LA PAZZIA DELLE FOLLE – Gender, Razza e Identità di Douglas Murray (Ed. Neri Pozza)

Negli anni in cui assistiamo alle rivendicazioni sempre più acute di gruppi che si sentono discriminati il libro nuota controcorrente e lo fa non dalla sponda opposta di quei sostenitori, ma dalla collina di quello che è lo strumento principale che ha portato l’Occidente a proporre la liberaldemocrazia e i diritti individuali, dopo secoli di dominio da parte di diverse aristocrazie e dopo l’esperienza assolutista delle ideologie, comunista e nazista.

La ragione, il dubbio, la critica, la riflessione, il dialogo contro l’ideologia, l’asserzione assoluta, non discutibile, l’imposizione di verità assolute.

Il libro ci mette di fronte alle nuove verità che hanno preso il posto delle ideologie, operando come quelle hanno operato, attraverso verità considerate assolute e che per questo trasformano tutti coloro che da esse si distaccano (poco o molto) come dei nemici, da soffocare se non proprio sterminare.

I temi che vengono analizzati e approfonditi riguardano 1) Gay; 2) Donne; 3) Razza; 4) Trans.

Da sempre la diversità è un elemento necessario alla formazione e al consolidamento di un gruppo, che ha bisogno del diverso per poter affermare se stesso. Non è prerogativa della cultura e della storia dell’Occidente, ma ha caratterizzato da sempre la vita dei gruppi sociali sia quando vagavano di terra in terra alla ricerca di cibo sia quando hanno cominciato a fermarsi, coltivare e allevare, formando organizzazioni sempre più stabili e allargate.

Un difetto della riflessione di moda oggi è l’anacronismo accompagnato sempre dal moralismo: giudicare la schiavitù fuori dal contesto e considerare il Bene come qualcosa di assoluto in vigore dai tempi della creazione.

Anacronismo e moralismo sono il carburante del “politicamente corretto” e ciò che gli si oppone non è un’ideologia eguale e contraria, ma una visione razionale della storia che non ha mai seguito né mai seguirà le nostre fantasie e i nostri buoni propositi (dal Sol dell’Avvenir alla realizzazione del Nuovo Eden).

La Storia si muove in modo evolutivo e senza alcuna forma di necessità e determinismo; in genere si muove da una situazione più semplice verso una situazione di maggiore complessità e il futuro è sempre aperto: “Anche il passato aveva un futuro” diceva Ricoeur.

Per il “politicamente corretto” coloro che discordano sono nemici che vanno combattuti come tali, mentre per i suoi oppositori la presenza di diverse opinioni è il sale della terra.

Ciò che emerge dalla lettura del libro è la diversità tra chi non solo è convinto in modo assoluto delle proprie opinioni, ma considera un danno per l’umanità chi non le condivide. Questa caratteristica, di sostenere cioè le proprie tesi come una salvezza per l’umanità, non è cosa nuova ed è stata la caratteristica dei totalitarismi del ‘900: il Comunismo sosteneva la necessità della fine del capitalismo perché quello era il destino della Storia, l’unica garanzia di progresso per l’Umanità; il Nazismo giustificava il proprio dominio con la logica darwiniana (naturalmente deformata), per cui solo i più forti erano destinati a sopravvivere.

Sui quattro argomenti oggetto d’indagine questo diverso metodo di riflessione e di comportamento emerge con chiarezza e il pregio del libro sta proprio in questo: non criminalizza il “politicamente corretto”, ma ne smonta la pretesa di asserzione universale e assoluta, portando alla luce la deriva e i danni che quella pretesa comporta.

GAY

Negli anni ’90 nessuno sosteneva il matrimonio gay, neanche i gay perché volevano mostrare la loro diversità rispetto alle tradizioni borghesi, neanche Hilary Clinton che appoggiò la “Legge in difesa del matrimonio”.

Oggi sei messo alla pubblica gogna non solo se non sei d’accordo ma neppure se hai scritto un commento negativo 30-40 anni fa (come è successo a Joy Reid, nota corrispondente della MSNBC). Peggio ne incombe a chi osa sostenere che l’omosessualità è appresa e non si è gay dalla nascita, nonostante né l’American Psychological Association né il britannico Royal College of Psychiatrists credano che l’omosessualità sia innata e immutabile. Il “politicamente corretto” impone il proprio dogma e considera pericoloso chi non segue quella fede. Se sei etero e poi scegli di essere gay allora ti sei liberato delle catene e finalmente sei un uomo libero, mentre se avviene il contrario (cosa che non fa notizia) allora sei guardato con sospetto. Il punto è proprio questa pretesa dogmatica, quando “non c’è consenso fra gli scienziati sui motivi esatti per cui un individuo sviluppa un orientamento eterosessuale, bisessuale, gay o lesbico” (American Psychological Association).

Il “politicamente corretto” è un atteggiamento moralistico e ideologico e nega la libertà di parola che al contrario è un punto fondamentale in una società libera: confondere l’omofobia con la violenza contro gli omosessuali è grave, infatti solo il libero confronto tra tesi diverse garantisce la crescita di una società, perché permette a chi sbaglia di correggersi; diversamente le tesi errate si solidificano, crescono nel silenzio fino ad esplodere. Il carattere ideologico e dunque violento del “politicamente corretto” è ancora più evidente se si pensa alle cifre: il celebre studio di Kinsey del 1948 e del 1953 parla di un 11% di uomini prevalentemente omosessuali, mentre dati recenti forniti da Stonewall, Organizzazione per i diritti gay, parla di un 5-7%. I riduzionisti si fermano al 2%, mentre studi più neutrali parlano di un 5%.

Si tratta di cifre modeste rispetto al clamore e alla pubblica condanna.

Ci sono poi evidenti contraddizioni che mostrano come l’argomento sia molto più complesso e ricco di sfaccettature e articolazioni rispetto al discorso comune.

In uno degli ultimi paragrafi del capitolo l’autore mette in evidenza sia come gay e lesbiche vivano separatamente la loro differenza, ma siano fortemente diffidenti nei confronti di coloro che si dichiarano bisessuali, perché sono visti come omosessuali che non vogliono ammettere di esserlo: non è una banalità se si pensa che dietro la sigla si vuole affermare la propria identità. Esiste poi la netta separazione tra gay e queer, essendo i primi convinti di dover essere accettati come chiunque altro, mentre i secondi ritengono che essere gay è solo il primo passo per abbattere l’ordine e le normali modalità di vita. Ogni aspetto della vita, dal matrimonio alla genitorialità alla fedeltà è diventato motivo almeno di incomprensione: essere gay cessa di essere condizione normale e diventa momento di distinzione, elemento di progresso, che stigmatizza e condanna i non progressisti, tanto che suscitò scalpore, e forti critiche, il discorso di Peter Thiel di orgoglio gay, orgoglio repubblicano e orgoglio americano (21.7.2016).

Il vero gay, per la più importante rivista gay americana Advocate, non può essere repubblicano.

DONNE

Una serie di episodi che riguardano attrici vengono citati all’inizio del capitolo per mostrare come fino al 2014 “Le avances sessuali non richieste non erano solo spassose e sensuali, erano anche grandiose” (pag. 109). Ma dal 2017 col #metoo inizia una nuova epoca e non solo atteggiamenti da sempre ritenuti accettabili, ma anche semplici espressioni, diventano oggetto di condanna pubblica da parte del Nuovo Comitato di Salute Pubblica. Tutto parte da Hollywood, ma da lì inizia a diffondersi nella società civile, dove i grandi discorsi diventano il lustro della persona, mentre la vita prosegue nel piccolo, come sempre. Non si può dire che tacchi alti e rossetto sono attrattiva sessuale, perché la Nuova Fede traduce quella frase con “allora vuoi dire che le donne lo fanno perché vogliono subire un’aggressione sessuale” (pag. 117).

Anacronismo e moralismo.

Ci si è convinti che “le complessità individuali, che di fatto esistono non soltanto fra donne e uomini ma anche fra le donne e fra gli uomini, possono essere semplicemente messe da parte partendo dal presupposto che si tratti di roba ormai superata“ (pag.119).

Il Terrore giacobino nacque e si sviluppò sullo stesso presupposto e lo stesso avvenne con il Terrore di Stalin: poiché le persone non comprendevano il Valore Supremo della Ragione e del Comunismo dovevano essere soppresse.

La grande contraddizione è che la donna può essere sexy ma non sessualizzata: la canzone di Nicki Minaj Anaconda è l’esempio più significativo di ciò.

Come nel caso della razza è in gioco il potere, per cui la originaria richiesta di uguaglianza diventa ora il riconoscimento che le donne sono migliori; e nel campo del business questo è diventato un mantra, dalla Lagarde ex-capo del FMI ai numerosi convegni industriali e finanziari che hanno come argomento il ruolo delle donne.

Si evita di studiare le situazioni in concreto e la complessità delle relazioni: quante donne sul lavoro fanno le scarpe ad altre donne? E si riduce tutto a frasi generiche che hanno il solo scopo di far sentire in colpa il maschio: gli uomini hanno il potere e la devono pagare. Chi? Quando? Dove? Come? Non importa. Il concetto di potere, come quelli di privilegio e sfruttamento, è usato come clava…di potere. E così si va alla caccia di “preconcetti inconsci” che non rappresentano la storia di una società, ma qualcosa di negativo da estirpare: come aveva evidenziato Gadamer, i pregiudizi sono il punto di partenza del giudizio e con essi occorre fare i conti, discutere, dialogare e di pre-giudizi vivono tutti, maschi e femmine, giovani e vecchi, gay ed etero.

Credere di non avere pregiudizi significa essere in possesso di una Verità Assoluta, ma la complessità, anche in campo scientifico, ha dimostrato che le verità sono solo relative.

Come con le sette religiose (es. Scientology) si creano programmi per estirpare il diavolo maschilista che è in noi e persino Harvard (sic!) ha creato un test (IAT) con l’obbiettivo di sradicare i supposti “presupposti inconsci”: per fortuna dopo qualche tempo due dei tre creatori del programma hanno riconosciuto pubblicamente che lo IAT non è in grado di fornire risultati con sufficiente accuratezza.

Il capitolo si conclude con una riflessione sulle contraddizioni interne al femminismo che nell’ultima generazione ha espresso posizioni estreme tali da essere contrastate da femministe storiche. Slogan come “Gli uomini sono rifiuti umani” (Laurie Penny), “Fuori dai piedi gli uomini” (Salma El-Wardany), “A morte tutti gli uomini” (twitter femministe quarta ondata) si diffondono e, a parte la scelta lesbica, servono solo a acquisire potere nei confronti del maschio. Il nodo non sta nella violenza espressiva e nelle durezza e purezza, ma nel senso di contrasto-conflitto con gli uomini che in forme meno radicali si diffonde nel corpo sociale. E così la causa dei mali è nel patriarcato, come spiega Marilyn French: tutti i conflitti, tra individui, etnie, popoli, gruppi sociali, gruppi religiosi non sono nulla, l’unica cosa è che il patriarcato è guerra dichiarata dei maschi alle donne: poche donne condividono, ma rimane la parola “patriarcato” che ogni donna declina a modo proprio.

Semplicismo.

Allo stesso modo funziona il discorso che le donne guadagnano meno degli uomini: in Occidente non è vero nel senso che da decenni i contratti non discriminano, ma la maggior parte delle persone, anche maschi, ne è convinta. La differenza salariale non riguarda il tipo di lavoro, ma l’arco della vita ed è facilmente comprensibile, essendo legata alla maternità. Ed è probabilmente per lo stesso motivo che gli uomini gay e le donne lesbiche guadagnano sistematicamente più dei colleghi eterosessuali, mentre per problemi di altra natura i redditi degli ispanici sono inferiori a quelli degli afroamericani che vengono dopo i bianchi e i primi sono gli asiatici.

Numerosi studi mostrano come “Gli uomini con muscoli e denaro sono più attraenti per donne etero e gay – a dimostrazione che i ruoli di genere non stanno facendo progressi” (Newsweek, 2017): si avrà un progresso solo quando le donne troveranno attraenti uomini grassi e poveri?

Semplicismo.

Hardware o software? Per decenni si è sostenuto che le differenze fossero nella struttura (hardware), ora va di moda che il sesso è faccenda di reiterate prestazioni sociali (software).

Ed è su questo nodo che riguarda anche gay e razza che si è sviluppata una teoria molto di moda: l’intersezionalità. La Storia non conta più, esistono solo sfruttatori-oppressori e sfruttati-oppressi: donne, gay, nativi americani, chicanos, afroamericani. E questi devono pretendere dei risarcimenti, in che forma non è chiaro, ma certo il fenomeno delle “quote” è contraddittorio. E così torna ciò che era caratteristica del passato, il conflitto comunitario, che era stato superato dai diritti degli individui e dal riconoscimento del merito.

Perché meravigliarsi se la società si è fatta più conflittuale?

E cosa pensare dei diversi che hanno lavorato duro per emergere? Esistono donne (anche afroamericane e gay) di estrazione benestante, con istruzione privata, laureate in Prestigiose Università: la loro quota sarà a spese di chi? E poi i diversi sono tanti: i profughi, i portatori di handicap, i depressi, i brutti, i grassi, i bipolari ecc.

Semplicismo.

Continuando su questa strada chi deciderà sulle diverse comunità e sulle scelte individuali? solo un Grande Fratello, che, come Robespierre, deciderà per la ghigliottina, la riconversione, l’assoluzione.

Orribile.

RAZZA

Martin Luther King Jr. nel 1963 disse:” I have a dream…che i figli potessero vivere in una nazione in cui non saranno giudicati per il colore della pelle ma per quel che costituisce il loro carattere”. La color-blindness.

Le cose stanno andando diversamente.

Come dalla celebrazione delle donne si è passati alla denigrazione degli uomini, così nel campo degli studi afroamericani, nati per togliere lo stigma, si è passati ad attaccare le persone di diverso colore, i bianchi essenzialmente. Anche qui il nodo non è tanto nelle tesi in sé, quando rimangono in campo accademico, ma nel fluidificare e disperdersi tra la gente comune, che le tratta secondo i propri interessi e la propria capacità di comprensione. Avviene dunque che il suprematismo bianco, che è sempre esistito, pur rimanendo in posizione residuale, abbia ripreso slancio di fronte a quegli attacchi. Questo è l’effetto che si ottiene ogni volta che si estremizzano delle posizioni, in un contesto democratico che aveva fatto enormi progressi nella convivenza.

Come per i preconcetti sessuali anche in questo campo si parla di “strutture invisibili che producono la supremazia e il privilegio dei bianchi” (Studi sulla bianchitudine in Research Encyclopedia Oxford Univ. Press). Anche qui si propone una rieducazione molto simile agli orrori della rieducazione nei campi di lavoro maoisti o nei gulag russi, con la differenza che per ora siamo solo (sic!) al livello della propaganda.

In alcune Università, soprattutto americane (Oympia, WA; Yale, CN; Claremont McKenna, CA), si assiste a una caccia alle streghe, cioè ai bianchi: catastrofizzazione, dichiarazioni che non hanno la minima attinenza con fatti dimostrabili, accampare pretese mettendo tutti sullo stesso piano, volgere le parole in violenza e la violenza in parole.

Come gli Armeni, i Kulaki, gli Ebrei, i Borghesi ora è la volta dei bianchi, che devono tacere perché sono bianchi: “Diversità di pensiero non è altro che un eufemismo per supremazia bianca” (Michael Harriot, The root, 2018).

E’ il trionfo dell’anacronismo e del moralismo e il peggio è che autorevoli giornali e intellettuali stanno al gioco chiedendo scusa e sentendosi in colpa, in colpa per eventi che risalgono ai secoli scorsi. E’ il caso addirittura di National Geographic (Per decenni i nostri servizi sono stati razzisti, 2018) e dell’abolizione dalle Università di autori “razzisti e sessisti” come Shakespeare, Kipling e altri. Si vuole riscrivere la storia, ma è solo una lotta di potere di cui trarranno vantaggio solo alcuni leader afroamericani, al costo di una accresciuta tensione e conflittualità razziali.

C’è poi il discorso dell’appropriazione culturale, quanto di più reazionario si possa pensare e che, proprio in questi giorni, è stata riproposta con il rifiuto di far tradurre i versi di una poetessa afroamericana (Amanda Gorman) a una poetessa bianca (Marieke Lucas Rijneveld), perché un bianco non può sentire ciò che prova un afroamericano. A Portland fu impedito a una coppia bianca di gestire un ristorante messicano e via discorrendo: minacce di morte e elenchi di proscrizione.

Questo atteggiamento presuppone la separazione, l’isolamento che, come la Storia ha sempre dimostrato, è l’anticamera della guerra.

Gli esempi citati dal libro sono numerosi e vari: chi ha diritto di fare cucina cinese? Chi di indossare il sombrero? Chi di creare personaggi armeni o gay o ciechi? (Come mise in evidenza la romanziera Lionel Shriver, subito minacciata).

Ancora una volta “Victimhood is powerful”.

Come il gay Thiel era un traditore perché appoggiava i repubblicani, lo stesso è successo anche per Candice Owens, intellettuale afroamericana ma conservatrice.

Il problema centrale è chiarito proprio dalla Owens: “Quel che sta accadendo ora nella comunità nera…Si sta svolgendo una guerra civile ideologica. Neri concentrati sul loro passato che blaterano di schiavitù. E neri concentrati sul loro futuro. Quello che state vedendo è la mentalità da vittima contro la mentalità da vincitore”.

Il clima che questo evidente razzismo afroamericano ha generato è sotto gli occhi di tutti e parte dalla serietà con cui certe affermazioni vengono fatte: “I bianchi sono geneticamente predisposti a scottarsi più rapidamente al sole, essendo perciò logicamente più adatti a vivere sottoterra come folletti striscianti”, “I bianchi sono stronzi, eliminiamo i bianchi” ed altre amenità: sono tweet di Sarah Jeong nata in Sud Corea e assunta dal New York Times. Naturalmente erano interventi di anni prima, ma non ci furono problemi ad assumerla: infatti fu perdonata. Non succede lo stesso però nelle situazioni inverse: lei ha capito l’errore, ma altri, che magari hanno usato la parola che non piace (tipo colored), vengono espulsi perché la bianchitudine non si cura.

E così mentre autori afroamericani del calibro di James Baldwin hanno lavorato contro le ingiustizie razziali, per un maggior riconoscimento della gente di colore nella prospettiva di un loro superamento, altri autori come Na-Ti Coates, vivente, si impongono ampliando le differenze operando per uno scontro sempre più duro. Il punto è che anche se sono romanzi lasciano nel lettore una scia di risentimento e il fossato si allarga. Basta vedere un real crime in TV, con poliziotti, detective bianchi e afroamericani, e la prima cosa che un omicida afro americano dice: siete razzisti.

Il capitolo si conclude con studi che riguardano le Università, anche le più famose come Harvard, dove si possono notare i pericoli di una politica basata (quote più o meno) sulla pretesa di favoreggiamento etnico, una politica che non tiene conto delle differenze reali e che crea maggiori problemi: numerosi studi mostrano che 1) le differenze all’interno dei gruppi razziali sono maggiori delle differenze tra un gruppo e l’altro; 2) i gruppi che sono svantaggiati non sono gli afroamericani (13 % della popolazione), ma gli asiatici (6 %) e gli ebrei ashkenaziti, quelli cioè provenienti dall’Europa (3 %).

TRANS

La riflessione anche su questo tema è minima, anzi non esiste. Si dà per scontato tutto come se fosse la cosa più evidente del mondo, ma le domande che rimangono in piedi sono molte: “Che cos’è un trans? Chi è un trans? Che cosa fa di qualcuno un trans? Siamo certi che esista una categoria del genere? E se esiste, siamo sicuri che tentare di far passare fisicamente qualcuno da un sesso a un altro sia sempre possibile o che comunque sia il modo migliore per affrontare l’enigma che rappresenta?” (pag. 275).

Ovunque nel mondo da sempre esistono persone con simile fluidità di genere: ne parla Ovidio, ci sono in India, in Thailandia, in Iran, in Afghanistan: non è dunque cosa moderna. Anche la scienza ha sempre parlato di persone che presentano caratteristiche ambigue, si chiama intersessualità: in genere una piccola percentuale degli esseri umani (l’ermafroditismo è forse il caso più noto ai più).

In passato si parlava di autoginefilia, il piacere provato immaginando di appartenere al sesso opposto (software), ma ora si tende a assolutizzare la propria Verità e per questo anche i trans come gli omosessuali dicono di essere nati così (è quindi un aspetto hardware).

Per fare questo, in mancanza di studi approfonditi e di una riflessione seria, tutto si riduce al fatto che basta che una persona creda di essere veramente di un genere diverso, perché venga avviata l’operazione trans.

Nelle relazioni omo e eterosessuali tutto l’hardware biologico posseduto rimane al suo posto, per i sostenitori della causa trans invece il punto d’arrivo è irreversibile e cambia l’intera vita. C’è poi la questione dell’età: quando la convinzione di avere un corpo sbagliato autorizza all’uso di droghe e a una chirurgia invasiva? “Ci si rende sempre più conto che, se anche da bambini si sono immedesimati nell’idea di avere una disforia di genere, crescendo l’idea svanisce e molti diventano gay” (pag. 300).

L’80% dei bambini a cui è stata diagnosticata la disforia di genere scopre che il problema si risolve da solo durante la pubertà…La maggioranza di loro diventerà gay o lesbica da adulti” (sexologytoday.org/2016).

Il libro riporta poi casi di persone che hanno subito un indottrinamento a senso unico: c’è chi si è fermato in tempo e chi ha preferito la morte.

Nel primo caso “James” è divenuto gay e riconosce che l’approccio ricevuto è stato unidirezionale, mentre in generale non si indaga a sufficienza né si approfondisce il tema. Dice: “dovremmo, se non altro, saperne di più. Per esempio come mai il tasso di suicidi non varia fra i trans prima e dopo l’operazione?”.

Nel secondo viene citato il belga Nathan Verhelst, che dopo la pesante trafila di ormoni e operazioni chirurgiche, non soddisfatto dei risultati, ha fatto ricorso all’eutanasia, morendo nel settembre del 2013 a poco più di 40 anni.

Ci sono poi le contraddizioni soprattutto in campo femminista: “Una vagina costruita chirurgicamente e un seno cresciuto a forza di ormoni non fanno di te una donna” (Rape relief). E così, invece di accettare il dibattito, e sviluppare la riflessione, parte l’anatema: chi sostiene questa tesi è transfobico! Una nota femminista, Germaine Greer, mise in evidenza che chi è nato uomo non può essere classificato donna e è difficile accettare che un transessuale si identifichi come tale solo perché lo dice lui. Accusata di misoginia, proprio lei, una femminista storica: è sempre il solito modus operandi, anatema, condanna e tutto il resto.

E poi c’è il gruppo TERF (Trans Exclusionary Radical Feminism) che contesta la partecipazione transgender al Gay Pride e i gruppi Gay rispondono: insomma si dà per scontato cosa ci sia dietro la sigla LGBT, mentre in realtà molte sono le contraddizioni tra i diversi gruppi e lo sono proprio perché mancano riferimenti culturali comuni. Come avveniva per i vari Gruppi Comunisti, ognuno dei quali rivendicava a se stesso di essere il Vero Rappresentante della Classe Operaia.

Il quadro è desolante, perché i soggetti coinvolti sembrano in balia dell’autoreferenzialità: i genitori preferiscono lasciar fare a bambini anche di otto anni, i medici e i Media si sentono rivoluzionari nell’affermare una nuova teoria, mentre la scienza viene scavalcata e il dibattito non esiste, perché da una parte si ha la Verità assoluta e chi non concorda viene processato pubblicamente.

CONCLUSIONI

La sigla LGBT si mescola con l’identità di razza e si arricchisce di nuove lettere come Q di Queer e I di Intersexual, mostrando come il concetto di minoranza sia un concetto molto poco stabile. Le contraddizioni e le gerarchie all’interno di ogni gruppo sono notevoli, perché il gruppo si fonda su un’identità completamente astratta: il mondo dell’oppressione è molto più variegato di quello che il politicamente corretto vorrebbe farci credere. Esemplare la richiesta alla Cornell University di prestare maggiore attenzione agli americani neri che vantano più di due generazioni, a scapito degli studenti di prima generazione venuti dall’Africa o dai Caraibi. L’intellettuale Mark Lilla sottolineò un aspetto importante di questo universo durante una tavola rotonda: Non si può dire contemporaneamente alle persone “Devi capirmi” e “Non puoi capirmi”.

Il trionfo del relativismo mostra i suoi evidenti limiti, perché non si rende conto che la possibilità di vivere la propria vita nel modo che si desidera è il frutto di una società che lo ha permesso, quella società di cui i vari Gruppi si lamentano del tutto: nel mondo ci sono 73 paesi in cui è illegale essere gay e 8 in cui è prevista la pena di morte; in molti paesi dell’Africa e del Medio Oriente sono negati diritti basilari delle donne; violenze razziali molto pesanti si sono registrate un po’ ovunque in Africa e Asia; in nessuna parte del mondo i diritti dei trans sono garantiti come in Occidente.

Continuare a creare conflitti tra diverse identità e all’interno delle stesse è controproducente perché impedisce di affrontare gli argomenti più importanti. L’esempio più evidente emerge da un’altra femminista storica: “L’ideologia femminista non ha mai trattato onestamente il ruolo della madre nella vita umana. La raffigurazione che offre della storia come oppressione maschile e vittimizzazione femminile è una grossolana distorsione dei fatti” (Camille Paglia, Free women. Free men. 2018).

Il punto è che si tratta di battaglie ideologiche, che, come tali, non mirano a risolvere problemi, ma a imporre un’idea e una visione, per poi procedere secondo i rapporti di potere creati. Chi conosce la storia del Comunismo sa bene come funziona una politica basata sull’Ideologia: il discorso ideologico serve solo a giustificare azioni da cui trae vantaggio un ristretto gruppo di persone.

Si semina il dubbio, la divisione, l’animosità e la paura…Fare dubitare la gente di tutto. E poi presentarsi come i detentori delle risposte: il grandioso, onnicomprensivo, interconnesso insieme di risposte che collocherà tutti in un posto perfetto, ma i cui dettagli verranno forniti in seguito” (pag. 362).

Ma l’ideologia è dura a morire, e così si rispolvera il mito del buon selvaggio, ma alla domanda:” La nostra società è pessima, ma rispetto a cosa? Qual è un sistema diverso che ha funzionato o funziona davvero?” La risposta è priva di riferimenti storici. E geografici.

Un altro presupposto ideologico sta nel vittimismo, immaginato come se la sofferenza rendesse le persone migliori. I fatti in tutti i campi smentiscono questa asserzione: è sempre una questione di potere.

Viviamo nella stessa società e dobbiamo dialogare, altrimenti resta solo la strada della violenza. Il libro conclude così: “Minimizzare le differenze non è lo stesso che fingere che la differenza non esista. Sarebbe ridicolo partire dal presupposto che genere, sessualità e colore della pelle non significhino nulla. Però supporre che vogliano dire tutto sarebbe fatale” (pag. 374).