Italo Svevo Un non-romanzo

Pirandello visse tra il 1867 e il 1936, Svevo tra il 1861 e il 1928.

Pirandello scrisse moltissimo mentre Svevo scrisse ben poco.

Pirandello pur siciliano aprì i suoi orizzonti andando fino in Germania e assorbendo la nuova aria che si respirava in Europa. Svevo visse nella Trieste austro-ungarica, visse in Baviera e a Vienna, entrò in contatto con la cultura tedesca e allargò i propri orizzonti nutrendosi di tutto ciò che si presentava come attuale; infine ebbe una importante frequentazione con Joyce che ne valorizzò l’opera.

Pirandello ebbe subito un riconoscimento, mentre Svevo dovette aspettare, e senza l’appoggio di Joyce probabilmente sarebbe rimasto nell’ombra per chissà quanto tempo.

Oggi invece lo scrittore triestino rappresenta un punto di riferimento fondamentale nella letteratura del Novecento e a ciò si è arrivati lentamente, diciamo che solo a partire dagli anni ’60 del secolo scorso si è cominciato a prendere sul serio le opere dello scrittore. Come per altri autori sono stati necessari decenni perché il nostro Paese si aprisse a una cultura nuova e di più ampio respiro, nonostante l’industria italiana fosse vitale e all’avanguardia. Persino la letteratura vitalistica americana, nonostante Pavese e Montale, faticava ad avere un suo spazio, vista l’applicazione del realismo socialista in veste mediterranea (neorealismo). Le porte della poesia moderna, della filosofia, della psicoanalisi venivano chiuse, anzi sprangate, perché nel Palazzo c’era posto solo per il marxismo, nelle sue varie diramazioni ma nell’unica veste ideologica e autoritaria. L’Italia post-bellica era un paese provinciale ma non come spesso si crede per la sua base contadina, bensì perché aveva paura di un serio confronto culturale a 360° e si limitava a rivendere ciò che le proveniva dalla Grande Patria URSS. Il periodo fascista andava cancellato e nulla di positivo vi si doveva trovare; l’America era capitalista e antisovietica, per cui persino le attenzioni alla scienza e alla tecnica venivano criminalizzate come serve del capitalismo, mentre in Europa ancora troppo numerose erano le tracce del Colonialismo e del Nazismo. Quanto questo fosse vero lo si può riscontrare nel fatto che solo dopo il 1956 (XX Congresso del PCUS con la denuncia dei crimini di Stalin e i fatti di Ungheria) una parte degli intellettuali italiani cominciò a prendere le distanze.

Nonostante ciò la diffidenza generalizzata rimase e solo lentamente si cominciò a ripulire soffitta e salone: ancora negli anni ’90 del secolo scorso Nietzsche era un nazista, Von Hayek ignoto servo del capitalismo e la psicanalisi (lo strizzacervelli) era diffusa in America per i disastri del sistema borghese, mentre la letteratura non realista veniva guardata con diffidenza perché segno di individualismo (solipsismo, torre d’avorio). Tra il 1956 e il 2000 il processo di deideologizzazione fu lentissimo, ma per fortuna permise una maggiore apertura e la possibilità di discutere senza i paraocchi: il crollo del comunismo servì da accelerante mostrando come, senza spinte esterne, l’Italia avrebbe fatto ben pochi passi avanti.

Tutto questo discorso serve per capire meglio il ruolo di Svevo e i lunghissimi tempi con cui si riuscì a discuterne senza più procedere ad anatemi o santificazioni. Se prendiamo in considerazione le edizioni de La coscienza di Zeno ci accorgiamo che dopo la prima pubblicazione del 1923 e un paio negli anni Trenta passiamo al 1954, al 1969 e ancora al 1985; da questo momento il romanzo è ormai privo di qualsiasi tipo di remora.

Fino agli anni ’80 del Novecento anche a scuola difficilmente se ne parlava e il più classico e diffuso dei manuali, mi pare edito da La Nuova Italia, ne faceva un modesto accenno. Per fortuna con la fine del secolo scorso lo sguardo si aprì in molteplici direzioni: si aprì agli approdi della filosofia superando lo scontro tra idealismo e marxismo che fino ad allora aveva congelato il sapere, si aprì alla letteratura che in qualche modo si collegava a quella filosofia, si aprì anche se con fatica e grave ritardo alla scienza, si aprì all’indagine psicologica e in particolar modo alla psicanalisi.

E così Svevo cessò di essere il brutto anatroccolo che in fondo era stato considerato fino ad allora. La critica cominciò a interessarsi anche ai romanzi minori, come Senilità e poi anche Una vita, cercando di recuperare il tempo perduto e con il solito obbiettivo di ritrovare una certa unità in tutte le opere per poter dichiarare alla fine di aver scoperto “il vero Svevo”.

Di maggiore interesse è stata invece la pubblicazione dei Saggi e pagine sparse e dell’Epistolario, perché ormai non è più possibile separare la narrazione dalla riflessione, una riflessione che, anche se trova spazio nei personaggi, non può ridursi ad essi.

Qui parlerò de La coscienza di Zeno soprattutto per gli aspetti che gli permettono di incontrarsi con lo sviluppo della complessità e come questi contribuiscano a una formazione della persona in termini reticolari e non lineari.

Per fare questo occorre uscire dai canoni più o meno tradizionali della letteratura e della riflessione sulla letteratura, uscire cioè dalla dimensione a cui siamo abituati che è la dimensione estetica.

Dire che La coscienza di Zeno è un non-romanzo significa portarlo fuori dal mondo della letteratura e accompagnarlo nel mondo della vita; non si tratta dunque di un anti-romanzo, nella classica e consueta dialettica tutta interna all’universo letterario, ma di qualcosa che compone la vita degli uomini, così come un cibo che ci nutre o un esercizio che ci rafforza.

Per poter scavare in questa direzione occorre partire dalla rottura del patto narrativo che il lavoro di Svevo realizza e che è l’unico modo per ora pensabile di far uscire un’opera dalla letteratura e accompagnarla nel mondo della vita. Il patto narrativo (H. Grosser, Narrativa, Principato, Milano 1985, pag.25) è quel tacito accordo per cui il lettore compie una parziale e momentanea sospensione delle facoltà critiche e accetta come se fosse vera una storia che sa in larga e diversa misura una storia fittizia.

Rifiutare il patto narrativo è l’unica strada che il lettore ha oggi per uscire da quel sistema di autoreferenzialità che aveva un senso quando il confine tra lettore e autore era labile: rispettarlo oggi significherebbe trasformare ciò che si legge in un bel soprammobile, in una semplice opinione da usare su Facebook e al bar oppure in patrimonio del proprio sapere per esami o trattati.

Nel caso di Svevo siamo avvantaggiati e anzi stimolati alla rottura del patto narrativo, perché è lo scrittore per primo a realizzare questo taglio, facendolo per giunta in modo netto.

Crediamo a Zeno Cosini? Crediamo al Dottor S.? Non crediamo a nessuno? Crediamo a tutti e due? Nessuna di queste possibilità è scontata e garantita e dunque la risposta sta tutta nelle nostre scelte, nella nostra autonoma lettura, nel parto originato dall’incontro tra le parole che leggiamo e le parole che caratterizzano i nostri filtri e i nostri pregiudizi. Non solo, ma in questo modo le parole escono dal solito essere un abito e un ornamento e diventano la componente centrale delle pagine: cessano di essere solo forma e diventano protagoniste, assumendosi la responsabilità che questo onore richiede.

Verità e bugia. Salute e malattia. Ecco il nodo del “romanzo”. Come ormai assunto dalla cultura europea dalla metà del XIX secolo, non esistono verità assolute. E, come Pirandello, Svevo dice la sua e lo dice in tutte le forme possibili, lo dice nelle lettere, nei pensieri e lo dice nell’opera che lo contraddistingue. Il punto è che, dopo decenni di noncurante presupponenza, si è cominciato a lodare lo scrittore, rimanendo però nell’ambito specialistico per cui la teoria è una cosa e la pratica un’altra. Res cogitans e res extensa oppure l’autodafè catartico, metodi suggellati dai seguaci del comunismo: la teoria è giusta, qualche errore nella pratica.

Voglio dire che qualsiasi persona moderna oggi sa che è difficile stabilire una netta separazione tra vero e falso, tra sano e malato, tra normale e pazzo: si è giocato con le varie forme di relativismo (a partire da Einstein) tanto che il metodo più ampiamente usato consiste nel rendere tutto relativo. Ciò non impedisce di nutrirsi di quanto Svevo (o Pirandello) ha espresso e allo stesso tempo stabilire dei distinguo rispetto alla propria esistenza. Ma Svevo rimane lì e le sue parole non sono cambiate da quando le ha scritte e da quando ognuno di noi le ha lette ed è con quelle parole, cioè con quella rete di relazioni, che dobbiamo confrontarci, ma possiamo farlo solo se ci inseriamo in quella rete e ne diventiamo un anello.

Ancora una volta è solo un approccio proveniente dall’universo della complessità che ci permette di fare nostra la narrazione di Zeno Cosini, ma non si tratta di rispondere in termini generali se siamo favorevoli o no alla psicoanalisi, se riconosciamo l’importanza dell’amore e del tradimento, se è giusto speculare per trarre profitti, se pensiamo che la guerra sia qualcosa di più di un fatto naturale con cui convivere. In tal senso possiamo mostrarci come pacifisti, anticapitalisti, favorevoli relativamente alla psicoanalisi, sostanzialmente fedeli. In compenso però potremmo anche dichiararci favorevoli all’amore libero, pacifisti ma non troppo e non sempre, consci dell’importanza del denaro e insofferenti di fronte al medico che vuole condizionare la nostra libertà.

Potremmo però essere anche altro e usare episodi de La coscienza di Zeno per giustificare le nostre prese di posizione.

Ma non è questo che deve interessare, perché il percorso che ci viene proposto non serve a lanciare un messaggio, ma a permetterci di giocare con gli episodi che accompagnano i nostri giorni, perché il bello di ciò che viviamo in questi ultimi due secoli è che tutti, lettori o scrittori, siamo uomini comuni e non siamo inetti, cioè dei buoni a nulla. Inetto è Alfonso di Una vita o Emilio di Senilità, non Zeno Cosini. Si è troppo spesso insistito sul termine “inetto” come caratteristica sveviana (e anche pirandelliana), ma si può considerare Zeno un inetto (in-aptus, non adatto) solo se si pensa al protagonista come a un eroe, a un personaggio che ha il privilegio delle luci di scena.

Finché non ci rendiamo conto che la società di massa, che ha preso forma nel XX secolo, è stata prima la società delle masse (al servizio di un Capo) e poi è diventata la società dell’individuo, continueremo ad aspettarci altro. Come le poesie di Allegria non sono un inno contro la guerra così La coscienza di Svevo non è un proclama pro o contro qualcosa e l’individuo che siamo invitati a seguire è il più normale degli esseri umani. Uno come noi. Lavoro, carriera, famiglia, amore, amicizie. Uno come noi ma che sa più di noi.

Pirandello aveva parlato dell’importanza della riflessione in quello che ha chiamato “sentimento del contrario”, Svevo ce lo mostra attraverso la vita del suo protagonista che è fatta sì di eventi, ma soprattutto di una continua riflessione, che diventa l’elemento essenziale nella formazione dell’uomo. Ciò che ci troviamo di fronte è un personaggio che ha compreso come il continuo interrogarsi non sia un vaniloquio al servizio della propria immagine (quante volte abbiamo sentito dire a noi e ad altri: sono solo seghe mentali), ma un passaggio necessario se si vuole dare consistenza e profondità alla nostra persona. In questo senso non è importante che si tratti di bugia o di verità, ma che ci si assuma la responsabilità di ciò a cui siamo arrivati. La psicoanalisi può servire o non servire; il rapporto con le nostre origini e con figure familiari, il lavoro, la famiglia, gli eventi esterni possono esserci o non esserci: ciò che conta in questo processo non è il cosa ma il come e il come dipende dal modo con cui noi affrontiamo il cosa.

 

Il Dottor S. mette in guardia Zeno e il lettore dalla ricostruzione che egli ha fatto della sua vita: “Se sapesse quante sorprese potrebbero risultargli dal commento delle tante verità e bugie ch’egli ha qui accumulate!”, ma Zeno non ci sta e prosegue per la sua strada. Così nel Preambolo, il capitolo immediatamente successivo, egli evidenzia il carattere complesso della formazione di una persona: Subito vedo un bambino in fasce, ma perché dovrei essere io quello? Non mi somiglia affatto e credo sia invece quello nato poche settimane or sono a mia cognata e che ci fu fatto vedere quale un miracolo perché ha le mani tanto piccole e gli occhi tanto grandi. Povero bambino! Altro che ricordare la mia infanzia! Io non trovo neppure la via di avvisare te, che vivi ora la tua, dell’importanza di ricordarla a vantaggio della tua intelligenza e della tua salute. Quando arriverai a sapere che sarebbe bene tu sapessi mandare a mente la tua vita, anche quella tanta parte di essa che ti ripugnerà? E intanto, inconscio, vai investigando il tuo piccolo organismo alla ricerca del piacere e le tue scoperte deliziose ti avvieranno al dolore e alla malattia cui sarai spinto anche da coloro che non lo vorrebbero. Come fare? È impossibile tutelare la tua culla. Nel tuo seno – fantolino! – si va facendo una combinazione misteriosa. Ogni minuto che passa vi getta un reagente. Troppe probabilità di malattia vi sono per te, perché non tutti i tuoi minuti possono essere puri. Eppoi – fantolino! – sei consanguineo di persone ch’io conosco. I minuti che passano ora possono anche essere puri, ma, certo, tali non furono tutti i secoli che ti prepararono.

Trentacinque anni dopo in The human Condition Hanna Arendt rileva l’irreversibilità e l’imprevedibilità dell’azione umana, di cui dovremmo andare in vero orgogliosi. E così farà anche Octavio Paz, ma soprattutto la scienza della complessità, fornendo un metodo, più precise linee di indagine e nuovi orizzonti.

Zeno non è un inetto, ma un uomo ordinario, il prototipo di individuo che si imporrà all’attenzione delle scene già nel XX secolo ma ancora di più nel nuovo millennio; possiamo vedere come l’individuo, che ha cominciato a distinguersi solo nell’appartenenza a una massa, seguendo gli slogan del Capo, oggi pretenda quel riconoscimento che la storia evolutiva gli ha permesso e allo stesso tempo gli ha promesso. Questo individuo è protagonista in tutte le manifestazioni e non ci sta facendo sempre una bella figura, perché per troppo tempo ha morso il freno e ora può uscire allo scoperto e non sempre, purtroppo, lo fa solo con le parole. Inesistente per millenni, ha cominciato a esistere in forma intercambiabile nelle piazze, nei campi di battaglia, negli stadi, nei palazzetti e cose simili: oggi si sfoga, ma non sa dove andare.

Ecco perché occorre cercare di individuare un orizzonte che permetta sia di salvare il carattere individuale della persona sia di fargli assumere la responsabilità del proprio vivere. Non esistono per questo delle formule né tanto meno un libretto di istruzioni: i lanternoni si sono spenti e i lanternini si spostano di poco e non sanno in che direzione procedere.

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Ed è qui che, dopo i poeti moderni e insieme a Pirandello, Svevo ci fornisce qualche indicazione, non la soluzione, non le tappe e la strada da percorrere, ma un orizzonte, una prospettiva verso la quale muovere i primi passi.

Svevo anticipa quella che sarà la riformulazione del concetto di problema da parte della scienza contemporanea: da qualcosa che ha una soluzione a qualcosa con cui fare i conti. Il problema in questo senso, solo in questo senso, è quanto ci viene messo- gettato (ballein, blema) davanti (pro) ed esso non è altro che la vita, qualcosa che non ha una soluzione predeterminata, ma che dobbiamo affrontare, con gli strumenti che abbiamo, seguendo un metodo. La vita è in questo senso il problema con cui dobbiamo fare i conti e si compone di tanti aspetti, dall’infanzia e adolescenza, agli studi, al lavoro, all’amore, alla famiglia, e tutti questi aspetti si intrecciano con eventi che ci condizionano e ci conformano, ma che anch’essi non hanno una soluzione predeterminata: i genitori, i compagni di scuola e i maestri, la carriera e l’ambiente lavorativo, i tradimenti, amici e parenti. A questo quadro vanno aggiunti altri elementi che ci piombano addosso, come una malattia, un vizio, una guerra, e tante altre cose.

Zeno Cosini ci parla della sua vita, una vita molto banale se pensiamo ad altri protagonisti della letteratura moderna, ma talmente vera da risultare sconcertante: infatti ci troviamo davanti un uomo che ha il vizio del fumo, che ha avuto un rapporto problematico col padre, che ha messo su famiglia e ha avuto un’amante, che si trova impegnato in una attività commerciale normale, che viene investito come tutti dalla guerra (quella 1914-1918). Praticamente un essere umano qualsiasi, che possiamo ritrovare lungo tutto il secolo scorso e quello attuale, cambiando di volta in volta solo i colori, cioè i capitoli di una vita: invece del fumo magari c’è il gioco, il rapporto difficile con entrambi i genitori, impiego nel pubblico, convivenza e molte scappatelle e, invece della guerra, un virus pandemico o una grossa crisi economica.

La grande differenza tra Zeno e i suoi contemporanei, o tra Zeno e i nostri contemporanei del nuovo Millennio, è che egli si interroga in continuazione su tutti questi aspetti perché vuole capirci qualcosa sul senso della vita e prima di tutto della sua vita: non si accontenta di migliorare secondo il canone comune ciascuno di quegli aspetti, ma di scavare dentro di sé in profondità, per cui ciò che gli interessa sono le parole e non le cose. Le parole sono infatti l’anima del lavoro di Svevo, il suo tessuto connettivo: una anticipazione di ciò che ci viene richiesto oggi da una società sempre più complessa.

Non tutti i lati possono essere illuminati, come abbiamo visto con il tentativo di tornare indietro all’epoca della sua infanzia, ma ciò che viene privato del velo, svelato, è importante proprio perché ci obbliga ad assumerci delle responsabilità rispetto alle nostre scelte e dunque al modo che ci conforma. Continuare a leggere la letteratura perché si sofferma su personaggi presentati come eroi, storici mitici o normali, ormai non serve più a nulla. Come scrive Pirandello ne Il fu Mattia Pascal:

“Ora senta un po’ che bizzarria mi viene in mente! Se, nel momento culminante, proprio quando la marionetta che rappresenta Oreste è per vendicare la morte del padre sopra Egisto e la madre, si facesse uno strappo nel cielo di carta del teatrino, che avverrebbe? Dica lei. — Non saprei, — risposi, stringendomi ne le spalle. — Ma è facilissimo, signor Meis! Oreste rimarrebbe terribilmente sconcertato da quel buco nel cielo….L’immagine della marionetta d’Oreste sconcertata dal buco nel cielo mi rimase tuttavia un pezzo nella mente. A un certo punto: «Beate le marionette,» sospirai, «su le cui teste di legno il finto cielo si conserva senza strappi! Non perplessità angosciose, né ritegni, né intoppi, né ombre, né pietà: nulla! E possono attendere bravamente e prender gusto alla loro commedia e amare e tener se stesse in considerazione e in pregio, senza soffrir mai vertigini o capogiri, poiché per la loro statura e per le loro azioni quel cielo è un tetto proporzionato.”

Una delle più note storie della tragedia greca è presa ad esempio dei grandi sentimenti che albergano nell’animo umano e questo vale per tutte le figure che hanno popolato la letteratura. E’ vero che il sentimento di vendetta è qualcosa che è profondamente umano e come tale ci appartiene, ma rimane sempre elevato, nobilitato, per il contesto o per la tipologia del gesto: esso è LA VENDETTA concepita in astratto come valore o disvalore, generalizzata, non è UNA VENDETTA. Sono morti quei personaggi che illuminavano il cielo di carta dentro il quale vivevano, gli Oreste gli Ettore gli Enea, ma anche gli Ortis i Renzo e Lucia la cui luce esiste per opposizione a Don Rodrigo o per rifrazione dal Cardinal Borromeo. Oggi siamo tutti Mattia Pascal e Zeno Cosini, persone più che personaggi, che non devono uccidere il padre, ma possono solo pensare e ripensare, perché la propria esistenza assuma un senso fuori dalla luce dei lanternoni ormai spenta.

Naturalmente non mancano i sogni di grandezza, ma la realtà è molto più semplice e monotona: “Nella mente di un giovine di famiglia borghese il concetto di vita umana s’associa a quello di carriera e nella prima gioventù la carriera è quella di Napoleone I. Senza che perciò si sogni di diventare imperatore perché si può somigliare a Napoleone restando molto ma molto più in basso…La mia vita non sapeva fornire che una nota sola senz’alcuna variazione, abbastanza alta e che taluni m’invidiavano, ma orribilmente tediosa. Può perciò essere che l’idea di sposarmi mi sia venuta per la stanchezza di emettere e sentire quell’unica nota.” (Inizio del capitolo La storia del mio matrimonio).

Non è importante ai fini delle riflessioni attuali sottolineare i debiti di Svevo a Schopenauer riguardo al matrimonio e al suo sottostare a madre natura e alla volontà se non per il fatto che il protagonista dell’opera cerca affannosamente di trovare un senso agli avvenimenti che lo hanno caratterizzato. Voglio dire che non ci interessa essere d’accordo oppure no con Zeno-Schopenauer, ma cercare di com-prendere in noi le parole del nostro alter ego-Zeno. “La compagna che si sceglie rinnoverà, peggiorando o migliorando, la propria razza nei figli, ma madre natura…ci dà a credere che dalla moglie risulterà anche un rinnovamento nostro, ciò ch’è un’illusione curiosa non autorizzata da alcun testo. Infatti si vive accanto all’altro, immutati, salvo che per una nuova antipatia…e per un’invidia.” (idem).

Non c’è una critica generale al matrimonio, ma il tentativo di unire il pensiero filosofico alla propria esperienza personale, perché è questa che interessa al nostro protagonista: la carriera e il matrimonio sono strettamente legati e permettono a Zeno di ricostruire in qualche modo una rete che ci propone un percorso che non è né semplice né lineare, basato sul rapporto causa-effetto, ma un intreccio complesso di situazioni e relazioni. In questo senso il non-romanzo di Svevo si presenta come una costruzione reticolare capace di mostrarci come ogni aspetto viva per sé ma allo stesso tempo permetta a Zeno di diventare il vero hub, o meglio l’hub per lui più importante della storia. E questo è reso possibile grazie al fatto che tutto ruota intorno a lui attraverso la sua riflessione e il suo scavo: nel romanzo tradizionale ci sono avvenimenti o personaggi principali, ma quello è il punto di vista dell’autore che si colloca al di fuori della storia. Manzoni ci narra una storia che si snoda in modo lineare, con un inizio problematico e una fine risolutiva; in quell’evoluzione gli avvenimenti sono dominanti e i personaggi sono mossi da un carattere (karassein in greco vuol dire lasciare un’impronta) che sostanzialmente rimane invariato dalla prima all’ultima pagina. Renzo impara che occorre tenersi lontano dalle rivolte e avere fede nella Provvidenza, l’Innominato passa da cattivo a buono sempre grazie alla potenza del suo carattere.

Qui invece abbiamo una narrazione che è circolare: l’inizio segue la fine che segue l’inizio. Non sappiamo quale sia la verità né quali siano le bugie. Gli avvenimenti sono importanti, ma non decisivi, perché decisiva è la riflessione di Zeno, una riflessione che cerca di sbrogliare la matassa degli avvenimenti che si susseguono senza una apparente logica: la conclusione non è la logica e naturale conseguenza di tutto ciò che l’ha preceduta, perché non c’è una conclusione. Parafrasando un celebre dibattito, anche politico, che ha comunque impregnato la vita civile: “Il movimento è tutto e il fine è nulla”. Ciò che Zeno ha imparato non è qualcosa che gli permetterà di iniziare una nuova vita, ma una serie di verità parziali e intermittenti che è riuscito a portare alla luce; queste verità sono talmente piccole che non troverebbero spazio in una narrazione tradizionale, ma sono le uniche cose vere che abbiano un senso per l’uomo del XX secolo (e del XXI). Ancora una volta non è importante il cosa ma il come, non è importante sapere che la scelta di sposarsi è frutto di un sentimento di noia, ma essersi posto il problema: Schopenauer può aiutare, ma non è lì la chiave di volta, che invece sta nel continuo interrogarsi, sapendo che l’orizzonte dell’uomo è la felicità. Come tutti i poeti e gli scrittori moderni anche Svevo evidenzia ciò che può rappresentare il dolore, il male di vivere e non ha vere e proprie soluzioni, ma solo qualche barlume: i fiori dal male, la divina indifferenza dal male di vivere e tanto altro. La ricchezza che ci viene offerta non è però nelle proposte, nel messaggio, nel cosa fare, ma nella capacità di mostrare quanto profonde e nascoste siano le nostre insicurezze, le molle che ci spingono ad agire, quanto sia ingarbugliata la matassa di relazioni che promanano dalla nostra persona e che questa persona non è estranea a quella matassa ingarbugliata.

Come si vede tanti sono i riferimenti alla scienza della complessità: oltre al nuovo concetto di problema, il ruolo dell’osservatore, la presenza di una rete, il fatto che il tutto è maggiore della somma delle parti.

L’infanzia, il fumo, il padre, la moglie, l’amante, il commercio, la guerra sono solo le vesti che la vita di Zeno indossa e dentro le quali si agita una mente che, in senso agostiniano, è la sua anima alla ricerca di una vita che abbia un senso, ma per fare questo deve interrogarsi soprattutto su ciò che può rendere felici, in un mondo in cui la malattia esce dalla consueta crisi del corpo. E qui il tema è svolto nel modo più ampio possibile e conferma quanto nei Pensieri e nell’Epistolario viene espresso. Nell’opera di Svevo Zeno avvia una ricerca dentro se stesso perché si sente malato, dopo sei mesi di introspezione si sente ancora più malato, ma alla fine dichiara di essere guarito, mentre il Dottor S. ritiene che la sua dichiarazione di guarigione dimostri proprio la sua malattia. A chi credere? E perché? In gioco per noi non è la verità dei singoli episodi, ma il rapporto tra salute e malattia che è il vero senso di tutta questa ricerca.

24 marzo 1916

Dal maggio dell’anno scorso non avevo più toccato questo libercolo. Ecco che dalla Svizzera il dr. S. mi scrive pregandomi di mandargli quanto avessi ancora annotato. È una domanda curiosa, ma non ho nulla in contrario di mandargli anche questo libercolo dal quale chiaramente vedrà come io la pensi di lui e della sua cura. Giacché possiede tutte le mie confessioni, si tenga anche queste poche pagine e ancora qualcuna che volentieri aggiungo a sua edificazione. Ho poco tempo perché il mio commercio occupa la mia giornata. Ma al signor dottor S. voglio pur dire il fatto suo. Ci pensai tanto che oramai ho le idee ben chiare. Intanto egli crede di ricevere altre confessioni di malattia e debolezza e invece riceverà la descrizione di una salute solida, perfetta quanto la mia età abbastanza inoltrata può permettere. Io sono guarito! Non solo non voglio fare la psico-analisi, ma non ne ho neppur di bisogno. E la mia salute non proviene solo dal fatto che mi sento un privilegiato in mezzo a tanti martiri. Non è per il confronto ch’io mi senta sano. Io sono sano, assolutamente. Da lungo tempo io sapevo che la mia salute non poteva essere altro che la mia convinzione e ch’era una sciocchezza degna di un sognatore ipnagogico di volerla curare anziché persuadere. Io soffro bensì di certi dolori, ma mancano d’importanza nella mia grande salute. Posso mettere un impiastro qui o là, ma il resto ha da moversi e battersi e mai indugiarsi nell’immobilità come gl’incancreniti. Dolore e amore, poi, la vita insomma, non può essere considerata quale una malattia perché duole.   (…)

Naturalmente io non sono un ingenuo e scuso il dottore di vedere nella vita stessa una manifestazione di malattia. La vita somiglia un poco alla malattia come procede per crisi e lisi ed ha i giornalieri miglioramenti e peggioramenti. A differenza delle altre malattie la vita è sempre mortale. Non sopporta cure. Sarebbe come voler turare i buchi che abbiamo nel corpo credendoli delle ferite. Morremmo strangolati non appena curati. (Dall’ultimo capitolo de La coscienza di Zeno)

Svevo attraverso Zeno ci mette di fronte a qualcosa che sconcerta perché distrugge un luogo comune e che i giorni d’oggi sembrano purtroppo consolidare. La vita è la vita e in essa troviamo di tutto, l’amore e il dolore, insieme a molte altre cose: immaginare un’esistenza come un processo lineare in cui ogni difficoltà rappresenta un turbamento o uno squilibrio significa rapportare la nostra esistenza a un modello astratto, a una legge universale. Il dolore, la sofferenza, come l’amore e la gioia, appartengono alla vita e ne sono la manifestazione più evidente; immaginare la malattia, la difficoltà, il dolore come una deviazione da ciò che avrebbe dovuto essere significa privarci degli strumenti necessari a vivere nelle migliori condizioni.

In questo senso il non-romanzo di Svevo opera nella stessa direzione di tutta la scienza che metterà in discussione la fisica classica, il suo determinismo e la concezione per cui il futuro è prevedibile e “Dio non gioca a dadi”. Considerare la vita per quello che è significa affermare la nostra libertà alla ricerca della felicità e assumendoci la responsabilità delle nostre scelte. Oggi che da parte di certi movimenti si pensa di riscrivere la storia dando prova solo di anacronismo e moralismo, Svevo ci prende per mano e ci riconduce con i piedi per terra a quella che è la nostra condizione, la condizione umana. Come le leggi universali della scienza classica illudevano l’uomo di poter fare e disfare, sostituendosi a Dio, così i valori assoluti con cui si è vissuto per secoli ci hanno illuso che potessimo vivere senza i difetti che sono insiti nella natura umana.

Svevo è uno degli ultimi esempi di scrittore che delinea un orizzonte possibile verso il quale muovere i nostri passi.

Egli ci riporta alle fondamenta della condizione umana, sempre più necessarie in un’epoca in cui l’accesso di massa alla cultura crea uniformi pensieri e uniformi prese di posizione necessariamente di carattere ideologico.

La pace è il punto di riferimento, dimenticando che la condizione umana parla di guerra tanto che la definizione di pace è la negazione della guerra.

La salute è proposta come l’essenza, per cui si perde la cognizione umana e reale della malattia.

La diversità è il nuovo valore assoluto, ignorando che essa ha un senso solo a partire dall’identità individuale, senza la quale non si comprende da cosa sia diverso ciò che è diverso?

La socialità e l’altruismo sono le insegne sbandierate ai quattro venti, condannando alla base quell’egotismo senza il quale non è neppure pensabile un approccio sociale.

Ed ecco Svevo che ci riporta con i piedi per terra: i veri malati sono i sani perché non hanno coscienza della condizione umana. Ecco la coscienza, non solo la coscienza di Zeno. Su cosa essa rappresenti molto si è detto, ultimamente grazie anche alle neuroscienze, ma rimane un termine avvolto da una certa nebbia, anche se esso fa riferimento a cosa pensiamo di noi. Il nodo non sta dunque in questo concetto, ma su come noi riflettiamo su un IO che non è un elemento statico, ma qualcosa che diviene e si evolve in relazione all’incontro-scontro con gli altri IO.

Molte discipline hanno forzato il termine “coscienza” in una direzione che risponde al campo specifico di ricerca, ma con Svevo possiamo recuperarne il senso etimologico che ne valorizza la complessità e allo stesso tempo fornisce un metodo per andare avanti senza fermarsi. Coscienza deriva da cum-scire, sapere insieme. Coscienza è dunque ciò che sappiamo con noi, di noi, dentro di noi. Ed essa è un elemento evolutivo, come ogni cosa: se un tempo il sapere riguardo a noi si scontrava con il sapere ufficiale e pubblico, se un altro tempo il sapere riguardo a noi si identificava nell’immediato, per sua natura istintivo e consolidato, riconoscersi, oggi sappiamo che quei valori non aiutano e che il nostro definirci non sempre (o quasi mai) coglie nel segno. La vita è complessa, la persona è complessa e la nostra riflessione non è riconducibile a un’icona o a uno schema: abbiamo compreso che il cielo è celeste e non d’oro, abbiamo compreso che le montagne non sono triangoli, ora comprendiamo che lo specchio non riflette la nostra immagine.

E’ su questo piano, nuovo ed entusiasmante, che Svevo ci invita a muoverci, non per scrivere un capolavoro, ma per dare un senso alla nostra esistenza.