggi uno dei manifesti dell’estetismo insieme a Il ritratto di Dorian Gray, Ritratti immaginari e A rebours. Il punto è che la letteratura moderna si caratterizza per una complessità di espressioni che non ha paragoni con i movimenti che l’hanno preceduta e l’aver continuato con la scomposizione in movimenti ha creato ulteriori problemi. Poeti e scrittori che hanno vissuto questa nuova stagione sono stati forzati a entrare in uno dei tanti circoli che si sono voluti vedere e creare solo per un’attitudine semplicistica: decadentismo, estetismo, crepuscolarismo, futurismo, modernismo, ermetismo e altri insiemi e sottoinsiemi. Già Montale aveva avuto modo di discutere questa abitudine: “Eppure l’Italia, fra i paesi di alta cultura il più immune dagli ismi, è anche quello in cui la critica sembra più ossessionata da questo inesistente problema. Di fronte a un artista o a un poeta la nostra critica…non si pone il problema dell’autenticità della sua arte, della sua poesia; si chiede invece s’egli appartenga o no alla casta degli ermetici o dei decadenti; e a seconda delle conclusioni vengono emesse esecuzioni sommarie o frettolosi riconoscimenti.” (Esiste un decadentismo in Italia? in “La Lettura”, a. II, n.26, 29 giugno 1946- Sulla poesia, Ed. Mondadori 1976, pag.114-115).
Non mi interessa demonizzare o esaltare il poeta abruzzese, perché ritengo superati sia l’approccio ideologico sia l’approccio estetico: ciò per cui vale la pena leggere un autore, una sua sola opera o alcune o tutta la produzione, è quanto sia capace di stimolare dentro di me una crescita personale non in termini di opinioni ma di capacità di creazione, capacità di creare possibilità, in ultima istanza volontà di potenza. Nutrirsi di letteratura significa espropriare l’autore di quanto in origine era suo per comporre la mia persona, indipendentemente da quelle che sono le intenzioni, dichiarate o immaginate, dello scrittore.
Non cerco “il vero D’Annunzio” né mi interessa ritrovare nelle sue pagine “vicinanza o lontananza” con la mia visione delle cose: è naturale che sia io l’interprete delle sue parole che confronterò con le mie e non è importante che ci sia consonanza tanto che persino il misunderstanding deve essere apprezzato perché esso, pur innescato dallo scrittore, è creazione mia. Di cui mi assumo la responsabilità e con cui devo fare i conti.
Ciò che colpisce nella lettura della prosa e della poesia dannunziane è la complessità delle attenzioni verso angoli troppo spesso trascurati della realtà umana in senso lato: D’Annunzio non si tira indietro e mette nelle sue opere tutto se stesso, e in modo particolare tutti i suoi dubbi, le sue inquietudini, insomma il senso della sua esistenza. Non si può ridurre questa ricerca a qualcosa di individualistico, “un’arte per iniziati, per bonzi della cultura, arte avulsa (la parola è di rito) dalla vita di quaggiù, dai fatti che interessano la nostra povera e comune umanità. Non ci si preoccupa punto delle origini e del significato di una sensibilità che ancora non accenna ad esaurirsi. E si conclude che decadentismo…vuol dire torre d’avorio, orto concluso, ossia (e la deduzione vien data come perfettamente logica!) non-arte” (E. Montale, idem pag. 114).
D’Annunzio è forse il primo narratore italiano che indugia su quelli che sono stati e sono i sogni di molti; quello che è stato chiamato estetismo e spesso trattato con disprezzo è forse una componente importante dell’immaginario maschile, ma non solo. Insistere come fatto determinante sulla decadenza nobiliare, sulla ricchezza di gusto e cultura di molti personaggi, esteticamente determinati, sul fallimento dei loro sogni di gloria significa non com-prendere ciò che i romanzi suggeriscono.
Andrea Sperelli fa suoi gli insegnamenti del padre come “bisogna fare la propria vita come si fa un’opera d’arte […]. La superiorità vera è tutta qui. […]. “Bisogna conservare ad ogni costo intiera la libertà, fin nell’ebrezza. La regola dell’uomo d’intelletto, eccola: – Habere, non haberi” e “Anche, diceva: Il rimpianto è il vano pascolo d’uno spirito disoccupato. Bisogna sopra tutto evitare il rimpianto occupando sempre lo spirito con nuove sensazioni e con nuove imaginazioni.” […] “Nel tumulto delle inclinazioni contraddittorie egli aveva smarrito ogni volontà ed ogni moralità. La volontà, abdicando, aveva ceduto lo scettro agli istinti; il senso estetico appunto, sottilissimo e potentissimo e sempre attivo, gli manteneva nello spirito un certo equilibrio; così che si poteva dire che la sua vita fosse una continua lotta di forze contrarie chiusa ne’ limiti d’un certo equilibrio. Gli uomini d’intelletto, educati al culto della Bellezza, conservano sempre, anche nelle peggiori depravazioni, una specie di ordine. La concezione della Bellezza è, dirò così, l’asse del loro essere interiore, intorno al quale tutte le loro passioni gravitano.””Ma queste massime volontarie, che per l’ambiguità loro potevano anche essere interpretate come alti criterii morali, cadevano appunto in una natura involontaria, in un uomo, cioè, la cui potenza volitiva era debolissima.” (G. D’Annunzio, Il piacere, libro I, cap. II).
Un altro romanzo sviluppa questi aspetti andando a toccare tessuti, sani feriti o addirittura piaghe, che abbiamo difficoltà ad affrontare. Il titolo stesso, Il trionfo della morte, assume di per sé un importante significato. Se il Cristianesimo medievale accettava la morte con tacita serenità in quanto viatico per il Paradiso, il Cristianesimo tridentino vi si avvicina con maggiore trepidazione e in modo non neutro, perché, cogliendo lo spirito dei tempi, esso rivaluta in modo non provvisorio la vita umana stessa. Anche le manifestazioni espressive vanno in questa direzione: teschi, scheletri, clessidre e soprattutto le rappresentazioni dei martìri. Continuare a considerare la Controriforma come il male assoluto non solo comporta una visione sfasata, ma soprattutto implica per le future generazioni una difficoltà a comprendere le nuove frontiere della religiosità popolare. Il romanzo si muove in questo mondo e l’avvicinarsi di Giorgio Aurispa a una sorta di misticismo religioso risanatore porta alla luce tutta la tensione che l’individuo vive nei confronti di qualcosa che alla fine gli appare come degradante: l’acme di tutto questo è espressa nel pellegrinaggio alla Madonna dei Miracoli di Casalbordino. La morte non è la naturale conclusione della vita umana, ma qualcosa che può essere in grado di esaltare la ricerca dell’assoluto, prefigurazione del moderno rapporto tra finito e infinito. E’ in gioco il conflitto tra materia e spirito posto su una prospettiva nuova e che trova nell’aspirazione al superuomo l’unico modo per dare un senso alla propria esistenza. Il suicidio con cui Giorgio termina la sua esistenza, e D’Annunzio il libro, mostra l’enorme difficoltà dell’uomo moderno di liberarsi del peso del mondo e della materia e di costruire un percorso che ne valorizzi orizzonti e prospettive. Il contrasto tra Giorgio e Ippolita è semplice se lo riduciamo al conflitto tra maschio e femmina, ma D’Annunzio, pur riconoscendogli i limiti di un contesto storico facilmente riconoscibile, ha sviluppato dinamiche molto più complesse in quel contrasto: parlare di femme fatale e di desiderio di possesso tipicamente maschilista impedisce di vedere la complessità di quella relazione, di interesse anche ai giorni nostri. In essa entrano numerosi fattori, la cultura, le tradizioni popolari, la religiosità nelle forme intime e in quelle popolari, il desiderio sessuale e l’erotismo, le radici della terra e quelle del cielo nelle forme della modernità, e infine la volontà di potenza svelata senza moralismi.
E così arriviamo al romanzo che doveva essere solo la prima parte di un ciclo nuovo: Le vergini delle rocce. Molto si è scritto su quest’opera soprattutto per i maggiori riferimenti all’idea del superuomo che però D’Annunzio deforma secondo i propri interessi che, va ricordato, sono più poetici che filosofici. Ed è proprio l’aspetto poetico che dovrebbe stimolarci a una lettura meno superficiale: ma di questo parlerò più tardi entrando nei versi più importanti e anche famosi.
Qui prendo pretesto dai tre romanzi per sottolineare un aspetto che è evidente, ma che può aiutare ad andare oltre certi facili giudizi e alcune semplici valutazioni. Che si tratti di superuomo, dominante ed esteta, oppure dell’uomo nichilista, dominato dal senso di morte, nei tre romanzi centrale è la presenza femminile.
D’Annunzio e la donna o, meglio, D’Annunzio e le donne. Credo che questo aspetto, soprattutto oggi, possa aiutare ad entrare meglio nel rapporto storico, ma anche universale, tra maschio e femmina. Ho detto “soprattutto oggi” perché ci troviamo di fronte a una demonizzazione del maschio che, come ogni simile fenomeno, evidenza solo volontà di potenza che impedisce di vedere ciò che si cela nelle profondità di una relazione che percorre in modo complesso la storia tutta dell’umanità.
Molto è stato scritto sulle relazioni amorose ed erotiche, soprattutto erotiche, vissute storicamente dal poeta abruzzese e molto si è scritto anche sulle figure femminili delle sue opere. I rapporti con Eleonora Duse, Barbara Leoni, Giuseppina Mancini e tutte le altre di cui spesso sono riportati i gesti concreti come il primo bacio, si sono spesso mescolati e sovrapposti con quelli tra i suoi personaggi maschili e le varie Elena, Maria, Anatolia, Violante, Ermione. Questa sovrapposizione, per quanto suggestiva, oscura ciò che invece vediamo con estrema chiarezza ovvero la dimensione letteraria di quelle relazioni, che ci proietta in una realtà con la quale il lettore può più facilmente confrontarsi e della quale il lettore può servirsi meglio per costruire la propria persona. Il #metoo e il femminismo nelle sue varie declinazioni degli ultimi decenni sono meno reali delle opere letterarie perché essenzialmente ideologici. Ancora una volta per qualcuno si pone il problema di come non essere anti-dannunziani e per questo si cita il clima di libertà e parità sessuale di cui D’Annunzio si fece promotore nel periodo della Reggenza Italiana del Carnaro, cioè la libera città di Fiume. In generale, anche i più fervidi detrattori di D’Annunzio ne lodano le doti amatorie (sic!) mostrando la sua capacità di seduzione ed è difficile trovare delle reprimende nonostante dichiari apertamente come l’amore o l’erotismo rappresentino “volontà di possesso” che, per come è posta, ridurrebbe la donna a oggetto.
Il nodo è che D’Annunzio è disinteressato ad ogni disputa ideologica e i suoi alter ego letterari mostrano la complessità di quella faccia della vita che è rappresentata dall’amore. Contrariamente agli stereotipi sull’amore che accomunano maschi e femmine, oltre al ricco panorama LGBTQI, D’Annunzio pone le relazioni prima di tutto sul piano erotico: mentre ancora oggi si confondono i tre piani delle relazioni, sesso erotismo e amore, D’Annunzio porta alla luce aspetti di quell’universo che rappresentano un punto di non ritorno e che sono difficilmente equivocabili. Non sono la verità, ma sono delle verità con cui fare i conti. L’ideologia fascista della famiglia-patria, l’annullamento dell’individuo nella famiglia-patria sovietica, il perbenismo comunista, compreso l’odio contro gli omosessuali di tutto il mondo comunista dall’URSS a Cuba ai rivoluzionari italiani, la libertà “sessuale” dagli anni Sessanta in poi mostrano l’incapacità di confrontarsi con i turbamenti, le proiezioni, le illusioni, le attenzioni, il dolore e il piacere che quelle relazioni richiedono. A differenza del Marchese de Sade, D’Annunzio non ci offre un panorama di legittime perversioni o pratiche sessuali, approvate o condannate a seconda del punto di vista, ma si interessa al vasto mondo delle relazioni che coinvolgono, e legano, le persone in quella forma di affetto che comunemente chiamiamo amore. Mentre Madame Bovary o la successiva Lady Chatterley pretendono, in modo anche egregio, di lanciare un messaggio che rende la donna protagonista seguendo l’anima del tempo, sconfitta e vittoria, D’Annunzio parla di sé e attraverso questo dialogo scopre i veli che abbiamo fatto nostri per non voler fare i conti con le parti più intime del nostro essere. Non si tratta di fustigazioni né di estatici orgasmi e neppure di migliorare le condizioni sociali criminalizzando borghesia e nobiltà, ma di guardare meglio e riflettere su quel turbinio di sentimenti e pensieri che si affollano dentro la nostra anima e la conformano, quando parliamo di “amore”.
I pensieri che scorrono in Andrea Sperelli nell’attesa di Elena all’inizio de Il piacere, pensieri fatti di ricordi che animano il presente e cercano di capire: “Per la natura del suo gusto, egli ricercava negli amori un gaudio molteplice: il complicato diletto di tutti i sensi, l’alta commozione intellettuale, gli abbandoni del sentimento, gli impeti della brutalità.”
La ferita profonda che sente lacerare più l’anima del corpo nel pensare agli amplessi tra Elena e il marito.
L’impossibilità di rivivere quanto già vissuto nelle forme più estatiche e orgasmiche: “D’innanzi a quell’uomo a cui un tempo l’aveva stretta una così alta passione, in quel luogo dove ella aveva vissuto la sua più ardente vita, sentiva a poco a poco tutti i pensieri vacillare, dissolversi, dileguarsi.” Andrea, guardandola, pensava: «Io ho posseduto questa donna, un giorno.» Egli ripeteva a sé stesso l’affermazione, per convincersi; e faceva, per convincersi, uno sforzo mentale, richiamava alla memoria una qualche attitudine di lei nel piacere, 31 cercava di rivederla fra le sue braccia. La certezza del possesso gli sfuggiva. Elena gli pareva una donna nuova, non mai goduta, non mai stretta.
Le ambiguità reali con cui Andrea ed Elena si fronteggiano nel ricordo del piacere e nel ricordo del dolore, mentre la presenza della donna che pure ha accettato l’invito non può non lasciare deluso il giovane Sperelli: sono quegli attimi contraddittori e allo stesso tempo reali che aprono il mondo dell’anima nelle forme dell’amore, che non è un gioco, che non è falsità, ma la cui verità sfugge alla piena coscienza degli individui.
E la descrizione dell’incontro rivela le forme della seduzione che mostrano come tanti piccoli segnali facciano breccia in Andrea che svela quale sia l’elemento che lo colpisce, e la seduzione non è tanto il desiderio di un amplesso, le cui forme sono indifferenti, ma l’incontro con un’anima: «Qual era dunque la vera essenza di quella creatura?…Ci sono certi sguardi di donna che l’uomo amante non iscambierebbe con l’intero possesso del corpo di lei. Chi non ha veduto accendersi in un occhio limpido il fulgore della prima tenerezza non sa la più alta delle felicità umane. Dopo, nessun altro attimo di gioia eguaglierà quell’attimo.”
E la relazione prende corpo nell’incontro dei corpi, un incontro che non ha bisogno di dettagli e di elenchi delle posizioni:
— Elena! Elena! Mio amore! Elena aveva chiuso gli occhi, come per gustare più intimamente il rivo di piacere che le saliva dal braccio e le si effondeva a sommo del petto e le s’insinuava nelle fibre più segrete. Volgeva la mano, sotto la bocca di lui, per sentire i baci su la palma, sul dosso, tra le dita, intorno intorno al polso, su tutte le vene, in tutti i pori.
Non siamo a Khajurao, ma in Occidente.
Certo un romanzo è anche una storia, ci sono dei personaggi, degli eventi, delle riflessioni, dei luoghi, un tempo abbastanza preciso, oggetti e tanto altro, ma a me non interessa la relazione che lega la prima all’ultima pagina, non interessa perché, in questo romanzo come in altri dannunziani, non conta il cosa ma il come. Un lettore di oggi, che vive l’amore, di cui non sa niente, confuso dalle mille spiagge che gli ultimi decenni hanno mostrato, ma senza perlustrare l’interno del territorio, quel lettore ha bisogno di fare i conti con quella cosa che chiama “amore”, ha bisogno di Petrarca, di Tasso, di Leopardi, dei poeti moderni e ha bisogno di soffermarsi su quei momenti non superficiali che il poeta abruzzese estrae dalla sua esistenza. Perché, come ricorderà più tardi Octavio Paz, l’amore è cosa distinta dall’erotismo e D’Annunzio ci fa partecipi di questa differenza.
Un altro romanzo importante, in questa prospettiva, è Il trionfo della morte.
Al di là della storia che pure si presenta avvincente, sono le riflessioni e il continuo dipanarsi dei flussi di coscienza a caratterizzare il romanzo; ma soprattutto, nella prospettiva che ho introdotto, sono gli elementi così specifici e particolari, dell’agire e del pensare, di un agire interconnesso con il pensare, relativi all’amore tra Giorgio e Ippolita, gli elementi che trovo decisivi.
Da un lato c’è l’approfondimento di come il corpo sia fonte di attrazione ed eccitazione nelle sue infinite manifestazioni, comprese le deformazioni e le piaghe che nella migliore tradizione martirologica spingono i sensi in una forma di struggimento che arde le carni anche alle estreme conseguenze.
Da un altro lato c’è il rapporto tra Amore e Morte che esce dal mito e dalla definizione archetipica che ne farà Freud per entrare nella concretezza e specificità di un rapporto d’amore. In questo senso non è solo il panorama di morte dei corpi deformi nella processione e l’insistenza sul tema del suicidio che a me interessano, ma le dinamiche che accoppiano la costruzione e la distruzione in una sintesi che ognuno di noi ha conosciuto. Un piccolo esempio all’inizio del romanzo: “- Incomincia così – egli riprese persistendo in quel sorriso acerbo, in quello sguardo acuto. – Tu provi in fondo all’anima una inquietudine, una specie d’impazienza vaga, che tu non sai soffocare. Standomi vicina, tu senti che qualche cosa in fondo all’anima ti si leva contro di me, quasi una ripugnanza istintiva, che tu non sai soffocare. E divieni taciturna; e devi fare uno sforzo immane per dirmi una parola; e intendi male quel ch’io ti dico; e involontariamente, anche in una risposta insignificante, la tua voce è dura. Ella non l’interruppe neppur con un gesto. Ferito da quel silenzio egli seguitò; e lo spingeva non soltanto la smania acre di tormentare la sua compagna, ma anche un certo gusto disinteressato delle investigazioni”.
L’Odi et amo di Catullo appartiene ai primi passi della comprensione di quello che sarà amore e non dimentichiamo che la maggior parte dei versi di Catullo parla di vagine, peni, ani, penetrazioni, liquidi con riferimenti molto volgari agli amanti. In D’Annunzio l’approfondimento è fatto in modo scientifico, colto a evidenziare i particolari che non trovano mai una direzione unitaria. Le tensioni del corpo convivono con quelle dell’anima, la forza vitale si scontra con la componente distruttiva, il possesso va di pari passo con il vuoto, la fusione talvolta apparente talvolta reale lascia spesso gli individui separati se non proprio distanti, il piacere è nelle carezze, nei baci, negli orgasmi e nei pensieri, ma allo stesso tempo esso si manifesta attraverso il rimprovero e la ferita. Insomma anche in questo romanzo ci viene offerta la possibilità di fare i conti con noi stessi, con il nostro modo di amare, con le nostre aspettative e ci invita a non nascondere e a non trascurare tutti gli aspetti, più o meno grandi, che ci troviamo a vivere.
Ecco qui di seguito alcuni passi solo esemplificativi.
Nulla, o quasi nulla. Io non posseggo quel ch’io vorrei possedere. Tu mi sei ignota. Come qualunque altra creatura umana, tu chiudi dentro di te un mondo per me impenetrabile; e la più ardente passione non mi aiuterà a penetrarlo. Delle tue sensazioni, dei tuoi sentimenti, dei tuoi pensieri io non conosco se non una minima parte.
Egli imaginò fisicamente l’urto del corpo contro la pietra; e rabbrividì. Poi per tutto il corpo provò come una ripulsione forte, angosciosa e mista d’una strana dolcezza. L’imaginazione gli rappresentò la delizia della prossima notte: – l’addormentarsi a poco a poco nel languore; il risvegliarsi con una piena di tenerezza misteriosamente accumulata nel sonno. Imagini e pensieri si succedevano in lui con una straordinaria rapidità
Giorgio pensava, guardandola con una curiosità intenta: «Di quante diverse apparenze ella si veste agli occhi miei! La sua forma è disegnata dal mio desiderio; le sue ombre sono prodotte dal mio pensiero. Ella, quale m’appare in tutti gli istanti, non è se non l’effetto d’una mia continua creazione interiore. Ella non esiste se non in me medesimo. Le sue apparenze sono mutevoli come i sogni dell’infermo. Gravis dum suavis! Quando?»
Ella, nell’ingenuità del suo egoismo, sembrava non avere alcuna consapevolezza del male che faceva, dell’opera distruttiva a cui attendeva senza tregua e senza ritegno. Abituata alle singolarità dell’amante – alle sue malinconie, alle sue contemplazioni intense e mute, alle sue inquietudini subitanee, ai suoi ardori cupi e quasi folli, alle sue parole amare ed ambigue – ella non comprendeva tutta la gravità della condizion presente ch’ella medesima aggravava sempre più, d’ora in ora.
Ma di quell’inestinguibile desiderio, da lei acceso nell’amante, ella medesima ardeva. Ed ella medesima provava gli effetti della malìa nell’operarla. La consapevolezza del suo potere, mille volte esperimentato senza fallire, la inebriava; e l’ebrietà accecandola le impediva di scorgere la grande ombra che dietro il capo del suo servo facevasi ogni giorno più oscura. Il terrore ch’ella aveva scoperto negli occhi di lui, quei tentativi di fuga, quelle ostilità mal dissimulate non la ritenevano ma la eccitavano. La tendenza fittizia alle cose straordinarie, alla vita trascendente, al mistero – promossa in lei da Giorgio – s’appagava di quei segni che rivelavano un’alterazione profonda.
Una virtù misteriosa li riavvicinava, li congiungeva, li mesceva, li fondeva l’un nell’altra, li rendeva simili nella carne e nell’anima, li riuniva in un essere solo. Una virtù misteriosa li separava, li faceva estranei, li respingeva nella solitudine, apriva tra di loro un abisso, metteva in fondo a loro un desiderio disperato e mortale. Entrambi gioivano e soffrivano in questa vicenda. Risalivano alla prima estasi del loro amore e discendevano all’ultimo inutile sforzo di possedersi; e risalivano ancóra, risalivano al principio della grande illusione, respiravano l’ombra mistica ove per la prima volta le loro anime tremando avevano scambiata una stessa muta parola; e ancóra discendevano, discendevano verso il supplizio dell’aspettazione delusa, entravano in un’atmosfera d’opaca e soffocante caligine simile a un turbine di faville e di ceneri calde
«Come sempre,» Giorgio pensava «come sempre, ella non ha fatto se non ricevere e mantenere docilmente le attitudini che io le ho dato. La vita interiore è stata sempre ed è sempre in lei fittizia. Interrotta la mia suggestione, ella ritorna alla sua natura, ella ridiviene una femmina, uno strumento di bassa lascivia. Nulla potrà mutare la sua sostanza, nulla potrà purificarla.
Nel parlare delle cose che le piacevano, delle blandizie che prediligeva, ella aveva singolari morbidezze di voce e atti delle labbra nel modular le sillabe espressivi d’una sensualità profonda. E in ciascuna di quelle parole e in ciascuno di quegli atti Giorgio trovava una cagione di sofferenza acutissima. Quella sensualità, ch’egli medesimo aveva risvegliata in lei, ora gli sembrava giunta a quel grado in cui i desiderii numerosi e imperiosi non soffrono più alcun freno e richiedono il rapido appagamento.
Era tutta ardente e tutta bella. La sua bellezza s’era accesa come una face. Il suo lungo corpo serpentino vibrava a traverso la tenuità della veste. I suoi grandi occhi oscuri emanavano il fascino delle supreme ore di passione. Ella era la sovrana Lussuria che ripeteva: «Io sono sempre l’invitta… Sono più forte del tuo pensiero… L’odore della mia pelle può dissolvere in te un mondo.»
Ella supplicava, folle di terrore, divincolandosi. Sperava di trattenerlo, d’impietosirlo. – Un minuto! Ascolta! Ti amo! Perdonami! Perdonami! Ella balbettava parole incoerenti, disperata, sentendosi vincere, perdendo terreno, vedendo la morte. – Assassino! – urlò allora furibonda. E si difese con le unghie, con i morsi, come una fiera. – Assassino! – urlò sentendosi afferrare per i capelli, stramazzando al suolo su l’orlo dell’abisso, perduta. Il cane latrava contro il viluppo. Fu una lotta breve e feroce come tra nemici implacabili che avessero covato fino a quell’ora nel profondo dell’anima un odio supremo. E precipitarono nella morte avvinti.
Troppo semplice la verità che ricorre al ruolo della femme fatale e all’impossibilità per colpe sue o proprie di vivere l’amore fino in fondo. I personaggi dannunziani, come lo stesso poeta, vivono l’amore fino in fondo, nelle profondità del corpo e dell’anima, vivono ciò nel modo che l’evoluzione di questo fenomeno ha proposto: Catullo è del I° sec. d.C., Petrarca del 1300, Tasso del 1500, De Sade del 1700, Oscar Wilde morì nell’anno 1900.
E’ ora la volta del romanzo Le vergini delle rocce.
E’ un romanzo strano con una trama densa di eventi, personaggi e, come sempre, pensieri e riflessioni, ma di nuovo c’è la ricchezza di riferimenti storici, letterari ed artistici che possono disturbare il lettore contemporaneo. Il romanzo è concentrato su tre figure femminili verso le quali deve dirigersi la scelta di Claudio Cantelmo e lo spessore poetico con cui si muove D’Annunzio ne fa una specie di prosecuzione del poema foscoliano Le Grazie. In genere il romanzo viene considerato come la massima espressione nella costruzione dell’ideale del superuomo da parte di D’Annunzio, ma questa visione, di per sé non errata, risulta limitativa e fuorviante. L’amore è ancora una volta l’orizzonte verso il quale si muove la prosa con un’attenzione alla parola che solo l’equivoco potrebbe considerare retorica, sovrabbondante, inutile. Si tratta di un libro tenuto insieme dal tentativo, che abbiamo visto anche in precedenza, di cercare l’incontro di anime oltre il corpo ma senza negare il corpo, dentro uno spirito religioso ma che considera la religione come una suggestione per spingere, grazie all’amore, l’anima verso l’infinito e l’ignoto. Non si tratta solo di attimi e di rapide percezioni o improvvisi pensieri in cui si condensa l’ansia soprannaturale di un individuo che sa di essere finito; c’è in tutto il libro una ricerca continua e inesauribile di come riuscire a dare all’amore quelle possibilità che sono proiezioni dell’anima, e che non si concludono nei palpiti del corpo.
Le tre donne si presentano, anzi è D’Annunzio che le presenta, e vengono svelati segreti e verità che in genere sfuggono a chi vive l’amore come qualcosa di oggettivo e non come qualcosa di ignoto, da scavare scoprire e costruire. La schiavitù, la sicurezza, il dominio sono elementi che illuminano le tre ragazze, ma sono solo delle sintesi a loro modo imprecise, perché esse si nutrono di tutte le parole e le espressioni che animano il testo.
Massimilla: «Un bisogno sfrenato di schiavitù mi fa soffrire» dice Massimilla silenziosamente, seduta sul sedile di pietra, con le dita delle mani insieme tessute, tenendovi dentro il ginocchio stanco, «Io non ho il potere di comunicare la felicità, ma nessuna creatura viva e nessuna cosa inanimata potrebbe, come la mia persona tutta quanta, divenire il possesso perfetto e perpetuo di un dominatore. Un bisogno sfrenato di schiavitù mi fa soffrire. Mi divora un desiderio inestinguibile di donarmi tutta quanta, di appartenere ad un essere più alto e più forte, di dissolvermi nella sua volontà, di ardere come un olocausto nel fuoco della sua anima immensa. Invidio le cose tenui che si perdono, inghiottite da un gorgo o trascinate da un turbine; e guardo sovente e a lungo le gocce che cadono nel gran bacino svegliandovi appena un sorriso leggero”.
Anatolia: “Il più dubitoso degli uomini ritroverebbe al mio fianco la sicurezza; colui che smarrì la luce rivedrebbe in fondo al suo cammino il segnale fermo; colui che fu percosso e mutilato ritornerebbe sano ed integro. Le mie mani sanno avvolgere la benda intorno alle piaghe e strapparla di su le palpebre oppresse. Quando io le tendo, il più puro sangue del mio cuore affluisce all’estremità delle mie dita magneticamente. Io posseggo i due doni supremi che amplificano l’esistenza e la prolungano oltre l’illusione della morte. – Non ho paura di soffrire e sento sui miei pensieri e sui miei atti l’impronta dell’eternità… Ora sento che è un sacrificio necessario, a cui non potrò sottrarmi. Voi avete udito dianzi il suono della mia risposta, quando mi avete invitata a salire con voi fino alla cima. Avete veduto quanto mi paresse leggero da prima il salire con voi, col sostegno della vostra mano. Ma poi…. non ho potuto andare più oltre; non abbiamo raggiunta la cima. Vedete: sono qui, inchiodata a un macigno. Voi mi fate un’offerta di cui voi medesimo non conoscete il pregio come io lo conosco; ed eccomi oppressa da una tristezza tanto grave che temo di non poterla sostenere, io che non ho mai avuto paura di soffrire!”
Violante: “Da tempo io ho dunque su la mia anima lo splendore dei destini grandiosi e tristi. In sogno, ho vissuto mille vite magnifiche, passando per tutte le dominazioni sicura come chi ricalca un sentiere già cognito. Negli aspetti delle cose più diverse ho saputo scoprire segrete analogie con gli aspetti della mia forma, e… indicarle alla meraviglia degli uomini; e assoggettare le ombre e le luci, come le vesti e i gioielli, a comporre l’ornamento impreveduto e divino della mia caducità… Affaticata dalla frequenza dell’atto, ella abbandonava alquanto il busto su la flessione del ginocchio rilasciando la volontà orgogliosa che pur dianzi ergeva la sua figura a similitudine del perfetto stelo. Una mollezza impreveduta ondeggiava allora nel corpo superbo; un ritmo nuovo ne rivelava le grazie quasi direi obedienti, le virtù pieghevoli di amore. Così forte era il potere emanato da quella creatura bella che io non sapevo distrarre i miei occhi dai suoi moti; e mi trattenevo in dietro per circondarla col mio sguardo intera.”
Non c’è dubbio che l’acquisizione del superuomo nietzschiano sia stata in D’Annunzio piena di equivoci, qui e altrove, ma è anche vero che non sempre è così e non sempre il poeta abruzzese appare confuso, anzi. In un passo del romanzo abbiamo forse la più moderna e verace interpretazione del pensiero nietzschiano attraverso la fusione del concetto di superuomo con quello di volontà di potenza. Occorre qui ricordare che superuomo non è il dittatore, ma Übermensch, l’uomo che supera se stesso; e anche che volontà di potenza non ha nulla a vedere con i popoli dominanti ma è volontà di potere (verbo), molto vicina al concetto di “élan vital” (Bergson) e di “vita” (Pirandello).
” La felice rivelazione ti viene dal bisogno che provi, subitaneo, di versare la tua dovizia, di spanderla, di prodigarla senza misura. Tu ti senti inesauribile, capace di alimentare mille esistenze. È ben questo il premio dei tuoi assidui sforzi: – ora tu possiedi l’impetuosa fecondità delle terre profondamente lavorate. Goditi dunque la tua primavera; rimani aperto a tutti i soffii; lasciati penetrare da tutti i germi; accogli l’ignoto e l’impreveduto e quanto altro ti recherà l’evento; abolisci ogni divieto… La tua natura, che tu hai resa integra e intensa, ti sia sacra. Rispetta i minimi moti del tuo pensiero e del tuo sentimento perché ella sola li produce… Tutto, ora, ti è permesso: pur quello che odiasti o disprezzasti in altrui: perocché tutto divenga nobile passando a traverso la sincerità della fiamma. Non temere d’esser pietoso, tu che sei forte e che sai imporre il tuo dominio e il tuo castigo. Non avere onta delle tue inquietudini e dei tuoi languori, tu che ti sei fatta una volontà di tempra dura come le spade battute a freddo. Non respingere la dolcezza che t’invade, l’illusione che ti avvolge, la malinconia che ti attira, tutte le cose nuove e indefinibili che oggi tentano la tua anima attonita…Accoglile dunque senza sospetto, poiché non ti sono estranee né ti diminuiscono né ti corrompono. Ti appariranno forse domani come le prime annunziatrici velate di una natività che è nei tuoi voti.”
D’Annunzio ha scritto tantissimo, di tutto e di più, e non intendo qui fare un’analisi di tutte le sue fasi, di tutti i generi usati, di tutti gli aspetti congruenti e di quelli contraddittori: non intendo andare alla ricerca del “vero D’Annunzio”, perché, come ho spiegato più volte, non voglio porre sigilli di condanna o di assoluzione, ma ricercare nelle letture stimoli, echi, suggestioni, individuando lati oscuri e velati capaci di permettere una migliore e meno superficiale com-prensione della realtà.
Salto così a una raccolta di versi che è stata da sempre presentata come anti o poco dannunziana: Alcyone. La poesia è La pioggia nel pineto, ma non è l’unica nel genere, potendo citare la quasi totalità delle poesie di quella raccolta, le più note delle quali sono La sera fiesolana e Meriggio.
La presenza ampia e viva della natura ha portato i critici a coniare il termine “panismo” riferito a questo approccio dannunziano: pan è tutto per cui il termine vuole evidenziare l’immersione totale e intensa del poeta nella natura in una vera e propria fusione.
Non voglio qui mettere in discussione questa accezione né far notare che il vitalismo e l’esaltazione del godimento pieno rinviano anche al Dio Pan, in una con-fusione che se penetrata ci porta in luoghi molto interessanti.
Non voglio neppure discutere l’uso di credere che i versi permettano al lettore di immedesimarsi in quella fusione con la natura.
Da un punto di vista letterario, senza bisogno di creare nuove etichette, la poesia rinvia facilmente al rapporto con la natura che in Italia proviene in quel periodo soprattutto da Pascoli: non è significativo che in Pascoli fosse presente una certa malinconia mentre in D’Annunzio predomini il piacere. Perdersi nella natura, identificandosi con essa grazie all’analogia, è caratteristica della poesia moderna che ritroveremo anche in Montale; definita da Baudelaire, quella poetica serve a creare realtà e da questo punto di vista non esiste grande differenza tra il vessillo piantato sul cranio “ l’Angoisse atroce, despotique, / Sur mon crâne incliné plante son drapeau noir.” (Baudelaire, Spleen IV) e “le ginestre fulgenti…il canto delle cicale” (La pioggia nel pineto). Si tratta di nuovi luoghi che l’anima poetica scopre, porta alla luce, studia, interroga, fa propri e infine forma e conforma, con tutto ciò, nuove strutture dell’anima stessa. Naturalmente anche qui ciò che conta sono le singole parole che danno il colore e la voce a quella forma indirizzandone il senso.
La realtà evocata appare molto semplice: Ermione e Gabriele si amano e godono nel mezzo di una natura, quasi Ninfa e Satiro, mostrando le movenze dei loro corpi sempre più a loro agio sia tra di loro sia con gli elementi sui quali scivolano frementi e pacificati. Bella immagine, come belle le immagini di tutta la tradizione arcadica dalla Grecia ai giorni nostri. Ma non è qui “il varco”, non è qui “la maglia rotta nella rete”: senza tornare al mondo classico ci potremmo rivolgere all’Aminta di Tasso, ai poeti arcadici e a Metastasio. Qui non siamo però per divertirci ma per svelare scavare costruire, qui è in gioco l’anima o, ancor più precisamente, un’anima.
Gocciole e foglie sono “parole più nuove”, non umane, ma scritte da un uomo con le parole note; la pioggia inonda la natura (le tamerici, i pini, i mirti), bagna i corpi (i volti, le mani) e le vesti ed è a questo punto che la natura lascia il posto agli uomini, “i freschi pensieri / che l’anima schiude / novella”: D’Annunzio sa che i pensieri sono patrimonio dell’anima e la pioggia, l’amore, la favola bella devono fare i conti sia con quelli sia con lei, sovrana.
E’ così che i suoni (“un crepitìo che dura / e varia nell’aria”) sono i suoni diversi che le gocce fanno sui diversi elementi, ma sono anche le voci, diverse e crepitanti, che l’anima riesce a produrre: analogia. La voce delle cicale evoca la voce dell’anima: “più sordo, più roco, più fioco. Solo una nota / ancor trema, si spegne / risorge, trema, si spegne.” Tace la cicala, ma prende campo la rana. Il concerto della natura è concerto dell’anima, non è un’orchestra e manca il direttore, ma sono le anime dell’anima che escono fuori.
L’ultima strofa è tutta umana: Gabriele ed Ermione sono “or congiunti or disciolti” e con-fusi (“ci allaccia…c’intrica”) e si va oltre il corpo verso un orizzonte che continua ad interrogare le anime degli amanti: “E piove…su i freschi pensieri / che l’anima schiude / novella / su la favola bella / che ieri / m’illuse, che oggi t’illude / o Ermione.” L’illusione non è illusoria, ma, etimologicamente, in-ludum, entrare dentro il gioco, qualcosa che viene vissuto nella sua concretezza, ma di cui non conosciamo gli esiti.
Illusione, problema, complessità.
Mi fermo qui. Da anni la mia vita è illusione/in-ludum e da anni la letteratura ha contribuito a questa illusione. Oggi posso giustificare l’attributo che ho dato a D’Annunzio, “l’incompreso”; non sono mancati studi e letture importanti sia sull’autore sia sulle singole opere, ma non si è com-preso cosa egli avesse da offrirci, avendo preferito etichettarlo (ideologia o estetica non è importante). Abbiamo cessato di nutrirci, ma il rinnovato interesse per il poeta abruzzese mostra che l’esilio non potrà mai essere perpetuo, perché la cultura, diversamente dall’ideologia, è fonte di vita.