QUALCHE ESEMPIO DALLA LETTERATURA.

PARTE PRIMA: DALLA GRECIA A PETRARCA

 

In Grecia amore è EROS (brama ardente) e FILIA (relazioni amichevoli, tra Stati, famiglie, individui; opposto a MISOS, odio). La stessa parola amore deriva dal greco MAO che vuol dire desiderare. La radice indoeuropea che vi si riconosce è AM di cui troviamo traccia nello stesso termine, nel verbo amare e in amicus. Suggestivo rimane il riferimento alla preposizione greca άμa (AMA), con valore di unione, insieme, in comune.

In Grecia e a Roma l’amore è erotismo, cioè relazione corporea  per il godimento della carne, e si muove abbastanza liberamente, come è visibile in molti autori e in molte opere, ma l’erotismo non va confuso con la sessualità: “La prima nota che distingue l’erotismo dalla sessualità è la infinita varietà di forme con cui si manifesta, in tutte le epoche e in tutte le terre. L’erotismo è invenzione, variazione incessante; il sesso è sempre lo stesso” (O. Paz, La doppia fiamma, Ed. Seix Barral, pag.15- trad. mia).

Prendiamo ad esempio Catullo, il poeta latino del I sec. a. C. famoso per alcuni versi che sono rimasti a lungo nel corso del tempo, come il celebre “Odi et amo” o “dammi mille baci, e cento / e mille ancora, e cento nuovamente / e mille ancora di continuo e cento…”. I suoi Carmina sono rimasti famosi anche per il linguaggio licenzioso e la descrizione rude e volgare di situazioni erotiche dirette: parole come cazzo, inculare, fottere sono frequenti. Non tutte le sue poesie raccontano questa dimensione erotica, che non distingue tra uomini e donne, perché ci sono anche poesie più lunghe, colte e che cercano, all’interno della cultura del tempo, di scavare nell’animo umano.

Per quanto riguarda l’amore non c’è dubbio che esso miri a soddisfare il desiderio, la passione, i sensi e, nel contesto di una società aristocratica, esso è parte importante dell’otium, insieme ai pranzi, allo scrivere versi, all’amicizia.

 

Per piacere, mia dolce Ipsitilla,

delizia mia, tesoro mio,

fammi venire da te, all’ora della siesta.

E se mi inviti fa’ sì

che non scatti la chiusura della porta

e non ti venga in mente d’andar fuori,

ma resta in casa e prepara per noi

nove scopate senza interruzione.

Anzi, già che ci sei, chiamami subito.

Ho pranzato e sto sdraiato sazio

e già sfondo la tunica e il mantello.

CARME 32 (Trad.mia)

Anche il matrimonio è centrato su queste dinamiche, oltre a quelle della procreazione, come si vede bene nel Carme LXI, scritto in occasione delle nozze di Manlio Torquato con Vinia Aurunculea:

 

Sappiamo che era lecito che tu facessi ciò che hai fatto,

ma, una volta sposato, quelle stesse cose non sono più permesse

Sposa, anche tu non negare al tuo uomo ciò che chiede,

 affinché non vada a ricercarlo altrove

.…

Giocate come vi piace, e fate figli quanto prima.

 Non sta bene che una famiglia dal nome tanto antico resti senza figli,

ma deve sempre rinnovarsi generando.

 

L’amore è chiaramente desiderio e soprattutto caratteristica giovanile: “Tallo, cinedo (giovane omosessuale, ndr), molle più … del languido pene dei vecchi” (Carme 25)” e il riferimento ai giovani che riempiono il desiderio è dichiarato attraverso l’espressione “pupulus”, cioè ragazzino, fanciullo e per l’altro sesso “puella”, cioè ragazza o giovane donna.

Ma ci sono anche versi molto più duri ed espressivi:

“…Chi ora amerai? Di chi dirai di essere? / Chi bacerai? A chi morderai le labbra?…” (Carme VIII).

“Ti affido, Aurelio, me stesso e i miei amori / … / in vero temo te e il tuo cazzo / pericoloso per i buoni e i cattivi ragazzi. / Tu muovilo dove e come / vuoi e quanto ti pare, quando fossi pronto a entrare…” (Carme XV).

“Aurelio, padre della fame / … / tu desideri infilarlo in culo ai miei amori…/ Perciò smetti finché sia lecito: che tu non finisca col farmi un pompino” (Carme VIII).

Eppure Catullo è considerato un poeta nuovo e lo è soprattutto per lo stile e per i temi, quanto di più lontano si possa pensare rispetto a Omero e ai Tragici.

 

Una disposizione diversa rispetto all’amore era stata proposta da una grande poetessa greca, Saffo di Lesbo, vissuta nel VII-VI secolo a.C.; si tratta di una disposizione affettuosa che non ha bisogno del linguaggio licenzioso che userà Catullo, ma che rimane all’interno di una visione dell’amore che non va oltre gli orizzonti erotici comuni al mondo classico.

 

Se mi vuoi bene / scegliti un letto più giovane: / non sopporterò d’accasarmi con te / io che sono più vecchia…” (Frammento 57 Ed. Mondadori 1993).

“Sposo felice sono compiute le nozze / come desideravi ora possiedi la fanciulla / che desideravi / tu hai grazioso l’aspetto, e gli occhi… / sono dolci, sopra il tuo amabile / volto si diffonde l’amore… / …moltissimo ti ha onorato Afrodite” (50, op. cit.).

 

Ancora difendere la verginità?” (47, op. cit.) e “-Verginità, verginità mi lasci, e dove vai? / -Non più tornerò da te, non più tornerò” (52, op. cit.).

 

“…Tu sai quanto ti amavo. / E se non lo sai, io voglio / che tu rammenti… / le belle cose che facemmo insieme: /…/  e ti ungevi di unguento odoroso / e di profumo regale, sopra un soffice letto / il desiderio…” (36, Ode di addio a una giovinetta che si sposa e che è ricordata con delicata sensualità, op.cit.).

 

Naturalmente chi ha sviluppato il tema dell’amore è Ovidio a cavallo tra il I sec. a.C e il I sec. d.C., ma la sua è Ars Amatoria, cioè techne, cioè pratica e dunque un insieme di regole, di indicazioni di comportamenti legati alla seduzione e dunque alla conquista. Si tratta certo di un testo molto importante ma che sta tutto dentro la dimensione classica dell’erotismo.

Per molti il punto di passaggio sarebbe opera di Apuleio, autore del II secolo d.C., che ha creato la storia di Eros e Psiche all’interno dell’opera L’asino d’oro: si è parlato di incontro tra eros e razionalità, due mondi che ci appartengono e che è difficile far incontrare e in tal senso le prove a cui è sottoposta Psiche lo dimostrerebbero. Io credo invece che ci si sia fatti influenzare dalla parola “psiche” che noi traduciamo con “anima”, come se in realtà questa favola introducesse il mondo dell’interiorità quale emergerà successivamente come componente decisivo della moderna concezione dell’amore. La favola secondo me non può dare adito ad equivoci: l’amore tra la donna e il Dio è un amore sensuale, erotico e il piacere spinge Psiche a volerlo rinnovare e a ricercarlo, perché il desiderio è tale che la prende completamente e le impedisce di rinunciare. Quel desiderio esalta la giovinezza e la bellezza come elementi decisivi per quanto riguarda l’attrazione fisica che garantisce il soddisfacimento dei sensi attraverso il piacere. Non è un caso che dal loro matrimonio nascerà una figlia il cui nome fu Voluttà, Voluptas, parola che etimologicamente riunisce due termini importanti, volere nel senso di desiderare e piacere nel senso di godere. Che dalla parola derivi ad esempio il termine “voluttuario” non è secondario, in quanto ha a che fare con l’idea di qualcosa che non è utile o necessario alla vita. Ciò è contrario all’anima che si fonda proprio su necessità e utilità.

L’incontro è presentato al capitolo 4 ed è un incontro sessuale tanto che Psiche perderà la verginità e il rapporto si ripeté continuamente e “come avviene per natura…le provocava piacere” (trad. mia).

Al capitolo 23, il penultimo, dopo che tutte le prove sono state superate, Giove dà la sua benedizione: “(Eros) ha scelto la sua fanciulla e l’ha privata della verginità; se la tenga, ne sia il padrone e abbracciando Psiche ne goda pienamente in eterno gli amori” (trad. mia).

Il mito presentato da Apuleio mi appare più interessante per il fatto che l’umana Psiche venga alla fine accolta tra gli dei immortali con l’affermazione di Giove che Eros e Psiche saranno sposi per l’eternità.

Lo trovo interessante per due motivi non legati tra loro: il primo è che, sulla scia di Platone, si presuppone l’esistenza di un’anima gemella con la quale si stabilisce una relazione senza fine, anche se nel mito il “per sempre” è l’eternità, mentre tra gli uomini ciò non può essere; il secondo riguarda il fatto che questa conquista (almeno come tensione) sarà caratteristica della moderna concezione dell’amore, per cui l’amore è una condizione che ci permette di superare il nostro essere finiti e andare oltre i limiti a cui l’uomo è sottomesso.

 

Dobbiamo aspettare la diffusione e l’affermazione del Cristianesimo perché si faccia  quel salto dell’amore oltre la dimensione erotico-sensuale fino ad allora dominante. Certo c’è chi sostiene l’origine platonica del Cristianesimo, ma non è questa la sede per una discussione di questa tesi. Sappiamo come il Cristianesimo sia stato un elemento decisivo nella rinascita dell’Occidente dopo la crisi legata alla fine dell’Impero Romano e sappiamo anche che la riflessione filosofica e teologica impegnò per secoli i migliori soggetti che alla nuova Fede facevano riferimento. Sappiamo infine che con l’anno Mille (naturalmente si tratta di una data indicativa) ormai un nuovo mondo era nato e si stava irrobustendo dando vita a numerose creazioni in tutti i campi, culturali istituzionali economici.

Due sono gli elementi veramente innovativi introdotti dal Cristianesimo e che si sono radicati nel tessuto della società in modo tale da dar vita a una fioritura varia ed eccezionale.

Il primo aspetto riguarda il concetto di persona che favorirà la diffusione di una visione tesa a valorizzare il ruolo e le responsabilità dell’individuo: ognuno è responsabile delle proprie azioni e si meriterà il premio o la condanna a seconda dei comportamenti che avrà messo in atto nel corso della sua esistenza.

Il secondo aspetto riguarda la figura di Gesù che è uomo e Dio allo stesso tempo, con la conseguenza che animerà sempre più la scienza e la letteratura di un orizzonte privo di limiti e di confini: non si tratta più soltanto di fare il bene, ma anche di allargare le prospettive umane verso l’infinito e l’assoluto.

Naturalmente, per quello che serve in questa sede, non intendo sviluppare i due aspetti, ma solo evidenziarne il valore, perché è a partire da questi che si svilupperà quell’amore che ci caratterizza e che viviamo come se fosse la cosa più naturale del mondo.

Ancora oggi in greco moderno “ti amo” si dice “Σ’αγαπώ”, s’agapò”, da “agapào”, da cui deriva il termine AGAPE, eguale anche in latino, con il significato, allora l’unico concepibile, di amore di protezione, cura, benevolenza, “dilectio”, “benevolentia”, cioè l’aver caro e volere il bene di qualcuno. Diventa parola importante nel Cristianesimo come qualcosa che supera le passioni e diventa caritas, in cui si ritrova CHARIS, grazia.

In questo senso si esprime uno dei più noti teologi del XII secolo, padre della Scolastica, Ugo di San Vittore, che nel 1137 rimane ancorato alla contrapposizione tra cupidigia e carità:

Ogni giorno parliamo dell’amore, nel timore che da un momento all’altro possa scintillare e ardere nei nostri cuori, accendendo la fiamma di un fuoco che o tutto brucia o tutto purifica. È da lì, infatti, che viene tutto ciò che è bene; e tutto ciò che è male, viene da lì. La sorgente unica dell’amore, scaturendo dall’interno, alimenta due corsi. Uno è l’amore del mondo: la cupidigia; e l’altro è l’amore di Dio: la carità.

Proprio nel mezzo c’è il cuore umano (medium quippe est cor hominis), da dove sgorga la sorgente dell’amore. Quando l’appetito tende verso le cose esteriori, si chiama cupidigia; quando invece il suo desiderio si volge alle cose interiori, parliamo di carità. Cupidigia e carità, dunque, sono i due flussi che si sprigionano dalla sorgente dell’amore: la cupidigia è la radice di tutti i mali, la carità è la radice di tutti i beni. Da lì viene tutto ciò che è bene, e tutto ciò che è male viene da lì.

 

Pochi anni prima però cominciava a germinare quello che sarebbe diventato l’amore che noi conosciamo e il merito si deve alla storia d’amore fra Abelardo ed Eloisa, e in particolare a quanto espresso da Eloisa. La storia è nota: Abelardo noto professore e Eloisa si amano appassionatamente e avranno un figlio, allora il tutore di lei lo punisce evirandolo (1119) e da quel momento entrambi continueranno la loro vita in convento, da dove Eloisa scrive le sue lettere (1132-1135).

Abelardo ed Eloisa. Abelardo cerca la carne di Eloisa, ma Eloisa vuole di più e rimprovera l’amato di essersi lasciato guidare dall’ardore dei sensi e dall’attrazione fisica, non dal vero affetto, non dall’amore. Eloisa pensa ad Abelardo anche dopo la mutilazione e vuole le sue parole. Eloisa parla di vincolo delle anime e per lei questo vincolo non è illusione, ma verità evidente.

 

Ma dimmi, se sei capace, perché dopo la nostra entrata in convento, che hai deciso tu solo, tu mi hai talmente trascurato e ti sei talmente dimenticato di me da non volermi dare la gioia non dico di una tua visita, ma neppure di una tua lettera. Dimmelo, se sei capace, o te lo dirò io; e questa non è solo la mia convinzione, ma il sospetto di tutti: ti ha legato a me l’attrazione fisica, non il vero affetto; l’ardore dei sensi, non l’amore. Quando poi il desiderio si è spento, è svanito anche tutto quell’amore che dicevi di avere solo per avermi” (Abelardo, Storia delle mie disgrazie,e Lettere d’amore di Eloisa, Ed. Newton Compton, 1994 – pag. 78).

 

Siamo entrati in una nuova era, e ci siamo entrati perché l’amore, comunque venga inteso, diventa l’argomento maggiormente trattato dagli intellettuali: all’inizio come riflesso del cristiano “amore di Dio” e poi come ente a sé stante. Siamo entrati in una nuova era anche perché Eloisa ha introdotto qualcosa di più, quel qualcosa che continuerà a conformare nella nostra storia e nella nostra civiltà un abito spirituale, cioè il nostro modo di concepire l’amore.

 

Un passo importante, anche se non decisivo come quello di Eloisa, fu il De amore di Andrea Cappellano, scritto intorno al 1185, quindi mezzo secolo dopo il trattato di Ugo di San Vittore. L’elemento significativo della sua opera, che contiene anche un decalogo da seguire, consiste tutto nel concetto dell’amore cortese, che avrà grande diffusione, quell’amore che non è ancora lo stesso che concepiamo noi ma che va in quella direzione superando la contrapposizione tra cupidigia e carità. Gran parte della poesia europea del XIII secolo si ispira a questo concetto procedendo a una ulteriore differenziazione e a uno sviluppo continuo che dalla Scuola Siciliana attraverso Dante e il Dolce Stil Novo arriverà a Petrarca. Da qui in poi inizierà la globalizzazione del nuovo concetto di amore.

Troppo spesso si parla di amore platonico perpetuando di fatto la divisione già vista tra erotismo, o amore carnale, e qualcosa di spirituale che ad esso si contrappone; questa separazione continuerà a perpetuarsi facendo in modo che risulterà difficile andare in profondità e scavare nelle dinamiche dell’amore. La divisione tra il corpo e lo spirito, tra la carne e l’anima avrà difficoltà a ricomporsi e al contrario si andrà allargando: i teorici della carne svilupperanno tutte le forme possibili per il soddisfacimento del desiderio e dei sensi (da Sade a Bukowski), mentre i teorici dello spirito demonizzeranno questa esigenza forti di un’attitudine religiosa non solo europea e non solo cristiana.

Per questo motivo credo utile ritornare alle origini per cercare di comprendere come l’amore che sta germogliando vada oltre la classica opposizione tra materialismo e idealismo che si concretizza nella separazione netta tra chi privilegia la natura, e dunque il corpo, e chi invece si basa sull’idea, e quindi l’anima. Non c’è dubbio che le radici petrarchesche siano platoniche attraverso Sant’Agostino, ma questo non comporta una netta e assoluta scelta di campo. Nella formazione e sviluppo di questo nuovo concetto dell’amore il corpo è sempre presente e svolge una funzione non secondaria, strettamente legata e interconnessa con la presenza dell’anima. L’abitudine semplice della dialettica a contrapporre le tesi, dal “tertium non datur” alla dialettica ottocentesca, ha impedito di vedere le relazioni e le emergenze, le continuità e le rotture, i vincoli e le possibilità.

Questa nuova entità si manifesta in una serie di particolari che si interconnettono, si richiamano, si influenzano, si modificano facendo in modo che essa prenda una forma evoluzionistica.

Tutto comincia con la vista della persona amata che provoca piacere fisico e spirituale, perché la vista delle forme porta a vivere il sentimento dell’amore che non è solo e semplice erotismo.

In una celebre poesia Jacopo da Lentini scrive:

“Amor è un[o] desio che ven da core / per abondanza di gran piacimento; / e li occhi in prima genera[n] l’amore / e lo core li dà nutricamento” e in un’altra Guido Cavalcanti si riferisce alla propria donna con “Voi che per li occhi mi passaste ‘l core”.

Il vero e proprio salto avviene però con il Dolce Stil Novo, nel cui manifesto, ad opera di Guido Guinizzelli, sono esposte tre cose importanti.

Al cor gentile rempaira sempre amore. L’amore è condizione di nobiltà; solo chi è nobile d’animo può amare e chi ama non può che essere persona gentile.

Non dè dar om fè che gentilezza sia for di coraggio in degnità d’eré, sed a vertute non ha gentil core. La nobiltà non si ottiene per via ereditaria, ma per caratteristica dell’anima, dunque l’amore, la possibilità di amare è una virtù e una caratteristica individuale.

Tenne d’angel sembianza, non me fu fallo, s’in lei posi amanza. L’amore è virtù che avvicina a Dio, è incontro tra materia e spirito.

I tre aspetti proposti da Guinizzelli seguono un percorso. Esso parte dalla natura, cioè dal concreto e dal materiale, per terminare con le ipotetiche parole di Dio, cioè con l’astratto e lo spirituale, passando per il riconoscimento della persona, dell’individuo. Insomma l’amore diventa, sulle tracce di Eloisa, qualcosa di nuovo, nuovo perché supera la separazione tra materiale e spirituale, tra eros e filia; il superamento non è una semplice sommatoria né una coesistenza, perché l’interconnessione modifica anche i due nodi. La dimensione materiale non è più solo eros e la dimensione spirituale è qualcosa di diverso dalla filia.

Entra in gioco l’anima.

Tanto gentile e tanto onesta pare ripete e approfondisce questo percorso: Beatrice si presenta in pubblico fisicamente e Mostrasi sì piacente a chi la mira / che dà per li occhi una dolcezza al core / che intender no la può chi no la prova. L’amore è dunque qualcosa che riguarda prima di tutto il corpo, ma che a questo non si ferma perché porta chi ama su un terreno che è tutto spirituale: nelle parole di Dante ciò riguarda il divino e infatti Beatrice “ par che sia una cosa venuta / da cielo in terra a miracol mostrare”.

Ancora oggi parlando dell’amore si continua a proporlo come qualcosa di misterioso e ineffabile: siamo ancora al sonetto di Dante. E insieme al mistero, al suo inspiegabile formarsi ecco un altro topos: si mova un spirito soave pien d’amore che va dicendo all’anima: Sospira. I sospiri d’amore; siamo ancora al sonetto di Dante. Il bello è che non sono solo stereotipi o modi di dire, ma ancora oggi chi ama sospira e non sa spiegare perché si è innamorato di quella persona.

C’è poi l’episodio di Paolo e Francesca nel Canto V dell’Inferno a riproporre questa nuova visione dell’amore, che è erotica (Quando leggemmo il disiato riso / esser basciato da cotanto amante, / questi, che mai da me non fia diviso,  / la bocca mi basciò tutto tremante), ma a questo incontro dei corpi non si ferma, perché coinvolge qualcosa che va molto oltre come nelle tre celebri terzine:

 

“Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende
prese costui de la bella persona
che mi fu tolta; e ‘l modo ancor m’offende.              

Amor, ch’a nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer sì forte,
che, come vedi, ancor non m’abbandona.               

Amor condusse noi ad una morte:
Caina attende chi a vita ci spense».
Queste parole da lor ci fuor porte. “  

La sintesi è espressa alla strofa 28 e in particolare al verso 113: Quando rispuosi, cominciai: «Oh lasso, / quanti dolci pensier, quanto disio / menò costoro al doloroso passo!».

E infatti l’amore è tutto qui: un enorme desiderio e una gran quantità di dolci pensieri: corpo e anima, materia e spirito.

 

Ed eccoci a Petrarca, considerato il teorico dell’amore platonico.

In realtà Petrarca ricompone la separazione tra corpo e anima ed è una nostra miopia non riuscire a vederlo. Erano i capei d’oro a Laura sparsi: capelli, nodi, begli occhi, viso…uno spirto celeste, un vivo sole. La ricomposizione è riuscita, ma Petrarca va oltre e fa capire che quel sentimento d’amore rimane anche se il corpo di lei non è più lo stesso. E così l’amore può durare fino alla morte. Se separiamo questi momenti perdiamo il senso di quanto viene formandosi in Occidente: né amore platonico né godimento dei sensi.

C’è un sonetto che trovo di particolare interesse: “Solo e pensoso i più deserti campi”.

Petrarca mette se stesso di fronte a se stesso e ci obbliga, ognuno di noi, a fare lo stesso. L’uomo-poeta si isola dal mondo e pensa, perché queste sono le condizioni per potere procedere nella distruzione-costruzione della nostra persona: non si tratta di negare il mondo, ma di riconoscerne la presenza dentro di noi e per fare questo la persona deve avere la capacità di scavare dentro la propria anima. L’uomo-poeta sa che solo così potrà fare i conti con se stesso, con quel se stesso che è concentrato sull’amore per Laura, un amore che lo accompagna, ma che fa parte di una rete più ampia, in cui terreno e divino si scontrano e dialogano, in un campo di battaglia particolare come l’anima di Petrarca. Concentrato su Laura sa che deve “misurare i più deserti campi” e lo fa con particolare cura “a passi tardi e lenti”: istintivamente cerca luoghi solitari, cerca di sfuggire allo sguardo degli altri perché non vuole che vedano quanto quell’amore lo coinvolga e lo turbi. Ed è a questo punto, quando pensa di avere come interlocutori solo elementi inanimati (oltre ai campi deserti anche monti et piagge et fiumi et selve), che scopre che tutto questo nascondersi è vano: l’esterno può svanire o congelarsi, ma la sua interiorità è viva e gli parla e lo pungola e lo ferisce e lo turba e gli impedisce di far finta di nulla.

Nella poesia, grazie alla parola, l’uomo-poeta trova una sua nuova con-formazione, una sua nuova con-locazione e nuovi orizzonti. Eccoci così all’ultima terzina: Ma pur sì aspre vie né sì selvagge / cercar non so ch’Amor non venga sempre/ ragionando con meco, et io co·llui.”  

L’uomo-poeta non nega l’esperienza amorosa, ma la vive in profondità ed è proprio attraverso il percorso espresso dai 14 versi della poesia che non è più lo stesso uomo di prima. L’amore è come un’altra persona con la quale deve convivere, una persona con cui l’altra persona che è dentro di lui deve fare i conti. Queste due persone devono imparare non solo a convivere, ma a dialogare e discutere, “ragionando”, l’amore con l’uomo-poeta e l’uomo-poeta con l’amore.

Il Canzoniere vede la comparsa, prorompente ed esplosiva, dell’IO, dell’uomo-poeta, di Francesco Petrarca, in carne-ossa e spirito. In ogni poesia il poeta non si limita a presentare Laura come quel dolce essere di cui si è invaghito, ma mette a nudo le prime dinamiche del sentimento moderno dell’amore: “Pace non trovo e non ho da far guerra / e temo e spero…/….. / Amore né mi vuol vivo né mi trae d’impaccio” (poesia CXXXIV). “S’amor non è, che dunque è quel ch’io sento? / … / O viva morte, o dilettoso male / ch’i medesimo non so quel ch’io mi voglio / (poesia CXXXII). “Vegghio, penso, ardo, piango… / guerra è ‘l mio stato, d’ira e di duol piena / … / Così sol d’una chiara fonte viva / move ‘l dolce e l’amaro ond’io mi pasco; una man sola mi risana e punge.” (poesia CXLIV).

Il poeta ci mostra la sofferenza che l’amore comporta, ma la duplicità degli stati d’animo non è univoca e non esistono solo “Vie aspre e selvagge” o “campi deserti”. A questo proposito c’è una famosissima canzone che ci presenta una natura-sentimento espressa in termini positivi e piacevoli; è la CXXVI, “Chiare fresche e dolci acque”. Cinque stanze e 68 versi. Esemplare poesia che espande in un’altra direzione ciò che l’amore, questo nuovo modo di essere, sedimenta.

L’inizio si ha con tre aggettivi, nella forma che abbiamo già visto e che è frequente nel Canzoniere, tre aggettivi che proprio per la collocazione informano tutta la poesia ponendoci fin da subito in una prospettiva di serenità e piacere. E’ come la presentazione di qualcosa che verrà sviluppato e approfondito.

Nella prima stanza gli elementi della natura fanno da appoggio alla bellezza della donna e al piacere che ella fornisce: le acque sono chiare fresche e dolci, il ramo è gentile, l’aria è sacra e serena; per quanto riguarda Laura le membra sono belle, bello è il fianco, begli gli occhi, leggiadra la gonna, il seno angelico.

Il poeta immagina di essere sepolto in quel luogo dove vide Laura per la prima volta e immagina che Laura vi torni sospirando.

L’aspetto narrativo-immaginativo lascia il posto allo spiegarsi di ciò che il poeta prova e in questo modo ci presenta un’articolazione intensa e profonda che non si limita alla dichiarazione d’amore. Certo, alcuni modi già in uso, soprattutto nello Stilnovo, vengono qui riproposti, ad esempio nell’ultima stanza con lo stereotipo della donna-angelo, ma rimangono subordinati a tutto il resto.

La fiera è bella e mansueta, il giorno dell’incontro benedetto, la vista desiosa e lieta, bello il velo e belli i rami, la memoria dolce, e i fiori scendono da quelli a pioggia sopra il suo grembo, formando un amoroso nembo, che ne copre ora il lembo della veste ora le bionde trecce (oro forbito e perle), andando a finire in terra o sull’acqua, ma, vagando, quei fiori sembrava dicessero che lì regna l’Amore.

Dall’amore come essenza di un cuore gentile, non legato alla nobiltà di stirpe, e dalla donna paragonata ad un angelo si è passati a una figura femminile concreta, umana come concreto e umano è il poeta innamorato. L’amore non è più patrimonio di cuori nobili (Guido i’ vorrei che tu e Lapo ed io di Dante), ma è una possibilità che si estende a tutti, certo una possibilità, ma come tale viene fondata una realtà. Questa realtà avrà bisogno di tempo per diffondersi e per radicarsi fino al momento in cui in tutto il mondo non esisterà altra idea di amore. Fondare come reale una possibilità significa darle le forme e le vesti, il che vuol dire, in una relazione tra persone, darle la voce, fare in modo che questa realtà non resti mai senza parole, perché nel momento in cui tace ne corrompe l’essenza. L’essenza dell’amore non è data a priori, ma ha bisogno da un lato di schiudersi e dall’altro di inventarsi, nella spirale che è della conoscenza e della creazione: tornando indietro per procedere.

Questa condizione che chiamiamo amore era cosa nuova per gli uomini di allora, anche se a noi appare essere sempre esistita, dal momento che è ciò che proviamo.

Dal 1300 le cose non sono cambiate molto e l’amore rimane quello che ci ha illustrato Petrarca; da allora quella concezione è stata fatta propria un po’ ovunque, con la diffusione di forme che solo in apparenza possono essere considerate come novità. Tante pratiche erotiche, individuali di coppia o di gruppo, non sono un’invenzione della modernità, anche se talvolta possono mostrare un lato che non combacia con esperienze note.

Allo stesso modo il linguaggio dell’amore rivolto a esaltare l’aspetto spirituale si è ramificato, talvolta sotto forma di cloni, talvolta con immagini e termini che presentano una certa novità.

Mutano le forme e le espressioni, ma rimane la sostanza.

 

P.S. LA SECONDA PARTE DEGLI ESEMPI DELLA LETTERATURA SARA’ PUBBLICATA IL 3 APRILE