P. BRUCKNER: LA TIRANNIA DELLA PENITENZA. Guanda (Biblioteca della Fenice), 2007 (orig. 2006), pag. 232 – Euro 14,50
Dieci anni dopo “La cultura del piagnisteo” di Hughes anche in Europa ci si accorge della deriva che assume il politicamente corretto e sicuramente uno dei meriti maggiori va al filosofo e scrittore francese Pascal Bruckner, di cui propongo questo saggio.
Il senso di colpa è l’altra faccia del vittimismo ed è ciò che caratterizza gran parte dell’Europa, come vediamo anche in questi giorni nella guerra scatenata dalla Russia contro l’Ucraina: esso nasce senza dubbio dalla cultura cristiana, che è andata fondendosi con la sconfitta universale del Comunismo, i cui portavoce non hanno trovato di meglio che accusare, di tutto e di più, i Paesi capitalistici che volevano abbattere. Essi dimenticano che “La rivoluzione non è un pranzo di gala” (Mao) e, nonostante la sconfitta sia avvenuta pacificamente per autoimplosione, scaricano la loro rabbia e delusione sul “nemico storico”.
Il libro è di estrema attualità perché, a distanza di 15 anni, quell’atteggiamento autopunitivo ha ricevuto solo modeste contrapposizioni che pure stanno cominciando ad affermarsi. L’unione tra il senso di colpa cattolico e il vittimismo comunista ha avuto l’effetto di spostare il dibattito (politico, culturale, giuridico) sul terreno del moralismo che si trasforma in un processo pubblico e mediatico prima che legale. La morale contro il diritto, come abbiamo visto in tutte le recensioni precedenti.
Affermare la morale sul diritto o, peggio, sostituire il diritto con la morale porta solo a privare una comunità delle basi su cui si fonda la convivenza e spinge verso il potere i gruppi più violenti e determinati, sbriciolando di fatto il senso comunitario.
Tutto questo ci viene proposto attraverso una riflessione nitida e una quantità inequivocabile di esempi. Il discorso critico dello scrittore è rivolto soprattutto agli intellettuali europei, ma sempre più riguarderà il cittadino comune anche se i recenti eventi in Ucraina, con l’aggressione russa, stanno mostrando per fortuna numerose crepe.
Dopo la 2GM in Europa si è mostrata “Indulgenza per le dittature straniere, intransigenza verso le nostre democrazie.”(pag. 10) così che “Il volto afflitto delle colonie è stato sostituito dal volto affliggente dei paesi postcoloniali per i quali, da 40 anni, si susseguono solo fallimenti e disincanto: Mao e i suoi 70 milioni di morti, i massacri di massa di Pol Pot, la repressione vietnamita e l’esodo dei Boat People, la dittatura di Saddam Hussein, il delirio oscurantista dei mullah in Iran, il fascismo cubano, la guerra civile algerina….L’Africa Indipendente che Kofi Annan Segretario nero(?) dell’ONU definiva “questo cocktail di disastri” :il regno assassino di Mengistu, il Negus Rosso, le macabre buffonate di Amin Dada, Seku Ture o Bokassa, la demenza di Doe o Taylor in Liberia, i diamanti insanguinati di Foday Sankoh nella Sierra Leone, inventore della mutilazione short sleeve, al gomito, e long sleeve, alla spalla, l’uso dei bambini soldato, dei campi di detenzione, degli stupri collettivi, il conflitto tra Etiopia e Eritrea, le guerre civili in Ciad, Sudan, Somalia, Uganda, Costa d’Avorio…”(pag. 20-21).
“Si tende troppo spesso a dimenticarlo: la conquista e l’espansionismo non caratterizzano solo l’Europa: tutte le grandi civiltà, da quella persiana a quella mongola, da quella cinese a quella azteca e Inca, sono state colonizzatrici. I musulmani hanno invaso la Persia, l’India, il Sud Est asiatico, il Sudan, l’Egitto, distruggendo le religioni locali, massacrando i recalcitranti. Ma di tutto ciò si parla poco nella storiografia ufficiale” A proposito dei musulmani è importante venire a conoscenza del discorso del Presidente Indonesiano (musulmano) che il 13 maggio 2006 denuncia l’arretratezza musulmana con un ampio e chiaro discorso” (nota 23 a pag. 61): discorso che, se fatto in Europa, verrebbe subito bollato di islamofobia.
Tra i numerosi esempi citati nel libro ne riporto solo alcuni per esigenze di spazio: tutti comunque sono utili a comprendere il senso di ciò che l’autore chiama “Il più esemplare degli atteggiamenti evangelici: l’autoaccusa, la fustigazione pubblica”(pag. 29).
Un intero capitolo, il terzo, (da pag. 68 a 95) è dedicato alla situazione in M.O. dove, con il solito riflesso condizionato, tutte le colpe vengono fatte ricadere su Israele e gli USA e così il palestinese diventa la figura astratta del buon selvaggio: naturalmente a nulla serve mostrare che Israele è l’unico paese democratico della regione, che il terrorismo palestinese colpisce in modo indiscriminato donne, bambini, autobus, caffè, come pure che in Israele la comunità araba ha una sua rappresentanza mentre nei paesi arabi gli ebrei, un tempo numerosi, sono costretti ad abbandonare la loro patria. E’ curioso leggere le critiche al leader maximo Arafat fatte all’interno del movimento palestinese oppure una celebre frase di Hassan II Re del Marocco, per cui “l’opposizione a Israele è il più potente afrodisiaco del mondo arabo”. Non sono solo gli intellettuali, da Deleuze a Morin a Nair a Sallenave a Gardner oppure il Nobel Pinter (membro però del Comitato di sostegno a Milosevic); non solo la cultura, ma anche la politica ha difficoltà a riconoscere il diritto di Israele ad esistere di fronte a chi, Palestinesi e Iraniani, non solo non ne riconoscono l’esistenza ma si propongono di cancellarlo dalla faccia della terra.
I ribelli contro l’Occidente hanno sempre ragione: i palestinesi soprattutto nonostante le divisioni al proprio interno che hanno portato all’assassinio come traditori coloro che cercavano una via pacifica, ma anche gli algerini, della cui guerra di liberazione vengono nascoste “le atrocità commesse dagli stessi algerini durante la lotta di liberazione nei confronti del Movimento Nazionle algerino di Messali Hadj, concorrente del FLN, poi nei confronti dei francesi e degli algerini leali alla Francia (sgozzamenti, liquidazioni sommarie, regolamenti di conti…nei quartieri, alle fermate del bus, nei bar, nelle fabbriche dal 1955 al 1962…migliaia di morti)” (pag. 134 e nota 17).
L’Autore riconosce che dovremmo essere fieri di noi stessi contro i nostri crimini, perché li abbiamo riconosciuti e rifiutati. “Ricordiamo questo semplice fatto: l’Europa ha vinto i suoi mostri, la schiavitù è stata abolita, il colonialismo abbandonato, il fascismo sconfitto, il comunismo messo in ginocchio. Quale continente può vantare un simile bilancio?” (pag. 113).
Fino ad ora solo il Presidente del Benin nel 2000 si è pubblicamente scusato per la partecipazione degli Africani dell’Africa Occidentale alla tratta degli schiavi, mentre l’invito del Ghana ai propri emigrati a tornare in Africa per scoprire le proprie radici ha creato ulteriori conflitti perché questi vengono trattati da bianchi dagli autoctoni. (nota5 a pag. 157).
Il razzismo appartiene solo all’uomo bianco occidentale, mentre si diffonde (un po’ come il refrain “Poveri ma belli”) lo stereotipo per cui “Non può esistere razzismo o antisemitismo tra i vecchi oppressi o i giovani delle periferie perché loro stessi hanno sofferto di questo male. Sono vittime, dunque sono indenni dai pregiudizi che colpiscono la maggioranza della popolazione. Al contrario accade proprio l’inverso: il razzismo si moltiplica in modo esponenziale tra gruppi e comunità… si tratta di un razzismo ancora più certo del proprio diritto, dato che si considera reazione legittima da parte di un gruppo di perseguitati” (pag. 94-95)
E molti si convincono, nel buonismo dilagante, che quello stereotipo è vero; non solo, ma il carattere idealistico di quello stereotipo si scontra con la realtà, non solo quella lontana degli altri Continenti, ma anche quella vicinissima: “I partecipanti alle sommosse del novembre 2005 in Francia…che cosa reclamano? Come ha detto uno di loro: Soldi e donne” (pag. 173-174)
Non sono solo gli episodi che aiutano ad affrontare in modo adeguato ciò che stiamo vivendo e ciò che ci sta di fronte, perché è proprio una riflessione storica ciò che ci permette di guardare al futuro in modo positivo e propositivo. Quando diciamo che “la schiavitù è male” o che “la libertà di religione è bene” ragioniamo con filtri attuali e che appartengono solo all’Occidente; per questo non è possibile restare fermi a ciò che è successo, ma vedere se e in che misura certi atteggiamenti che oggi odiamo sono stati superati. In questo senso solo l’Occidente ha le carte in regola perché solo l’Occidente ha saputo creare sia il pensiero sia le istituzioni che possono arginare il ritorno al passato.
E l’Occidente, almeno nella sua componente europea, invece di andare fiera del percorso faticosamente intrapreso si autoflagella e vive di sensi di colpa, aprendo il fianco a quei paesi e a quelle culture che al contrario rinunciano a una riflessione sul proprio passato. “Colpisce il contrasto tra l’idillio che si raccontano gli europei -il diritto, il dialogo, il rispetto, la tolleranza, il multiculturalismo- e la tragedia che vive il mondo circostante: la Russia autocratica, l’Iran aggressivo, il M.O. lacerato, l’Africa instabile, la Corea del Nord minacciosa” (Pag. 100).
Giustamente Bruckner contrappone la Storia alla Memoria, perché solo la Storia è un antidoto ai veleni del passato: la memoria crea solo risentimento, la Storia nel suo percorso reticolare è in grado di superare il passato senza negarlo, recuperando e spostandosi su un piano più alto. Così pure come la memoria deve sapersi costruire in Storia, la colpa deve farsi responsabilità: “Il Vecchio Mondo globalmente preferisce la colpa alla responsabilità: la prima è meno pesante da portare e permette di trovare un buon accomodamento con la propria cattiva coscienza…Il rimorso è un misto di buona volontà e malafede” (pag. 108).
La memoria può essere solo un punto di partenza, soprattutto nella condivisione e costruzione di una Comunità e delle sue istituzioni, quindi di uno Stato: “La Storia non si divide in nazioni peccatrici e continenti angelici, ma in democrazie che riconoscono le proprie azioni abiette e dittature che le dissimulano ammantandosi degli orpelli del martire” (pag. 109). “Non esistono Stati innocenti, ma Stati che guardano la propria barbarie negli occhi e Stati che cercano nella loro oppressione di un tempo una scusa per le proprie odierne malvagità” (pag. 110).
Il tema del vittimismo unisce Stati, Istituzioni e Comunità, ma vale anche per gli individui: ritroviamo a tutti questi livelli la sostituzione della Storia con la Morale che ci illude e ci indebolisce, rafforzando gli istinti e la volontà di potenza di tutti quelli (Stati e Individui) che non hanno fatto i conti con se stessi, né intendono farli. Guardare in faccia la realtà significa essere realisti e idealisti allo stesso tempo: il realismo ci deve far capire che se noi siamo aperti al dialogo non tutti lo sono, l’idealismo deve sempre farci guardare l’orizzonte che è frutto delle nostre scelte e dei nostri successi, di cui dobbiamo andare orgogliosi. In questo senso “L’Europa ha forse torto, come prova la minaccia iraniana, a supporre che la pace sia possibile con il solo dialogo e la buona volontà” (pag.215). “Per essere credibili bisogna essere temuti. Per essere temuti bisogna mostrarsi capaci di infliggere danni irreparabili a un potenziale aggressore” (pag. 215-216).
E’ su questa consapevolezza che si aprono nuovi orizzonti che parlano di pace e che richiedono non autoflagellazioni espiatorie, ma l’assunzione di re-sponsabilità che è innanzitutto re-ciprocità: “Il primo dovere di una democrazia non è quello di rimuginare sul male passato, ma di denunciare senza sosta i propri crimini e le proprie mancanze attuali. Un simile gesto esige reciprocità, esige che tutti applichino le stesse regole…Una politica dell’amicizia non può essere fondata sull’inganno: a noi l’obbrobrio, a voi la grazia. Una volta riconosciuti i nostri torti, quando ne abbiamo, si tratta di rivolgere l’accusa contro gli accusatori e di sottoporli a nostra volta al fuoco della critica” (pag. 231).
Re-sponsabilità e re-ciprocità devono essere anche i punti di riferimento nella vita comunitaria e, se è vero che lo Stato deve proteggere le singole comunità (religiose, linguistiche, etniche, di genere…), queste devono garantire ai propri membri il diritto ad allontanarsi e scegliere altre strade, perché “l’individuo esiste in quanto tale solo quando la sua singolarità prevale sulla sua nazionalità, sul colore della sua pelle, sulla sua appartenenza” (pag. 157). Purtroppo non assistiamo a questa libera scelta: “Definirsi vittime significa presentare la propria candidatura all’eccezione…un senso di appartenenza non si fonda su una sventura teatralizzata, ma su un’esperienza collettiva condivisa, una responsabilità crescente nella vita pubblica, mediatica, professionale” (pag.153).
“Una storia destinata solo agli ebrei (o ai neri americani, ai greci, alle donne, al proletariato, agli omosessuali, ecc.) non può essere una buona storia anche se può confortare chi la pratica” (Eric Hobsbawn a pag. 121).