CATHY YOUNG: Il vittimismo è fonte di potere: femministe e antifemministe vedono i vantaggi nel mantenere la condizione di inferiorità della donna (in inglese). Rivista Reason, ottobre 1992. |
Un anno prima dell’uscita dell’edizione inglese di Hughes, recensita la settimana scorsa, uscì l’articolo di una femminista storica Cathy Young dal titolo significativo “Victimhood is powerful”. L’articolo uscì nella rivista mensile “Reason”, un magazine “libertarian” che vende mediamente 50.000 copie e che negli anni 2000 è stato considerato tra le migliori 50 riviste americane, dando vita poi anche a un canale TV “Reason TV”.
La scrittrice ha proseguito la sua attività su quella traccia schierandosi sempre dalla parte dei più deboli ma evitando proclami ideologici e cercando di andare sempre in profondità al di là dei facili schieramenti che riportano al moralistico “Bene contro Male”, semplificato nella generica donna contro il generico maschio, del generico nero contro il generico bianco e così via.
L’articolo non è lunghissimo, ma fa il punto sulla situazione, allora solo in formazione e oggi dilagante, sul ruolo e il significato di “vittima” in un’epoca in cui i grandi conflitti militari o sociali apparivano stemperati e la critica guardava altrove.
Con il crollo del Comunismo i suoi orfani cercavano altre strade su cui convogliare i propri bisogni: non più la lotta di classe, ma la lotta di genere, di colore, di preferenza sessuale, di ambiente.
L’articolo, come i libri recensiti in questa sezione, mostra i paradossi di un nuovo atteggiamento che ha invaso ogni campo dell’attività umana, anche il sistema giuridico. Una docente della Scuola di Legge del New England (Mary Joe Frug) è stata l’antesignana della nuova cultura legale femminista che trova questo giudizio della Young: “Mentre una volta le femministe lottavano per l’uguaglianza legale dei sessi, questa nuova scuola ritiene che, dal momento che le donne sono socialmente svantaggiate, trattarle come eguali di fronte alla legge può solo vittimizzarle ulteriormente” (pag. 19).
La tendenza al vittimismo in campo femminista non è limitata alla nuova teoria legale, ma ha trovato altre adepte (da Thelma and Louise a The Beauty Myth a Blacklash, per le quali “centrale è l’immagine delle donne come vittime – vittime degli uomini, o vittime di una cospirazione sociale (maschile)…Oggi l’accento è posto non sulle donne che sviluppano forza e fiducia in se stesse, ma sulla società perché favorisca la passività femminile” (pag. 19).
Femministe come Susan Faludi e antifemministe come Maggie Gallagher si trovano d’accordo sull’attribuire a un lavaggio del cervello la tendenza a non fare figli e ad abbandonare il ruolo di casalinghe; la sola differenza è che la prima aggiunge il ruolo di Reagan, la seconda quello delle perfide femministe.
Entrambe però concordano che non è responsabilità della donna.
Anche nel campo del diritto all’aborto i due estremi si uniscono (pag. 20) nel riconoscere le colpe della società: i gruppi pro-life incolpano i modesti programmi sociali per le madri, mentre i gruppi abortisti riconoscono il diritto di scelta ma incolpano la società perché il 40% delle donne che si recano in clinica per abortire ci ripensa e decide per la maternità.
Insomma la donna è solo vittima e, come disse Olivia Gans Capo del Gruppo Americano vittime dell’aborto a un giornalista che le aveva fatto notare che la scelta l’aveva fatta lei: “E’ stata una scelta che fui obbligata a fare per la pressione dei pro-aborto”(pag. 20). E così, se gli attivisti antiporno dichiarano che le donne che aprono le gambe per foto o film non possono esercitare la propria libera scelta, perché non sarebbe la stessa cosa per le donne che aprono le gambe per l’aborto?
C’è poi il campo più ampio del sesso e anche qui la donna è sempre e solo vittima, con motivazioni che, seppur non identiche, portano alla stessa conclusione sia le donne conservatrici sia le nuove femministe: “Le donne sono sfruttate anche quando non sanno di esserlo: le donne vengono stuprate anche quando non sanno di esserlo” (pag. 21). La Gallagher spiega in Nemici dell’Eros, col plauso di molti, che “Un uomo sfrutta una donna ogni volta che usa il suo corpo per il piacere sessuale e non vuole accettare il completo fardello della paternità”; Andrea Dworkin in Intercourse dichiara: “Fisicamente la donna nel rapporto sessuale è uno spazio invaso, un territorio letteralmente occupato: occupato anche se non c’è stata resistenza, anche se la persona occupata ha detto “Sì per favore, sì dai, sì di più” (cit. a pag. 21).
L’atteggiamento vittimistico è figlio del riduzionismo e del moralismo, così “Nelle Università si insegna ai giovani maschi che, se non hanno chiesto espressamente la volontà della donna e ricevuto da lei esplicito consenso, possono essere accusati di stupro…E se un uomo spinge egoisticamente la sua ragazza ad abortire, un altro potrebbe essere profondamente ferito non avendo voce in capitolo sul destino di un figlio che ha generato” (pag.21-22).
La vittimizzazione è una chiave di potere che cerca di imporsi sfruttando il senso di colpa, ma senza creare prospettive ed orizzonti che liberino la creatività e la forza delle donne. “Victimhood is powerful” è stato compreso dalle donne ma anche dalle persone di colore in una semplicistica e riduzionistica lettura che avrebbe portato ai giorni nostri alla diffusione della “intersezionalità” (come abbiamo visto in alcuni libri recensiti nelle scorse settimane).
In The Content of Our Character, Shelby Steele osserva: “Come tutte le vittime, ciò che i neri hanno perso in potere lo hanno guadagnato con l’innocenza – innocenza che, a sua volta, li autorizzava a perseguire il potere … Vittimizzazione è una parola ampia e un po’ sciatta che ognuno può applicare a se stesso nel modo più soggettivo possibile… La nostra innocenza è restaurata perché ci è stata fatta un’ingiustizia”(pag. 22).
E la colpa degli altri diventa qualcosa che pesa solo su di loro.
“I parallelismi tra la condizione delle donne e quella dei neri in America sono spesso fuorvianti. A parte le differenze di sfondo storico, c’è sicuramente un’interazione sociale più intima tra i sessi che tra le razze, e il separatismo di genere è una cosa molto più difficile da predicare (e da ottenere) del separatismo razziale. Non sorprende che la mentalità da vittima sembri molto più comune tra i neri che tra le donne. Ma nella misura in cui le donne la abbracciano, ciò che dice Steele vale anche per loro.”
“Le ideologie femministe che vendono l’immagine della donna come vittima e, in modo diverso, le loro controparti antifemministe, cercano il potere: il potere di imporre un’agenda sociale, sia agli uomini per mezzo dell’intimidazione attraverso il senso di colpa, sia alle donne dicendo loro cosa è bene per loro. I conservatori sono ovviamente meno alla moda e meno influenti culturalmente; le femministe radicali, d’altra parte, hanno intimidito con successo il mondo accademico, e anche gran parte dei media, brandendo l’arma del senso di colpa di genere” (pag.22).
La vittima può essere uno scudo molto efficace. Per citare ancora Steele, “quando i neri prendono la parola e indicano le loro difficoltà come prova di vittimizzazione, la confutazione non è facile: sembrerebbe una continuazione dell’atto di vittimizzazione, come se si incolpasse la vittima“. Di fronte al dolore, ovviamente sincero e profondamente sentito, gli argomenti logici sembrano freddi, spietati, insensibili. “Come osa qualcuno interrogare una donna che afferma di essere stata violentata?” ringhia The rag, la rivista femminista di Harvard. (Non funziona altrettanto bene per le vittime politicamente scorrette, ad esempio le “vittime” di aborto, ma sono relativamente nuove in questo gioco e si sforzano di recuperare il ritardo). In una conferenza del Consiglio nazionale per la ricerca sulle donne nel giugno 1992, quando una delle partecipanti ha suggerito che la ristrettezza mentale e l’astrusità della teoria femminista fossero in parte responsabili della sua scarsa immagine pubblica, un’altra donna ha subito protestato: “Non è troppo oneroso per gli oppressi chiedere non solo di sviluppare una teoria della loro oppressione ma che si assicurino che sia compresa?” (pag. 23).
A tutti i diritti delle vittime aggiungi il diritto all’incomprensibilità.
Coloro che non sono in cerca di potere possono anche avere un interesse nello status di vittima: li assolve dalla responsabilità per i propri fallimenti e problemi. Il movimento per il diritto alla vita ha molte più possibilità di ottenere convertiti se dice, alle donne che hanno abortito, che meritano pietà come vittime di uno stupro chirurgico rispetto a se dicesse loro che sono egoiste, peccaminose e malvagie. Poiché la nozione tradizionale americana di un diritto alla ricerca della felicità si trasforma in quella di un diritto alla felicità, si radica la convinzione che l’infelicità sia uno stato di cose innaturale e quindi una colpa di qualcun altro. Il diritto a essere al sicuro dalla violenza sessuale diventa un diritto a relazioni libere da traumi. È facile persuadere alcune persone a considerarsi vittime perché, in fondo, tutti ci sentiamo a volte trattati ingiustamente. Dare la colpa al sessismo – o alla liberazione delle donne – può farlo sembrare in qualche modo più facile, meno arbitrario e più rimediabile; la propria sofferenza può anche essere dignitosa facendone una causa politica. Denunciare l’ingiustizia della vita, per non voler esaminare attentamente alcune delle proprie decisioni che potrebbero aver contribuito alla propria infelicità, è molto meno allettante che denunciare gli uomini, le femministe, o entrambi.
Il potere ottenuto attraverso la vittimizzazione genera evidenti svantaggi. Come osserva Steele, incoraggia l’esagerazione delle ingiustizie e la perpetuazione dello stato di vittima. L’identità individuale viene sostituita da un’identità di gruppo basata sul vittimismo; se una donna non si percepisce come una vittima, non può più parlare per le donne e non è più vista come se parlasse con una voce “autenticamente femminile”.
“Il “potere della vittima” promuove il sospetto e l’ipersensibilità. I sondaggi nei campus sulle molestie sessuali e sulla discriminazione di solito includono categorie come “ostilità percepita”, “valutazioni negative”, “favoritismo”, “insensibilità”, “essere ignorati” e “materiale didattico sessista”. Naturalmente, se il 10 per cento delle donne intervistate si sente vittima di materiali didattici sessisti, ma l’altro 90 per cento che usa gli stessi materiali no, la conclusione non è che il 10 per cento sia paranoico ma che il 90 per cento sia in uno stato pietoso di una coscienza non risvegliata. Audrey Schauss, una studentessa della New York University Law School, ricorda il suo stupore quando, dopo una lezione in cui un professore l’ha messa alla prova con una domanda trabocchetto (a cui ha risposto con successo), due o tre compagne di classe si sono avvicinate e l’hanno esortata a presentare un lamentarsi, dicendo: “Non aveva il diritto di farti domande difficili come quella! Non vedi che stava cercando di umiliarti di fronte ai ragazzi?” Quando Schauss ha risposto che non voleva essere paranoica al riguardo, le donne le hanno rivolto uno sguardo pietoso” (pag. 23).
L’articolo come si vede è una fonte inesauribile di episodi e riflessioni, il tutto presentato con mente aperta che non si rinchiude in stereotipi o altro tipo di pregiudizio. Varrebbe la pena leggerlo e lo si trova nell’Archivio della Rivista Reason.
La conclusione dell’articolo è un avvertimento a non cadere nella trappola del vittimismo, perché esso non porta a migliorare le condizioni e la forza delle donne (o dei neri o di altro gruppo), ma al contrario spinge verso una rassegnata dipendenza e accresce i conflitti in qualsiasi tipo di relazione. In questo balletto si sono inseriti anche i maschi, vittime di una civiltà industriale, dei loro padri, delle loro madri, delle femministe. “Sono vittime della spogliarellista che assumono per un addio al celibato perché lei li fa eccitare pur rimanendo sessualmente non disponibile. (Davvero.) Sembra che siamo a pochi passi da un nuovo mondo coraggioso in cui tutti sono vittime di tutti e nessuno è da biasimare” (pag. 23).