Revel è un filosofo francese che è stato membro dell’Académie Française; è morto nel 2006 ed è stato autore di molti saggi sulla cultura contemporanea, che vede come rimedio alle visioni ideologiche così di moda in Francia come nel resto d’Europa.
Il libro tocca proprio i nodi di questo atteggiamento chiuso che, non solo in Europa, si ripete regolarmente, nonostante i mutati scenari storici e nonostante ci si trovi di fronte a novità di tutto rilievo.
L’America, cioè gli Stati Uniti, sono diventati il bersaglio di una polemica continua che ripete i suoi strali come un mantra, senza alcun rapporto con la realtà. Gli americani non hanno mai cessato di rivendicare le proprie radici europee, mentre gli europei hanno sempre cercato di distinguersi dai loro figli e nipoti d’oltreoceano. Sempre, o quasi sempre, visto che all’inizio uno dei più attenti osservatori della democrazia americana, di cui comprese il profondo senso democratico e innovativo, fu un francese, Tocqueville. Ma da allora gli Stati Uniti d’America sono diventati il parafulmine di numerosi attacchi, un punching ball su cui scaricare la propria aggressività, insomma il capro espiatorio di tutti i mali del mondo.
Il libro di Revel è interessante perché esprime una tesi e l’accompagna con numerosi esempi che tutti conoscono, ma che vengono fatti svanire come se la realtà si potesse cancellare: basta un “sì, ma” oppure ingigantire un fenomeno, per credere di poter uscire di scena. In questo senso “L’ossessione antiamericana” è la dimostrazione di quanta ideologia nutra il pensiero di pensatori, intellettuali e gente comune, ma allo stesso tempo è la dimostrazione di cosa voglia dire fare scienza nella società complessa dell’informazione in cui viviamo.
Solo grazie alla cultura si può fare scienza: individuare una serie di fenomeni, trovare il senso di questi e sottoporli a quotidiana verifica. In modo critico e sapendo che la complessità del reale obbliga a non tralasciare episodi e situazioni che, a causa del riduzionismo, eravamo abituati a trascurare. L’analisi scientifica non parte mai da zero e ha bisogno di fondamenti con cui leggere i fenomeni: Galileo li trovava nella matematica, la complessità sociale li ha nella liberaldemocrazia. E il libro non ha problemi a dichiarare questi strumenti, portando alla luce i fondamenti antiliberali e antidemocratici degli “ossessionati” che, al contrario, evitano di dichiararli, limitandosi a suggestioni sensibili.
La tesi di Revel non è molto difficile da comprendere e fa parte dell’esperienza individuale di ognuno di noi: il fallimento nella gestione degli affari del mondo dei paesi europei che fino al 1800 lo avevano dominato (erano Francia, Inghilterra, Germania e Italia che avevano colonie, non gli USA) è alla base di una comune rivalsa, che preferisce scaricare sugli altri i propri limiti e i propri errori invece di analizzarli e farsene carico. E non è un caso che tra i paesi maggiormente invidiosi e maggiormente arrabbiati sia proprio quella Francia che della Grandeur aveva fatto una parola d’ordine e un credo assoluti.
La riflessione di Revel trova un suo corrispettivo importante nella riflessione di Alvaro Vargas Llosa per quanto riguarda i paesi latinoamericani nei quali si ritrova lo stesso atteggiamento rivelato da Revel: vedi il libro sulla demitizzazione della figura di Che Guevara (Il mito di Che Guevara e il futuro della libertà).
Il fallimento dell’America del Sud e il successo dell’America del Nord.
Che si tratti di un’ossessione non c’è dubbio perché si ripete regolarmente da decenni e come tutte le ossessioni occupa tutto lo spazio che può solcare: addirittura fino a mettere in discussione, come qualcuno continua a fare, il carattere democratico del sistema americano.
C’è poi la pretesa arrogante di trattare gli americani, soprattutto i Presidenti, come dei ritardati mentali: l’attore di serie B Ronald Reagan, il venditore di noccioline Carter, quello di cravatte Truman, gli idioti congeniti della famiglia Bush, il culturista Schwarzenegger, i vari cow boys, gli sceriffi, il sindaco Giuliani chiamato Giussolini, perché non voleva combattere il crimine coi fiorellini ecc.

L’imperialismo americano. Ancora oggi questa espressione viene usata per qualificare la presenza americana all’estero, retaggio propagandistico di un comunismo che non aveva altri strumenti di confronto. A partire dalla Guerra di Corea questa espressione è andata sempre più diffondendosi falsificando la storia e i fatti certi. Lo stesso vale per tutto il periodo successivo alla Seconda Guerra Mondiale: mentre l’URSS occupava interi territori e ne sottoponeva i popoli a dittature impressionanti, gli USA permettevano che i paesi dell’Europa Occidentale si organizzassero liberamente, facendo sì ad esempio che la Francia dal 1966 continuasse a vivere senza la presenza americana, diversamente da Italia e Germania che avevano basi in comune, evidentemente perché più prossime alla cortina di ferro.
Nonostante queste differenze il paese imperialista erano gli USA, mentre sull’URSS non si diceva nulla.
Di mistificazione in mistificazione si è andati avanti. La crisi di Suez vide l’intervento anglo-francese, ma non americano.
Allora si è cominciato a parlare di imperialismo economico, per gli investimenti americani nei paesi del c.d. Terzo Mondo. Nessuna responsabilità dei governanti che trasformavano gli aiuti in armi e in strutture di potere, mentre la presenza americana, quale che fossero le sue forme era sempre la dimostrazione del suo imperialismo: sacerdoti, Ong, Coca Cola, Esso o altro. Silenzio sulla presenza di migliaia di soldati cubani in Angola e degli investimenti sovietici in alcune attività economiche e nella formazione di classi dirigenti a Mosca. Poi, imploso il regime sovietico, è stata la volta della Cina (presente con 10.000 imprese e primo partner dei paesi africani), ma l’imperialismo rimane sempre quello americano.
Il razzismo. Gli USA sono considerati un paese razzista nonostante tra il 1945 e il 1965 abbiano eliminato al loro interno ogni segregazione: silenzio su cosa facessero in quegli anni i francesi in Indocina o in Algeria, i Sovietici nei confronti dei baltici e delle numerose minoranze del loro sterminato Impero, i Cinesi nei confronti dei tibetani e così via.
Ma i razzisti erano e resteranno gli americani.
La scuola e la cultura. Quante voci negative sul sistema scolastico americano, sui test, il nozionismo, l’ignoranza dell’uomo medio e compagnia bella. Eppure cinquant’anni prima che in Francia gli USA a partire dallo Stato di New York )1832) dettero vita all’istruzione elementare gratuita e obbligatoria, mentre la ricerca educativa ha visto gli USA essere sempre all’avanguardia e, guarda caso, nella graduatoria tra le migliori università del mondo quelle americane occupano molti posti alti: e non si dica che sono solo per i ricchi perché esistono molte borse di studio e altre possibilità. Perché è interesse di quel paese far progredire chi può aggiungere valore. Per quanto riguarda le scuole sfavorite ce ne sono in tutto il mondo sviluppato: se per amor di patria non vogliamo parlare dell’Italia basta ricordare la Francia e i REP (Réseaux d’éducation prioritaire).
La cultura classica ormai in crisi persino in Italia, dove i geni della politica stanno smantellando anche quel Liceo Classico che all’estero ci invidiano, trova i maggiori studiosi a livello mondiale negli Stati Uniti. Sempre per la cultura, costantemente ridicolizzata, occorre ricordare che negli USA ci sono 1.700 orchestre sinfoniche, sette milioni e mezzo di biglietti venduti per l’opera e 500 milioni di ingressi ai Musei. Scusate se è poco.
Il suffragio universale maschile risale al 1820 e quello femminile in molti stati tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo. L’educazione alla democrazia, come già aveva anticipato Tocqueville, forgia il popolo e lo rende sempre più immune da derive totalitarie: comunismo, fascismo, nazismo non hanno mai attecchito negli USA.
Per quanto riguarda poi il sistema fiscale (le tasse), il welfare, l’approccio ecologico gli Stati Uniti sono sempre risultati i primi per sensibilità e decisione: leggere per credere.
Continua poi la favola di un paese puritano, bigotto con grossi problemi sessuali, fermo a chissà quale epoca preistorica, dimenticando che la rivoluzione sessuale è nata proprio in America e continuando a ignorare, democraticamente, il carattere complesso della vita umana anche in campo sessuale.
Le lobby sono poi un altro pallino degli antiamericani per partito preso. Le lobbies americane, a differenza di quelle europee, operano alla luce del sole e le loro posizioni sono pubbliche e alla base di un dibattito pubblico continuo: a decidere è sempre il Congresso che sintetizza quelle posizioni. Quando si parla di lobbies si lascia intendere che sono soprattutto quelle delle armi e del petrolio, ignorando che le lobbies più potenti negli USA sono quelle dei pensionati e degli agricoltori.

Ogni aspetto della vita sociale, dall’ambiente alla giustizia alla famiglia alla polizia, è sempre trattato in modo superficiale e denigratorio, come se gli Stati Uniti fossero “la peggiore società che ci sia mai stata”. E questo riguarda parte della popolazione ma soprattutto quegli intellettuali, opinionisti scrittori pensatori politici, che mai si sono dissociati pienamente in passato dal comunismo e continuano ancora oggi a trovare infinite giustificazioni a tutti e tutto (l’Iran, l’Islam, i palestinesi, i rivoluzionari sudamericani ecc.) pur di criticare gli Stati Uniti.
“L’antiamericanismo va distinto dalla critica nei confronti degli Stati Uniti…necessaria purché basata su fatti reali e che sappia individuare anche gli aspetti positivi e le iniziative coronate da successo…Questo tipo di critica si trova quasi esclusivamente nella stessa America”.
Alla base dell’antiamericanismo è invece l’ideologia: “L’ideologia è una macchina atta a respingere i fatti che rischierebbero di costringerla a modificarsi. Serve anche a inventarli quando queste invenzioni sono necessarie a perseverare nell’errore”(pag. 257).