R. HUGHES: LA CULTURA DEL PIAGNISTEO. La saga del politicamente corretto. Adelphi, 1994, Euro 10,45 |
Siamo all’inizio degli anni ’90 del secolo scorso, il Muro di Berlino e il Comunismo sono caduti da poco e l’Occidente sposta l’attenzione dai fenomeni sociali a quelli che riguardano l’individuo. E a questo livello, mancando il nemico esterno, lo si ricerca dentro il mondo occidentale. Sarà l’inizio di una deriva che, come vedremo, continua a fare le sue vittime anche nel nuovo millennio aprendosi al relativismo culturale e più dannosamente alla “Cancel culture”, che condanna in modo anacronistico e moralistico la quasi totalità della cultura occidentale.
Uno dei primi saggi di ampio spessore che affrontano al suo sorgere il fenomeno è questo di Hughes , che già allora mostra i rischi di certi comportamenti e illustra i guai a cui, insistendo su quella strada, andiamo incontro. Hughes fotografa una realtà e oggi possiamo scoprire quanto avesse ragione nell’individuare i percorsi negativi che si prospettavano da quell’infausta infanzia.
Il titolo inglese parla di “Cultura del lamento”, termine più ampio ed esaustivo rispetto a “piagnisteo”, troppo limitato e prosastico, e infatti il libro pone all’attenzione del pubblico la pretesa, allora solo al suo inizio, di fare del lamento e del ruolo di vittima una componente decisiva dell’uomo del post-comunismo. I movimenti anti-sistema dei decenni precedenti, pur riconoscendo in alcuni soggetti il carattere di vittima, lottavano, anche se spesso in modo ingenuo, perché la vittima scomparisse sostituita da una figura libera e responsabile delle proprie azioni.
Ora invece la vittima diventa il soggetto principale che merita compassione e dunque si aspetta solo un risarcimento di quanto subito in passato: più forte si alza la voce della vittima e più alto diventa il compenso, anzi la ricompensa. Niente di più: la lotta non spinge verso una maggiore responsabilità, ma anzi verso una maggiore dipendenza. Naturalmente di questa situazione traggono vantaggio solo gruppi ristretti, mentre ai più toccheranno, forse, solo le briciole. Era già successo con il Comunismo che, in nome dello sfruttamento da abbattere, aveva favorito gruppi dirigenti senza scrupoli. La differenza era però enorme: allora la base credeva in una liberazione, mentre ora si afferma la dipendenza.
I settori coinvolti in questa azione di rivendicazione sono i più disparati, dalla popolazione di colore ai nativi americani, alle donne, agli omosessuali e a tutti coloro che, invece di impegnarsi per superare condizioni di disagio create dalla storia degli uomini, spendono tempo ed energie a denunciare i mali subiti. In questo senso l’autore è di una lucidità impressionante e certe riflessioni sembrano anticipare di 30 anni coloro che oggi si fanno strada nella lotta al politicamente corretto.
“Intanto la nuova ortodossia del femminismo sta abbandonando l’immagine della donna autonoma ed esistenzialmente responsabile a favore della donna vista come vittima inerme dell’oppressione maschile; trattarla da eguale di fronte alla legge significa aggravare la sua condizione di vittima” (pag. 25).
“Veniamo creando un’infantilistica cultura del piagnisteo, dove c’è sempre un Padre-Padrone a cui dare la colpa e dove l’ampliamento dei diritti procede senza l’altra faccia della società civile: il vincolo degli obblighi e dei doveri” (pag. 26).
Hughes vede in questa ideologia l’avvento di un clima di intolleranza che già allora cominciava a criticare persino la libertà di parola col pretesto (e la scusa) che opinioni non ossequianti la vittima di turno era un’offesa e un continuare la violenza. Una cameriera rifiutò di servire la colazione a un giornalista che sfogliava Playboy, perché “la sola vista di Playboy è una forma vicaria di stupro, di molestia sessuale sul posto di lavoro, di offesa alla dignità della donna ecc.” (pag. 31).
C’è una rivoluzione verbale che, attraverso una più corretta forma lessicale, diventa il grimaldello per far passare in modo sottinteso accuse e condanne. “Nativo americano in luogo di indiano … parrebbe onesto, salvo l’assurdo sottinteso che i bianchi con progenitori insediatisi qui da tre, da cinque o magari da tutte e tredici le generazioni…siano in genere degli intrusi non nativi di questo Paese” (pag. 40).
E così la guerra contro il maschio passa per la condanna del suffisso -man che è sempre stato di genere neutro, nel significato di persona; infatti anticamente per denotare il sesso occorreva qualificarlo: waepman per il maschio e wifman per la femmina.
Purtroppo è l’attacco concentrico a tutto ciò che è occidentale che nasconde le vere intenzioni dei nuovi rivoluzionari “multiculturalisti”.
In arte, e soprattutto in letteratura, si cominciavano già allora a condannare e dunque a cancellare dalle biblioteche, dalle Università e dunque dalla lettura tutti gli autori che non rispettavano l’odierno “canone politicamente corretto”. E così l’opera dell’artista viene valutata in base a un giudizio fuori dal tempo (anacronistico) e rinviata al sentimento individuale: “L’antielitarismo degli anni ’60… si è portato dietro una sconfinata, cinica indulgenza verso l’ignoranza degli studenti, razionalizzata come riguardo per “l’espressione personale” e “l’autostima”. Per non stressare i ragazzi con troppe letture e troppi sforzi cerebrali…le scuole hanno ridotto la quantità delle letture” (pag. 87).
Già allora il mondo universitario era sotto accusa per l’uso dell’ideologia nella lotta di potere: “L’ambiente accademico ha preso gusto alle etichette che sostituiscono alla riflessione e alla capacità di giudizio un facile moralismo: razzista, sessista, omofobico, progressista reazionario” “Il metodo serve a svergognare una persona e a farle il vuoto intorno” (pag. 78).
E dietro la condanna dell’arte corre la condanna della storia.
Qui il discorso è ancora più semplice: “L’evidenza storica dimostra che in fatto di uccisioni, torture, materialismo, ecocidio, schiavizzazione ed egemonia sessista i popoli delle Americhe (precolombiani, ndr) per secoli e probabilmente per millenni se l’erano cavata abbastanza bene” (pag. 146). E ancora ogni tema che diventerà successivamente la parola d’ordine politicamente corretta trova la sua diretta o indiretta controprova nel libro; così è per il commercio degli schiavi africani di origine islamica e araba, così è per la diffusa pratica dello schiavismo che ha caratterizzato la quasi totalità dei popoli indigeni d’Africa e d’America già molti secoli prima di Vasco de Gama e Colombo. E la schiavitù in quelle terre è proseguita ad opera dei potenti locali: da Zanzibar a Gibuti al Sudan alla Mauritania fino a pochi decenni fa. E nonostante le centinaia di studi sull’argomento abbiano smontato le tesi afrocentriche, l’idea della colpa solitaria di Europa e America continua a infestare le discussioni sulla schiavitù.
Sono tutti aspetti che ritroviamo nel dibattito attuale che ha visto il diffondersi di quelle ideologie e di quegli atteggiamenti e il loro radicalizzarsi: basti pensare ai fenomeni del #metoo, del woke, del black lives matter della critica alla cosiddetta “appropriazione culturale”, dello sputtanamento solo mediatico di artisti come Woody Allen, Kevin Space e tanti altri, del silenzio nei confronti delle violenze razziste e sessiste delle comunità non bianche, della distruzione delle statue di Colombo e di tutto ciò che è sotto gli occhi di tutti.
Hughes aveva visto giusto dimostrando che le sue descrizioni non erano semplice cronaca, occasionale e contingente, ma qualcosa che, se non avesse ricevuto la dovuta attenzione, sarebbe risultato molto deleterio. Il libro riporta centinaia di fatti ripresi soprattutto dal mondo anglosassone e che rappresentano il paradigma di quella tendenza al suicidio che continua a caratterizzare gran parte dell’Occidente. Naturalmente ai primi anni ’90 del secolo scorso ciò che colpiva era ciò che interessava la parte più colta e impegnata della popolazione, ma ciò che allora le élites esprimevano si è diffuso e popolarizzato attraverso la diffusione dei sociali.
C’è l’arte che ha perso la bussola e gira a vuoto, privilegiando la componente etnica e razziale, il riconoscimento di genere e le scelte sessuali, partendo dal presupposto che “bianco, maschio, eterosessuale” era inevitabilmente il male. Il pittore Basquiat è diventato la pietra di paragone, mentre i classici della letteratura e dell’arte dovevano essere sottoposti al vaglio del “politicamente corretto”, creando situazioni prive della minima razionalità. “Si può imparare da Picasso senza essere fallocrati, da Rubens senza diventare cortigiani asburgici, da Kipling senza convertirsi all’imperialismo” (pag. 117). E così, invece di un’apertura mentale a 360° (“se multiculturalismo vuol dire imparare a vedere oltre i confini, io lo sostengo senza riserve” (pag.121), si è affermata una visione riduzionistica che taglia i ponti con le radici e ad esse contrappone per sostituzione tutto ciò che non è bianco, maschio, etero: “Chiunque abbia una minima nozione dell’enorme, ricchissimo e contraddittorio patrimonio della letteratura e del pensiero europei non potrebbe neanche concepire l’esistenza di una compatta massa eurocentrica -come se Adolf Hitler e Anna Frank rappresentassero lo stesso mondo (Rissell Jacoby). C’è chi invoca un qualcosa che chiama cultura latinoamericana (contrapposta alla repressiva cultura anglosassone) senza rendersi conto della grossolana generalizzazione implicita in questa espressione. Non c’è nessuna letteratura latinoamericana in quanto tale, come non c’è un luogo chiamato Asia con una letteratura comune che colleghi in qualche modo il Ramayana, le opere di Confucio e il Libro del guanciale di Sei Shonagon” (pag.125).
Si tratta di separatismo, non di multiculturalismo. E lo stesso avviene per i prodotti legati al colore della pelle, al genere, alle preferenze sessuali e così via.
La democrazia priva di storia, come tutti i concetti presi senza ricostruirne il percorso nel tempo e nello spazio, non significa nulla e diventa solo espressione di pura volontà di potenza. Ogni autorità diventa autoritaria, ogni studente non può essere distinto dal professore, uno vale uno e così si diffonde il “ma non siamo in democrazia?” con cui non esistono più né merito né responsabilità. Ed ecco che spunta il Governo Olandese che, per essere democratico, ha istituito un fondo per comprare opere di chiunque si definisca pittore (purché olandese e vivente), esposte in gallerie-scantinati che nessuno va a vedere e che il Governo non riesce neppure a regalare. Privata della dimensione storica anche la Germania Comunista era democratica, e infatti si chiamava Repubblica Democratica Tedesca.
Il percorso dell’Occidente viene negato e distrutto proprio in ciò che ha permesso ai nuovi soggetti di uscire alla ribalta e potersi esprimere e farsi ascoltare; ma quegli stessi soggetti in questa loro opera distruttiva sostituiscono con un nuovo Assoluto il processo dell’Occidente per superare l’Assoluto stesso, come ha fatto attraverso il riconoscimento dell’individuo e la separazione tra Stato e Chiesa: essi buttano via il bambino con l’acqua sporca e ripropongono quell’Assoluto che soltanto l’Occidente ha saputo superare e, così facendo, rinnegando le proprie origini, sono i portatori di una Nuova Tirannia.