“La mente europea reca in sé, come promessa e pericolo massimi, il proprio tramonto. La forma più alta di contesa che essa ha immaginato è la lotta contro sé: la lotta dell’anima in sé…E’ questo forse il nesso più profondo tra eredità classica e cristianesimo“. [1]M. Cacciari, Geofilosofia dell’Europa,cit. p. 158.

 

Ho intitolato questo capitolo “Le maschere della volontà di potenza”. Si tratta di alcune regole che ci aiutano a vedere dove è celata la volontà di potenza e potremmo chiamarle delle vere e proprie leggi. Con un’avvertenza, però. La parola “legge” qui non è usata nel senso tradizionale del termine, cioè qualcosa di oggettivo, universale e che grazie a questo ci proietta nella previsione.

Si tratta di “leggi complesse” e una legge complessa è un insieme di comprensioni successive, ognuna delle quali esprime una verità, ma non è la Verità; insieme queste verità dis-velano, sempre più in profondità, le caratteristiche essenziali del fenomeno. Ma poiché il fenomeno è in continuo mutamento (prima di tutto su basi storiche) tali verità non saranno mai valide una volta per tutte. Non saranno mai universali. La conoscenza procede dunque secondo due direzioni principali: la prima procede grazie all’accumulo, la seconda tende verso l’essenza senza mai attingerla. E questo vale a maggior ragione per l’amore, dove troppo spesso, se non sempre, si dà per scontato ciò che è tutt’altro che certo e sicuro, anche per le caratteristiche evolutive che ci riguardano.

Spesso sentiamo dire che una persona che amiamo o amavamo non è più la stessa e non è quella che conoscevamo: l’errore risiede sostanzialmente nella convinzione, un vero e proprio pre-giudizio, che il fatto di amare una persona implichi la sua conoscenza completa, oltre al fatto che le persone cambiano. Tutto questo avviene in genere all’insaputa dei due amanti, soprattutto perché non conoscono quasi nulla di se stessi e allo stesso tempo riducono l’amore a qualcosa di superficiale.

In quasi tutti i campi della vita abbiamo imparato ad andare oltre una visione schematica, divisa tra il Bene e il Male, tra Noi e Loro, tra IO e TU; nell’amore invece siamo sempre fermi allo stesso punto. Abbiamo imparato a convivere con persone diverse, per cultura attitudini carattere; abbiamo imparato a volere andare oltre i nostri confini e a guardare altrove con curiosità e interesse; abbiamo imparato a conoscere aspetti anche lontani dalla nostra esperienza, dalla nostra storia e dal nostro contesto.

Nell’amore invece continuiamo a credere che basta dire “ti amo” e magari ripeterlo più volte e poi aggiungere la locuzione “per sempre” per “vivere felici e contenti”. Non solo, ma quando capita che una relazione finisca, per qualsiasi motivo, ricominciamo da capo con le stesse parole e la stessa convinzione, senza capire cosa si nasconda effettivamente dietro quel fallimento. Anche la riflessione frequente per cui continuiamo a imbatterci in persone che sono sempre la stessa tipologia di persona nasconde la difficoltà che abbiamo a comprendere che l’amore mette a nudo la nostra persona e che dunque prima di avere a che fare con l’altro dobbiamo avere a che fare con noi stessi.

Queste leggi non ci permettono di prevedere, deterministicamente, il futuro, ma ci aiutano a leggere ciò che succede, a com-prendere cose-eventi-persone molto meglio, ci coinvolgono direttamente e ci rendono protagonisti di responsabilità: si tratta di leggi parziali che studiano la volontà di potenza dal punto di vista del suo mascheramento.

Verità non è perciò qualcosa che esista e che sia da trovare, da scoprire, ma qualcosa da creare e che dà il nome a un processo, a una volontà di dominio che di per sé non ha mai fine: introdurre la verità, come un processo in infinitum, un determinare attivo, E’ una parola per la volontà di potenza” (F. Nietzsche, Frammenti postumi 1887-1888, 9 [91]).

La volontà è una maschera che ci fa credere che siamo coscienti di ciò che vogliamo. In realtà dietro questa maschera opera qualcosa di meno noto e meno cosciente, la volontà di potenza. La volontà di potenza in generale è volontà di potere (verbo) cioè di creare possibilità e tra queste forme la volontà di dominio è solo una, neppur grande, componente. Quando ci troviamo a pensare o fare cose che non consideriamo nostre, le vediamo come eccezioni, e così ci giustifichiamo: l’eccezione che conferma la regola. La coerenza era un principio assoluto e universale fino a pochi decenni fa e lo rimane ancora nonostante la realtà, nostra ed esterna, si sia trasformata in maggiore complessità. La coerenza presuppone un IO statico e immutabile e i cambiamenti che facciamo o che ci fanno fare non devono intaccare tale coerenza, per cui non li consideriamo come un nuovo IO, un IO cambiato da cui ripartire, ma come una forza negativa attribuibile agli altri: è sempre colpa degli altri, sfruttatori, stronzi, violenti, traditori, ipocriti. E così (quasi) nessuno fa i conti con se stesso. L’immagine deve essere salvaguardata: è la mia immagine, alla quale sono affezionato e per questo devo continuare a salvarla, indipendentemente da tutto. Si inventano storie e storielle per evitare di fare i conti con se stessi: si creano categorie fin dalla più tenera infanzia e ad esse ci si attiene.

La volontà di potenza del bambino è nascosta sotto la categoria dell’agitazione o dell’esuberanza, quella dell’amante sotto la categoria del tradimento o della passione (è successo, ci siamo innamorati, con l’amore nulla si può fare, è lui che decide), la categoria della madre è la possessività, il blues o la pazzia.

Negando l’esistenza di una volontà che non siamo in grado di gestire ne diventiamo semplici burattini che hanno perso il controllo, prima su alcune cose poi su tutto. Da qui nasce l’esaltazione dell’altro, da benedire o a cui dare la colpa (le banche, le multinazionali, i negri, il marito, anzi il maschio, il professore, la polizia, l’ex amico ecc.): così va il mondo. La cosa curiosa è che si fa sempre più fatica a trovare spiegazioni e giustificazioni ai nostri comportamenti, e questo è naturale perché le relazioni e le occasioni si sono moltiplicate esponenzialmente, mentre le risposte sono semplici e immediate e così di esse si perde conoscenza al quesito successivo: a questo punto si riparte da capo come se il nostro passato non fosse esistito.

A questo turbinoso procedere delle cose si cerca di ovviare con iniziative che però hanno il fiato corto, come è successo negli ultimi anni con il riferimento al “Carpe diem”, che già risulta scomparso dalla scena pubblica. Godere l’attimo come se il passato non esistesse è stata un’illusione come nei decenni precedenti lo sono state le numerose forme di aspirazione ideale, dal Dio cristiano al Sol dell’Avvenir. Il trionfo del futuro è andato svanendo, mentre il supposto trionfo del presente si è prodotto in un numero crescente di episodi e contingenze.

Gli esempi sono numerosi e non c’erano ai tempi dei miei genitori. In fondo come la presenza di un numero maggiore di auto richiede un numero maggiore di officine specializzate, così la presenza di sempre crescenti contraddizioni richiede tanti “guaritori” o “curatori” dell’anima, psicanalisti, psicologi, imbonitori televisivi, rubriche delle riviste (femminili), gruppi di ascolto, club religiosi e simili.

E’ ciò che succede.

I vari paragrafi di questo capitolo “LE MASCHERE DELLA VOLONTA’ DI POTENZA” si riferiscono alle relazioni interpersonali che negli ultimi anni si sono intensificate enormemente e che sono alla base della vita comunitaria: tra amici, tra persone che dicono di amarsi, tra parenti, tra genitori e figli e, in parte, anche nelle relazioni professionali. Alla base c’è la convinzione che si debba essere “buoni, sinceri, aperti, generosi”, il che determina al contrario “ipocrisia, falsità, chiusura”, poiché in tal modo si nega la nostra volontà di potenza: non possiamo essere “buoni” e soprattutto non possiamo essere “buoni per semplice scelta”.

Poiché il tema di questo lavoro riguarda l’amore, le varie letture che qui di seguito intendo proporre, pur riferendosi alle varie forme di relazioni interpersonali, hanno come sguardo privilegiato la relazione personale per eccellenza: la relazione amorosa.

Ognuno di noi ha vissuto nel rapporto d’amore quella situazione di disagio in cui ci troviamo in una discussione seria; si parte con il desiderio di chiarimento e si finisce nella massima delusione: o rinunciamo a proseguire e ci sottomettiamo oppure si va vicini alla rottura. Se stiamo attenti all’evolvere della discussione ci accorgiamo che essa procede attraverso affermazioni che i due soggetti coinvolti ritengono vere: basta questa convinzione per pretendere il riconoscimento di quanto da essi sostenuto. Ciò è comprensibile, perché anche quando sono in gioco aspetti di carattere tecnico in realtà sono due persone che vengono messe in discussione: la volontà di potenza impedisce di lasciare il campo sconfitti o con la sensazione di essere stati sconfitti. Il perché è facile da capire: nessun esercito ama la sconfitta e l’IO che discute è uno degli eserciti più complessi e riforniti a cui si possa pensare.

La discussione nasce sempre (o quasi) con la frase “parliamo?” e cioè come ricerca di chiarezza, come dialogo, come desiderio di incontro. In realtà già qui è presente la maschera, perché vogliamo vincere e quello che chiamiamo “dialogo” in realtà è un “duello”. Non dobbiamo nasconderci dietro le parole: lo scambio che avviene durante la discussione è scambio sia di parole sia di fendenti.

La discussione tra due persone innamorate è esemplare dei rapporti tra le persone, perché essa mostra tutte le possibilità che si presentano davanti a noi a tutti i livelli della scala sociale (personali, amicali, parentali, lavorativi, politici). Se si tratta di scegliere un ristorante o un film da vedere allora le cose possono anche riuscire pacifiche. Il punto è quando uno dei due o tutti e due sentono che dietro l’evento in discussione (che non deve necessariamente essere un tradimento) c’è il riconoscimento della propria persona. In questo caso anche un quadro da appendere o la disposizione dei calzini nel cassetto può risultare decisivo nella sua drammaticità.

Per proseguire ogni relazione ha bisogno di crescita e sviluppo e questo avviene solo attraverso l’incontro, ma l’incontro non è mai concordanza immediata proprio per la profonda diversità tra due persone, per quanto vicine si sentano. L’in-contro non è neanche necessariamente uno s-contro, ma sicuramente è l’occupazione di uno spazio che appartiene all’altro: si comincia con lo sfiorarsi e si può arrivare anche all’esclusione. E’ per questo motivo che mi concentro sulla discussione come luogo di confronto perché l’accordo immediato è raro e casuale. Un biologo importante, Francisco Varela, ha messo in evidenza come il cambiamento di una persona possa avvenire solo in seguito a dei breakdown, ferite che possono essere piccole o grandi, ma senza le quali la nostra persona non cresce. “I nuovi modi di comportarsi e le transizioni o punteggiature tra essi corrispondono a mini-breakdown dei quali facciamo costantemente esperienza. Qualche volta i breakdown diventano macroscopici, come nel caso di uno shock improvviso o di un pericolo che si manifesta inaspettatamente” (F. Varela: Know-how per l’etica, Laterza- pg.12).

Molti pensano che l’esaltazione amorosa abbia una durata limitata, anche lunga; molti pensano che ciò che tiene insieme due persone sul lungo periodo è la presenza di figli; molti pensano che sia giusto che strade diverse vengano percorse dagli innamorati perché importante è ritrovarsi; molti pensano che sia necessario trovare un compromesso nella vita in comune; molti pensano che sia giusto rivivere quell’esaltazione amorosa a qualsiasi costo (al cuor non si comanda).

Nessuno si chiede come sia possibile vivere per anni o addirittura per decenni mantenendo l’entusiasmo iniziali, tenendo conto naturalmente del fatto che la vecchiaia rappresenta un indebolimento delle funzioni del corpo, comprese quelle sessuali.

Il quadro colto nella sua dinamica attraverso il tempo è abbastanza semplice e riconducibile a non numerose situazioni: la famiglia, gli amici, gli hobby, il lavoro, il tradimento (in termine di ripetizione, varietà o comunanza), il silenzio. Queste situazioni possono risultare esclusive o intrecciarsi secondo le diverse possibilità. Il peso del tempo pesa molto di più di quanto crediamo e si finisce, nel migliore dei casi, con l’accontentarsi, conseguenza (vittima o meno) degli eventi.

Ci dimentichiamo che il centro del mondo è la nostra persona, non nel senso egoistico comune, ma nel rispetto che dobbiamo a noi stessi nel senso di “amor proprio”, come lo definisce e sviluppa, tra gli altri, anche il filosofo spagnolo F. Savater. Ce ne dimentichiamo a tal punto da annullare momenti importanti e lunghi della nostra vita: l’amore viene ridotto a infatuazione, certe esperienze sono etichettate con la mancanza di maturità, la nostra riflessione si esaurisce nella giustificazione del momento, giustificazione che verrà rinnegata nel momento-fase seguente.

Ho già spiegato che oggi l’amore è l’evento principale in cui si trova, volente o nolente, a impegnarsi la persona; non c’è orgasmo, compromesso, tradimento, carriera, amore filiale che possa sostituirlo. Fare i conti con l’amore vuol dire fare i conti con il nostro IO e dunque con la nostra volontà di potenza.

Non si tratta di inseguire i testi sacri (laici o religiosi), ma cominciare a guardare dentro di noi, senza paura di ciò che troveremo, perché è da lì che dobbiamo ripartire per una costruzione che abbia come riferimento l’amor proprio e il rispetto per noi stessi.

Riuscire a vedere le maschere con cui la volontà di potenza si muove è solo un primo passo, nulla di definitivo, ma qualcosa senza la quale nessuna costruzione è possibile.

 

 

  • LA LEGGE DELLO SPECCHIO

 

La prima è la “Legge dello Specchio”. Come ho già chiarito sto parlando di comportamenti attraverso i quali si manifesta la Volontà di potenza e che vivono indipendentemente dalla nostra coscienza come qualcosa di naturale-istintivo-automatico.

Cosa c’entra lo specchio? La persona spesso esprime se stesso e attribuisce a un altro significati che invece sono propri di lui; è come se si guardasse allo specchio e recitasse ciò che vede attribuendolo invece a chi ha davanti. Poiché le relazioni tra persone sono confronto-scontro tra volontà di potenza diverse, questo atteggiamento comporta che la persona “più debole” si metta in discussione di fronte all’altra, la quale invece rafforza la potenza della propria volontà allontanandosi sempre di più dalla possibilità di mettersi in discussione e fare i conti con se stessa.

Nella discussione le due persone sono convinte della verità della loro tesi ed è interessante sapere che, se talvolta possono mentire, è più facile che ritengano veramente veri, discorsi ed eventi, che vengono riportati. Lo specchio è un fenomeno inconscio a cui ci siamo abituati per ribaltare situazioni di svantaggio: è così che si comprende ancora meglio che non sono in gioco né la ragione né la buona volontà né un’attitudine positiva, ma due volontà di potenza.

Suggestivo a questo proposito è il riferimento alla scoperta e successiva conferma da parte delle neuroscienze (Rizzolatti, Sinigaglia e altri) dell’esistenza nell’uomo di “neuroni specchio” che hanno un’importanza fondamentale nella comprensione delle azioni di altre persone e nell’apprendimento attraverso imitazione, oltre che per quanto riguarda il linguaggio. Essi si attivano in modo involontario in molte situazioni soprattutto quando un individuo osserva la sua stessa azione compiuta anche da un qualsiasi altro soggetto.

 

Al di là dei riferimenti neuroscientifici la legge aiuta a comprendere certi meccanismi perché si manifesta senza che l’autore la scelga di proposito: essa serve a confondere la discussione e a imporre un predominio.

Quante volte qualcuno dice di “non urlare” dopo aver urlato? Eppure la voce alta non è l’oggetto della discussione, ma serve a intimorire l’altro.

Quante volte viene detto di “non rispettare l’opinione altrui” o “di non aprirsi” senza aver detto la propria opinione o avendola nascosta?

Quante volte viene detto “non mi hai amato” senza però aver mai mostrato interesse per la tua vita? E così via.

Perché lo specchio si presenta come una maschera? Perché nasconde le reali intenzioni, la reale volontà che sta dietro certe affermazioni, nonostante dal punto di vista della coscienza tutto sembra naturale e risulta difficile procedere a ritroso, fermare il tempo e ricostruire gli attimi precedenti. Se ho detto “smetti di urlare” sono sicuro che tu abbia urlato e magari è anche vero, ma il nostro contributo viene oscurato da quell’evidenza.

La coscienza, ancora una volta, è lì a giustificare il nostro comportamento, non a com-prenderlo e de-cifrarlo.

 

  • LA LEGGE DELLE FOTOGRAFIE

 

Questa seconda legge è sicuramente più comprensibile della prima, ma occorre immettersi in una regione che purtroppo non molti sono disposti a frequentare: bisogna andare oltre un approccio semplice e basato sul rapporto diretto causa-effetto.

La vita di ogni persona è un insieme di fotogrammi che permettono di vedere parole, gesti, azioni, relazioni; talvolta in questi fotogrammi entrano altre persone, che sono più o meno importanti per noi.

Il fotogramma comune è unico, ma può essere ricostruito da punti di vista differenti: ci sono ormai molti studi che confermano questa possibilità. La seconda legge mette in evidenza come spesso le persone isolino un fotogramma, ne facciano una fotografia e la usino per colpire un’altra persona. E’ un sistema semplice, facile ed economico: non si preoccupa né dei fotogrammi precedenti né di quelli successivi; soprattutto non si preoccupa di ricostruire i fotogrammi in un video che abbia un senso e dia un senso alla propria vita e alla relazione in questione. Poiché nessuno è perfetto è ovvio che esistano fotogrammi in cui il nostro comportamento (frase o azione) sia facilmente criticabile, il punto è che procedendo in questo modo si creano solo vittime o carnefici, o una vittima e un carnefice: la relazione non va avanti perché non vengono poste le basi per un superamento.

Ci troviamo di frequente in situazioni in cui a una fotografia si risponde con una precedente fotografia che necessariamente rimanda a una fotografia precedente e così via di effetto in causa, cercando di risalire alla causa prima. Sappiamo bene che in questo modo il confronto difficilmente trasformerà la relazione in qualcosa di più solido e anche la voglia di dimenticare si manifesterà sul momento, per sfinimento o paura, pronta a resuscitare quando se ne presenterà l’occasione. La polvere accumulata sotto il tappeto non si dissolve da sé: si chiama rimozione.

Non c’è di peggio di uno scambio di accuse basato su singole fotografie, a meno che non si tratti di fotografie simili e ripetute nel tempo, ma in questo caso esse dovrebbero essere l’occasione per un video che dia un senso alla propria persona e alla relazione. Voglio concludere dicendo che il video delle due persone può non combaciare e ognuno può fare la ricostruzione che più gli si addice, ma almeno, in questo caso, non ci sono equivoci né malintesi né sottintesi: ognuno può così andare per la propria strada.

La legge delle fotografie potrebbe essere chiamata anche la legge del fiammifero. Ricorda infatti, in un’angolatura leggermente differente, ciò che succede quando delle persone si passano il fiammifero acceso fino al punto in cui uno si brucia le dita. Capita che tra amori, amici, parenti, tra persone cioè che hanno un legame (da 0,1 a quasi infinito), che ci siano problemi e che non tutto sempre vada liscio. Tante cose possono intorbidire o increspare una relazione, e comunque le relazioni continuano anche per decenni, fino a che una delle due parti dice che è il momento di dire basta facendo in modo che l’altra parte si bruci le dita: tanti episodi potevano essere l’innesco della bomba, ma solo uno diventa il casus belli. Chi attribuisce a un episodio il carattere decisivo e definitivo è la parte con maggiore volontà di potenza: l’altra parte avrebbe potuto essere lei a decidere, ma non lo ha fatto per svariati motivi, mostrandosi debole, il che, come ricorda Nietzsche (La volontà di potenza, fram. 48) è sempre debolezza di volontà di potenza. e così ha perso. Si è bruciata le dita.

 

  • LA LEGGE DEL PALO E DELLA FRASCA (PALINFRASCA)

 

Il palinfrasca è forse il sistema più comune con cui si creano relazioni attive, soprattutto oggi che ogni individuo pretende un riconoscimento. Un tempo al bar o alla Casa del Popolo ci si fronteggiava: democristiani e comunisti si rimproveravano a vicenda e lo stesso facevano viola e bianconeri. Non c’era dialogo perché era la Fede (il lanternone di Pirandello) a parlare. Oggi su FB e tra amori, amici o conoscenti si discute seriamente, perché ognuno non deve difendere il partito o la squadra, ma deve imporre se stesso, il “suo” pensiero, le “sue” idee (i lanternini). Così non essendo in gioco l’idea ma la persona, si ricorre a molti stratagemmi che si sono diffusi lisci come l’olio e uno dei più frequenti è “il palinfrasca”.

Quando si comincia una discussione la maggior parte delle persone non dialoga, perché l’obbiettivo non è acquisire maggiori elementi ma affermare la propria persona, e così succede che cambi argomento, passando di palo in frasca e se proprio non sa da che parte girarsi conclude con il celebre “Questo lo dici tu”. A questo punto si può passare solo alle armi.

Si tratta di un fenomeno che vediamo regolarmente.

Sto parlando di un comune modo di sentire e di un comune modo di agire. Della gente. Del popolo. Delle persone normali. Un modo di sentire e di agire che abbiamo sedimentato nel corso dei secoli facendolo nostro in maniera naturale; per certi versi, ad esempio nel dibattito politico, pur deplorevole, ha sostituito il vecchio modo (ancora presente) di vincere attraverso le armi.

In Parlamento contare le teste ha sostituito il tagliare le teste, ma nei rapporti interpersonali non esiste nessuna regola a cui attenersi e da far rispettare; è così che quella volontà di potenza collettiva, a cui la Storia ci ha abituati, in una società aperta si manifesta anche in tutte le relazioni tra persone, e ciò avviene senza freni in un movimento libero e prolungato.

Dialogare è invece un’altra cosa.

In passato il dialogo, a partire soprattutto da Socrate, era lo strumento principale per la correzione di errori e il raggiungimento di un punto di vista più sicuro e meno provvisorio. E’ importante il dià (attraverso) che indica la comunicazione e soprattutto il logos che indica il discorso e il ragionamento: si dialoga all’interno di una comunità, parlando di situazioni specifiche per arrivare a riflessioni di carattere più generale. Dal mondo greco alla contemporaneità si è trasformato il concetto di dialogo, così che oggi esso significa qualsiasi forma di discussione non aggressiva, dimenticando che il dialogo è possibile solo all’interno di una comunità che riconosca valori, riferimenti o orizzonti comuni. In un’epoca che ha rimosso conflitto e volontà di potenza la parola dialogo è diventata la panacea di ogni contraddizione: dialogo tra Stati, tra forze politiche, tra religioni, tra individui. E’ diventata parola astratta, vuota, inefficace. Soprattutto in una relazione amorosa dove la vita degli individui è quotidiana e a stretto contatto, e dove la comunità è solo fisica perché i valori, i riferimenti o gli orizzonti sono basati solo su un’espressione altrettanto astratta e vuota: ti amo.

Un dialogo dotato di senso richiede che vi sia qualcosa di più di una semplice dichiarazione, perché l’IO che pronuncia IOTIAMO è un coagulo molto più vasto e denso dentro il quale IOTIAMO è solo una piccolissima e modesta particella. La volontà di potenza prosegue indisturbata e anche la fede nel dialogo, nelle idee, nel pensiero, nel ragionamento, utile in un primo momento, poi risulta non più sufficiente. Ed è così che, ad un certo punto, pur di non cedere di un passo, cosa che sarebbe vista come un affronto o un harakiri, si preferisce evitare di rispondere e si cambia argomento. Oggi le persone sanno molte cose, separate e sparpagliate, e tra queste ce n’è sempre una che puoi usare contro l’avversario o il compagno: è per questo che non c’è dialogo. L’aumento di conoscenza ha comportato una diminuzione di responsabilità, perché è questo il senso del “palinfrasca”: cambiare argomento, introdurre aspetti non pertinenti può essere una forma di difesa, una pausa dentro una realtà complessa che tutti trattano come se fosse un mondo semplice e lineare. Comprensibile, se occasionale; ma quando si fa sistema esso introduce solo elementi distruttivi sia nel rapporto sia nelle singole persone coinvolte.

 

  • LA LEGGE DEL SILENZIO

 

« …Il potere del silenzio è sempre valutato assai. Esso infatti significa che chi tace può resistere a tutte le innumerevoli occasioni esterne di parlare. Non si dà risposta a nulla, come se non si fosse stati interrogati. Non si lascia capire se si gradisce l’una o l’altra cosa. Si è muti senza esserlo davvero. E tuttavia si ascolta.

Il silenzio presuppone una precisa conoscenza di ciò che si tace. Poiché non è praticamente possibile tacere sempre, si opera una scelta fra ciò che si può dire e ciò che si tace. Ciò che è taciuto è ciò che si conosce meglio, con maggiore precisione, e che si reputa più prezioso….

Il tacere contrasta la metamorfosi… Si tace soprattutto là dove non ci si vuole trasformare. Quando si ammutolisce vengono meno tutte le occasioni di metamorfosi. Nell’eloquio tutto incomincia a scorrere fra gli uomini, nel silenzio tutto si irrigidisce.

Chi tace gode di un vantaggio: le sue parole sono maggiormente attese, si attribuisce ad esse maggior peso. Rare e isolate, esse assomigliano a comandi… »

  1. Canetti : Massa e potere, 1960 (cap. Elementi di potere : Il segreto).

La legge del silenzio è la legge del palinfrasca portata alle sue estreme conclusioni. Ho un amico che soffre di questo ostracismo verbale e mi cita spesso una sua conoscente-amica che da più di un anno gli dice ripetutamente che lo avrebbe fatto partecipe delle sue riflessioni; lui ha insistito più di una volta non solo perché ci teneva ad avere l’opinione di una persona che stimava, ma anche perché ritiene che il dialogo sia fondamentale, per la crescita personale e civile.

Silenzio.

I modi per evitare il dialogo, così comuni su FB, vanno dal palinfrasca al silenzio, perché in entrambi i casi ci si sottrae alla responsabilità e si riconducono le parole a un soffio d’aria, prive di valore. Non esiste solo il fascista che combatte la libertà di parola: egli oggi è più una caricatura che altro e, anzi, la libertà di parola non è mai stata così libera come oggi. E poiché la libertà di parola oggi va oltre giornalisti e scrittori e impegna direttamente quasi tutta la popolazione, proprio per questo le parole andrebbero usate con maggiore cura. Troppo spesso invece si parla tanto per parlare o si tace.

Credo che ognuno abbia diritto al silenzio, ma non in certi rapporti, amorosi-amicali soprattutto, e in ogni caso non si può dire “ti parlerò” e non parlare mai: il silenzio si erge sovrano quando, risultando impossibile la chiacchiera, si vuole evitare di fare i conti con noi stessi. In questi casi le parole nostre rimbomberebbero dentro di noi e difficilmente potremmo evitarne le ripercussioni. Così invece vince il minimo sforzo. Posso chiacchierare di sport e di politica, di viaggi e di cinema, di Gesù e di filosofia, tanto queste chiacchiere non intaccheranno mai la mia persona. Se invece devo cimentarmi su qualcosa di più de-in-cisivo, dato dalla persona o dal soggetto, allora spesso il silenzio è la via preferibile e preferita, ci evita la fatica del dialogo e la fatica di nascondere sotto il tappeto la polvere delle parole. Potrei metterla in battuta, ma non mi si addice. Preferisco ricordare che rifiutare il silenzio è assumersi una responsabilità soprattutto rispetto a se stessi. La parola è sempre diversa mentre il silenzio è sempre lo stesso e non è difficile procedere a una sua ripetizione, ma, per quanto la ripetizione permetta una protezione, la ripetizione non esiste, come ha dimostrato Kierkegaard nell’omonimo libro.

Occorre attrezzarsi. E cominciare a parlare.

 

  • LA LEGGE DELLA VITTIMA

 

Nel secolo scorso esistevano vittime e carnefici ben identificati: lo erano gli ebrei, i contadini russi, ucraini e cinesi, all’ingrosso; mentre al dettaglio si è cominciato con i gay, le mogli, le figlie, i bambini e gli anziani, gli emigranti italiani-spagnoli-portoghesi, gli animali. Oggi si è fatto un passo avanti, rendendo quella identificazione molto nebulosa e superando gli steccati precedenti: dal momento che “uno vale uno” allora si è creato il metodo-Ikea, “la vittima fai da te”. Il povero Manzoni si ostinava nelle Tragedie a sostenere che o si è vittime o si è carnefici. Eravamo all’inizio del 1800 e il “pensiero semplice” era comprensibile.

Oggi se non ti dichiari vittima non hai diritto di parola: una donna o un/a omosessuale che non siano stati molestati non contano nulla, un extracomunitario che vive e lavora regolarmente in Italia è un fantasma, una squadra o un atleta che non vincono sono vittime e di volta in volta, essendo individualizzata la vittima, viene individualizzato anche il carnefice. Non è più il nazismo, o il comunismo o il Ku-Klux-Klan o il capitalismo, ma singole persone. Ecco il gioco di prestigio: se il carnefice fosse presentato in quanto individuo allora non ci sarebbe nulla di male, saremmo in piena democrazia moderna, dove la responsabilità è individuale. Il mago collettivo, moralista e vittimista, però trasforma l’individuo in collettivo: il maschio, il bianco, il prete, il politico, l’etero, il regista, il produttore, il professore, il marito, il medico, il poliziotto, il dirigente aziendale.

Non importa più individuare il reato, ma la condanna è apriori e se la persona è nota allora la condanna si fa sui mezzi d’informazione.

Il punto è che c’è bisogno di un colpevole per giustificare la non capacità e la non realizzazione del singolo. Né gli eventi della vita sulla Terra: così anche un terremoto richiede la presenza di colpevoli singoli.

Che le persone siano convinte non vuol dire nulla: si sono convinte perché passare per vittima è una forma di potere, volontà di potenza materiale per l’appunto. In un’epoca di vittime all’ingrosso il vittimismo era una modesta deviazione caratteriale, oggi è diventato uno status symbol talmente diffuso che se non ci dichiariamo “vittime” abbiamo qualcosa da nascondere e dunque siamo dei carnefici, reali o potenziali.

Come scrisse negli anni ’70 la protofemminista Young: Victimhood is powerful (Il porsi come vittima è fonte di potere). E come descrive in modo molto più ampio R. Hughes ne “La cultura del piagnisteo” (Adelphi,1994).

Nei rapporti interpersonali e soprattutto nelle relazioni d’amore l’atteggiarsi a vittima è una strategia potente per mettere a disagio e sulla difensiva chi ci sta di fronte e questo non avviene solo in occasione del classico tradimento. La relazione d’amore ha trasformato un rapporto basato sul potere riconosciuto di una persona, in genere il maschio, in qualcosa di molto fluido: nel momento in cui di fatto le due persone coinvolte si trovano sullo stesso piano, almeno nella reciproca convinzione, la tradizionale volontà di potenza deve costruirsi una maschera per continuare ad agire. Prima il potere si esprimeva in forme riconosciute sia dal maschio sia dalla femmina e dalle rispettive famiglie: la forza fisica, l’attività sessuale, il mantenimento economico, la (pretesa) superiorità intellettuale, il giudizio della società.

Oggi la donna ha mostrato che quelle forme non sono più attuali: molte donne sono più forti fisicamente, la donna si è liberata sessualmente, il lavoro è alla portata delle donne che non devono più restare relegate in casa, molti studi sull’intelligenza mostrano la grande qualità femminile, la società non accetta più i vecchi stereotipi maschili.

E così nella relazione d’amore si trovano a (voler) convivere due individui, ognuno dei quali pretende un proprio riconoscimento. E la volontà di potenza costruisce la maschera.

Un tempo l’individuo doveva riconoscersi in una dimensione più ampia: il PCI per abbattere il capitalismo o la DC per garantire la libertà. Il resto era sopravvivenza: lavoro e famiglia e qualche svago.

Oggi tutto parte dall’individuo e torna all’individuo.

Dietro il trionfo delle vittime e il lamento generalizzato c’è la fuga dalla responsabilità, principio cardine della società moderna democratica. Non credo che esistano pericoli per il quadro di riferimento, tipo l’abolizione del Parlamento. Per questo diventa essenziale fare i conti con noi stessi e assumersi ogni responsabilità, sapendo che le maschere della volontà di potenza appartengono al genere umano, ma sapendo anche che ogni maschera tolta renderà più ricca la nostra esistenza.

 

  • LA LEGGE DELLA COSTRUZIONE

 

L’ultima legge riguarda la composizione dei fenomeni sottostanti alle 5 leggi precedenti. Dove ci portano quei flussi? Come la fisica ha dimostrato, esistono leggi che sono vere ma non assolutamente vere: valgono se prendiamo in considerazione fenomeni semplici. La fisica nel secolo scorso ha portato alla luce però altri aspetti che sono stati ampiamente dimostrati come veri e anche Einstein, se fosse sopravvissuto, si sarebbe convinto che non c’era nessuna variabile nascosta e che il nuovo approccio quantistico era valido. Anche nel nostro caso la verità delle cinque leggi sin qui mostrate non è in discussione, ma esse fanno intravedere qualcosa che emerge da ognuna di queste, pro-ponendo una nuova legge.

Se ci fossimo calati ad esempio ai tempi delle Guerre Puniche (o dell’espansione persiana) avremmo dovuto pensare solo in termini di conquista, vendette, uccisioni et similia. Invece dallo stesso grembo romano è nato un sistema di leggi, si è formato e consolidato il diritto, ha preso forma lo stato moderno e si è espanso lo Stato di Diritto.

La legge della costruzione non è una super-legge che ingloba le altre, ma è una legge già visibile nelle altre con le quali convive e allo stesso tempo con le quali combatte: nessuna vincerà e continueranno a con-frontarsi e ad-frontarsi. Vediamola.

La società di oggi vede persone sempre più in contatto, interconnesse, per cui certi comportamenti si sono diffusi e sono più visibili. Non sono nuovi nel loro manifestarsi.

Così ci troviamo davanti a persone che esprimono il loro potere limitandosi a ingigantire episodi oppure tacendo o ancora saltando di palo in frasca o facendosi passare per vittime e spesso tradendosi attribuendo ad altri ciò che invece appartiene a loro. Meccanismi consolidati probabilmente anche a livello genetico. E oltre: mi vengono in mente quegli animali che si fingono morti per far allontanare il predatore (Legge n. 5, della vittima).

Questi comportamenti sono autoreferenziali, cioè hanno valore solo dal punto di vista di chi li pratica e hanno durata limitata ed episodica, ma soprattutto sono distruttivi, perché la vittoria di uno significa la sconfitta dell’altro. Nella “teoria dei giochi” si chiama risultato a somma zero. Insomma l’insieme non cresce. Come dimostrato dalla scienza della complessità, ad esempio con la teoria del prigioniero, la collaborazione con l’autorità è un vantaggio non solo per la società, ma per i singoli colpevoli. A maggior ragione per le consuete relazioni tra individui.

Si continuerà secondo le 5 leggi, che non sono naturali, ma che hanno evitato la disgregazione di ogni tipo di società. La scoperta del fuoco non ha impedito alle persone di mangiare cibi crudi o di non riscaldarsi d’estate: ogni parola ed ogni elemento attraversano molti gradi prima di arrivare al loro opposto, e tutti coesistono.

Legge n.1: lo specchio è una maschera diffusa che serve a mantenere distanze e a stabilire rapporti di potere; esso però può anche aiutarci a una conoscenza migliore di noi stessi. Non si tratta di abolirla, ma di trasformarla.

Legge n.2: soffermarsi su singoli episodi non è negativo di per sé, anzi, è la base di una conoscenza più approfondita del nostro esistere. Partire dai singoli fotogrammi è importante purché non ci impedisca di avere una visione d’insieme, potendo così interconnetterli e ricostruire il senso della nostra esistenza.

Legge n.3: possiamo evitare di rispondere a tono ai quesiti che ci vengono posti e tirare in ballo cose che non c’entrano: può succedere e non c’è nulla di sconveniente, se ci sentiamo incalzare e abbiamo bisogno di una pausa, purché la cosa sia provvisoria e non rinunciamo dentro di noi ad approfondire il senso sia della domanda altrui sia della nostra risposta.

Legge n.4: lo stesso discorso vale per la scelta del silenzio.

Legge n.5: fare la vittima, anche se in modo strumentale, ha il difetto che, se nel momento ci fornisce potere, nel lungo periodo porta a sottostimare noi stessi.  Evitare il vittimismo ci aiuta ad essere più forti strutturalmente e ci porta ad essere protagonisti.

Tutti i comportamenti che esprimono le 5 leggi possono farci star bene solo in modo parziale e per tempi limitati. La legge n.6 sposta l’attenzione su noi stessi e ci offre la possibilità di essere a nostro agio nei nostri panni, quali che siano il colore la forma le dimensioni della nostra persona. La storia e la biologia hanno mostrato che la società umana si è mossa in termini evolutivi ed è ciò che dobbiamo chiedere a noi stessi, come individui: l’evoluzione dell’individuo e l’evoluzione della società sono strettamente connessi, ma il ruolo crescente e la aumentata responsabilità dell’individuo fanno sì che anche nei processi evolutivi sempre più grande sia lo spazio di manovra riservato a ogni individuo. A ognuno di noi. Dove maggiormente possiamo operare, come nell’amore. Le maschere continueranno a coprire i nostri volti, ma per ogni maschera tolta più netto sarà il volto che parlerà di noi.