F. RAMPINI: SUICIDIO OCCIDENTALE. Mondadori, 2022. Pag. 240, Euro 19,00 |
Il libro di Rampini è appena uscito e rappresenta l’aggiornamento dei temi affrontati dai libri precedenti, permettendoci di fare il punto della situazione. Rampini è noto per essere un giornalista, ma è anche uno studioso e ha insegnato a Berkeley, Shangai e alla Bocconi. Fa parte infine di uno dei think tank più noti, il Council on Foreign Relations. Per questo il libro non può essere relegato alla raccolta giornalistica, ma esprime un’idea che si esplicita attraverso numerosi esempi.
L’idea alla base del libro è la stessa che la Young e Hughes suggerirono più di 30 anni fa e cioè l’emergere nel mondo occidentale di una cultura politicamente corretta basata sul vittimismo e sulla critica alla storia e ai valori dell’Occidente. Quella cultura negativa è andata sviluppandosi negli ultimi decenni, oltre le aspettative e i timori dei primi autori, radicalizzandosi e toccando punti sempre più distruttivi. In questo senso il libro di Rampini rimane abbastanza pessimista dal momento che sottolinea con dovizia di particolari le forme di questa diffusione; nonostante ciò però il libro ha un pregio e, forse in modo non voluto, mostra che esiste anche una resistenza alla diffusione di quel fenomeno e sempre più sono i soggetti che ne mostrano i limiti per le sue caratteristiche ideologiche che, prive di radici culturali, sono incapaci di proporre sbocchi e orizzonti.
Per i numerosi temi affrontati che coprono a 360° il terreno di quello che Rampini chiama “suicidio occidentale” il libro meriterebbe un’analisi più dettagliata; per questo motivo mi concentrerò sull’analisi di quel tema che più di ogni altro è capace di aprire nuovi orizzonti stabilendo di fatto un legame con tutti gli altri aspetti studiati.
Il tema che presenterò in modo più diffuso è quello trattato nel Capitolo III, dal titolo “Antirazzismo”. Al termine parlerò in modo più veloce degli altri capitoli e della loro importanza nella costruzione di quella via senza uscita, un vero e proprio cul-de-sac, che sta davanti al “politicamente corretto”.
Antirazzismo. Tutti conoscono gli episodi che hanno portato alla nascita del #blacklivesmatter, l’espressione più radicale del politicamente corretto in ambito antirazzista con la parodistica (e parossistica) versione del woke: la storia americana è condensata nell’unica dimensione dello schiavismo delle origini. In questo capitolo Rampini porta alla luce un mondo che viene lasciato nascosto per non disturbare la convinzione vittimistica della comunità nera, convinzione facile, semplice e allo stesso tempo redditizia. Come si è visto anche nei libri precedenti quella visione non solo ha disinnescato le energie e l’impegno della gente di colore, ma si è trasformata in una teoria onnicomprensiva e tanto facile da usare che si è diffusa anche nei mass media e nelle Università. Purtroppo ne hanno tratto vantaggio solo piccoli gruppi, quelli più attivi, la cui presenza è cresciuta nelle Università e in stampa e TV, mentre la maggioranza continua a dover affrontare i problemi di sempre.
Entriamo dunque in quel sottosuolo di cui si preferisce o non parlare o ricondurlo, sempre e comunque, al “male assoluto”, cioè l’uomo bianco.
1)Lo sfascio delle famiglie nella comunità nera. Oggi tra gli afroamericani si ha il 70% di nascite senza un padre ufficiale (nel 1965 era il 24%, nel 1990 il 64%): studio della Brookings Inst. ad opera di due autori di sinistra, G. Akerlof e J. Yellen. Un opinionista afroamericano J. Riley, citando un episodio avvenuto a Chicago nel 2021 in cui un tredicenne è morto in uno scontro a fuoco con la polizia dopo una notte passata a sparare a casaccio su altri automobilisti insieme a un criminale di 21 anni, scrive “Dobbiamo far finta che gli alti livelli di violenza criminale siano da attribuire a un razzismo sistemico, mentre gli individui non avrebbero alcuna responsabilità” (pag. 82).
2)Con la scusa del razzismo dagli anni ’60 sono cresciuti enormemente i fondi statali da destinare agli afroamericani e così alcune élite si sono specializzate per appropriarsene, con le conseguenze note in casi del genere: corruzione, sprechi, parassitismo e clientelismo, culture assistenziali.
3)Altro tabù: la violenza Black on Black, cioè i crimini degli afroamericani contro chi ha la pelle dello stesso colore.
Dati: Chicago 2021, 4 neri (tutti armati) uccisi in scontri a fuoco con la polizia, cioè lo 0,5% delle vittime di omicidio, mentre sia gli assassini sia le vittime di quegli omicidi sono per l’83% circa neri (mentre la popolazione nera è solo del 30%). In tutti gli USA nel 2020 sono stati uccisi 9941 neri, per la stragrande maggioranza vittime di criminali dello stesso gruppo etnico. In questo senso il Live Black Matter non ha gran seguito nella comunità etnica di riferimento e lo si vede al voto, quando ha premiato i moderati e eletto a NYC un sindaco-sceriffo come Eric Adams. Altri fatti ricordati nel libro vanno in questa direzione: i poliziotti di colore non hanno difficoltà a usare le maniere dure; i saccheggi del 2020 hanno colpito in maniera devastante il Bronx, quartiere ad alta concentrazione afroamericana e dove molti proprietari di negozi devastati sono neri.
4)Defund the police. “Togliere I fondi alla polizia” è stato uno slogan diffuso grazie alle teorie dei radicali a partire dal 2020. I risultati non sono mancati. A Minneapolis c’è stato un aumento del 25% di omicidi, stupri, aggressioni, rapine a mano armata e nella sua zona più afroamericana l’aumento è stato del 66%. Tutti i sindaci di sinistra hanno ben pensato di aderire, a NYC, Los Angeles, Portland e altre metropoli: nel 2020 in tutti gli Stati Uniti gli omicidi sono aumentati del 30%. E’ strano che alle elezioni del 2020 Trump abbia ottenuto 12 milioni di voti in più rispetto al 2016? Lo slogan aveva sedotto l’élite progressista che è stata costretta presto a fare marcia indietro, grazie a quel popolo tanto disprezzato. Il nuovo capo della polizia di New York è una poliziotta di carriera, nera e giovane e, appena nominata nel 2022, si è scagliata contro il procuratore distrettuale che invitava a usare meno la detenzione, soprattutto per gli oltraggi a pubblico ufficiale o a chi fa resistenza. Era un altro modo per squalificare la polizia e tollerarne il disprezzo: chi viene dal basso conosce i problemi reali.
5)Quello che è successo a NYC si diffonde in altre parti del Paese, soprattutto in California e non è solo il “defund police”, ma una politica lassista da parte delle autorità giudiziarie che invitano, come è successo a NYC, i giudici ad essere clementi, a ridurre le pene, a liberare criminali, a comminare pene al ribasso. Le motivazioni sono solo in pochi casi legate al sovraffollamento delle carceri: esse trovano la classica giustificazione nei problemi sociali e storici delle comunità da cui provengono i criminali. Il Procuratore Generale di San Francisco è stato eletto nel 2019 con la promessa di non perseguire reati senza vittime con cause socio-economiche, tra cui lo spaccio di droga. Le conseguenze sono stati inevitabili: furti quintuplicati, costi per la sicurezza sono 50 volte superiori alle altre regioni, piccole imprese che chiudono. Non solo: le carceri sono scese da 2850 a 766 persone e più di metà dei detenuti rilasciati e il 75% di chi era stato condannato per crimini violenti commettono nuovi reati dopo il rilascio. Sempre a San Francisco nel 2021 sono morte 713 persone di overdose (più del doppio dei morti di Covid); i senzatetto aumentano mentre nel resto degli USA diminuiscono.
“Il problema è un’ideologia che definisce alcune persone come vittime -per la loro identità etnica o sessuali, o per il loro vissuto- e perciò ne legittima qualsiasi comportamento distruttivo” (pag. 97).
6) Purtroppo alla base di certe decisioni istituzionali e sociali (la spesa proletaria col saccheggio dei negozi) si è andata elaborando una teoria i cui limiti sono evidenti e cominciano a trovare dei critici sempre più numerosi, ma che comunque hanno saputo insediarsi in alcune istituzioni pubbliche (abbiamo visto la magistratura) e in noti punti di riferimento giornalistici (New York Times, Washington Post, Time etc.). Emblematico è stato il caso dell’omicidio a NYC nel dicembre 2021 di uno studente italiano, Davide Giri, ucciso da Vincent Pickney, afro-americano, 25 anni, arrestato 11 volte dal 2012 per crimini gravi, rilasciato in anticipo, per di più sospettato per una recente aggressione. Il NYT citerà solo nome e cognome, null’altro. Alle insistenze del Corriere della sera, della Frankfurter Allgemeine Zeitung e di altre importanti testate internazionali il giornale, storico riferimento dell’informazione, eviterà di rispondere e approfondire. E così si afferma il nuovo giornalismo, militante e condizionato dalla sua agenda ideologica: lo stesso NYT, dopo l’uccisione di Floyd, si era fatto promotore dello slogan “tagliare fondi alla polizia”.
7) E veniamo alla teoria che cerca di giustificare questo atteggiamento ideologico. Essa è nota come “Critical Race Theory” e ha ispirato un manifesto ideologico, il 1619 Project, che caratterizza il giornalismo militante che si è impadronito di testate storiche come il NYT. L’intera storia americana viene riscritta a partire dallo schiavismo che avrebbe segnato tutto il resto. Quel Progetto rimane in piedi nonostante numerosi e autorevoli storici ne abbiano denunciato il carattere ideologico infarcito di falsità e forzature: non è vero che la rivoluzione americana fu combattuta per mantenere lo schiavismo che l’Inghilterra voleva abolire; non è vero che il sistema schiavistico delle piantagioni del Sud è alla base del capitalismo americano (per fortuna qualsiasi libro di storia italiano, nonostante altri difetti, sa riconoscere le origini del capitalismo americano); non è vero che Lincoln fosse un razzista che non voleva riconoscere i diritti degli ex-schiavi. Una analisi critica della teoria trova la sua più approfondita espressione in 1620: A Critical Response to the 1619 Project di P. Wood.
Inutile ripetere ciò che sappiamo e che l’élite progressista americana ignora (volontariamente o no), tanto che i crimini degli stati africani e dei paesi islamici o di tutto il mondo che non si riconosce nell’Occidente non vengono affrontati. (v. il mio libro: Dodici lezioni di Storia. Flussi).
La “Critical Race Theory” non è cosa nuova e risale agli anni Settanta, elaborata dalle frange ultra radicali di gruppi come i Black Panther e ha permesso allora di considerare le battaglie di Martin Luther King come inutili e ipocrite. Insomma, rispolverare quella teoria, le cui origini non sono ininfluenti, da parte di una sedicente borghesia illuminata è solo un mezzo di potere che strumentalizza la storia per propri fini. E, come sempre in questi casi, chi condanna la Storia attraverso anacronismo e moralismo accentua le divisioni e i conflitti: Stati come Texas, Tennessee, Iowa, Idaho e Oklahoma e molti Parlamenti locali vogliono fermare l’introduzione di quelle dottrine nei programmi delle scuole. E non sono solo i repubblicani, ma anche commentatori progressisti come Andrew Sullivan, Bret Stephens e Ross Douthat e giornali come il Wall Street Journal e Istituti come l’Heritage Foundation. Ciò che è interessante è che in due anni (2020-2021) è aumentata dell’11% la home schooling (educazione domiciliare) e l’iscrizione a scuole private più tradizionali, e a ciò contribuiscono tutte le etnie: non si vuole che ai propri figli venga insegnato che il loro destino sta scritto nella pigmentazione della pelle.
Il Politicamente Corretto rivendica il diritto a scegliersi un sesso, rivendica la fluidità di genere, ma questa libertà non vale per la razza: “essere bianchi è una macchia morale incancellabile, ereditaria, incurabile: quella sì biologica per sempre” (pag. 115).
Con la stessa qualità e con lo stesso approfondimento Rampini affronta gli altri temi. Qui farò una veloce sintesi.
Il primo capitolo si rivolge alla tendenza a criminalizzare l’uomo bianco a partire dalle contestazioni del Columbus Day. A parte le solite mistificazioni, i soliti errori, le solite mancanze che generano una ricostruzione della Storia totalmente falsificata, è interessante l’approccio prospettico. Prendiamo, dice Rampini, una bambina di 12 anni, discendente di immigrati italiani che deve pentirsi ed espiare le colpe della razza, essendo bianca: a scuola, negli Stati “progressisti”, le si insegna questo ed altro, come rendere omaggio alle vittime, tra le quali figurano immigrati ispanici, il cui DNA è solo al 10% indio mentre al 90% legato agli antenati, colonizzatori spagnoli. Le si chiede anche di onorare i figli di immigrati del Medio Oriente, arabi i cui antenati prosperarono sul commercio degli schiavi.
Il secondo capitolo riguarda la caccia alle streghe che si opera soprattutto nelle Università rifiutando la presenza di intellettuali che non aderiscono al 100% con le teorie politicamente corrette su razza, genere, storia ecc. Niente conferenze, niente dibattito, niente confronto, ma un clima d’intolleranza che da un lato ricorda la Rivoluzione Culturale di Mao e dall’altro richiama alla mente il romanzo di Hawthorne “La lettera scarlatta”, il marchio imposto su una ragazza protagonista di una relazione extraconiugale.
Capitolo quattro. Il Nuovo Paganesimo: l’ambientalismo come religione. Rinvio alle recensioni già fatte sul tema. Anche qui falsificazioni, estremizzazioni e silenzio sia sui paesi non occidentali sia sui progressi fatti dalla scienza proprio grazie agli investimenti e alla ricerca. “Oggi l’ecologia è una liturgia: è impossibile non citarla in ogni discorso. E’ un catechismo: viene insegnata ai bambini fin dalla scuola materna. E’ un dogma: chi osa dubitare è considerato un pazzo o un delinquente” (pag. 132).
Le Conclusioni sono un amaro bilancio di quanto scritto in precedenza. Per capire ancora meglio il senso del discorso di Rampini riporto qui alcuni passi presenti nell’ultimo capitolo.
1)I problemi razziale e di genere sono diventati il centro dell’attenzione, almeno per come stampa, TV e scuola stanno martellando da anni. E così i più recenti sondaggi Gallup rivelano che l’americano medio stima che la percentuale black negli USA sia del 33% e invece la realtà ci dice un più modesto 12%; crede che il popolo LGBTQ sia il 25% e anche qui la realtà ci porta coi piedi per terra: solo il 3,8%.
2)Di razzismo dei neri e degli arabi può parlare solo un afroamericano nero e gay, Kwame Anthony Appiah, autore di Liberation Psychology; un bianco sarebbe stato cancellato dalla presenza pubblica lavorativa. Lo stesso vale per come gli USA rimangano per molti stranieri un punto di riferimento e un obbiettivo vitale proprio per quei valori che l’establishement politically correct rifiuta e condanna: l’iraniana immigrata Roya Hakakian lo mette in evidenza nel libro del 2021 A beginners’s Guide to America. I nuovi moralisti dovrebbero leggere il libro di questa donna immigrata e scoprirebbero cosa vuol dire libertà per chi ha vissuto in un paese non occidentale: il piacere di essere corteggiata, di potersi togliere il velo, di aspirare a costruire un personale percorso di vita grazie ai diritti di cui ora può godere. Libertà.
Saremo in grado di invertire la tendenza? L’autore lo spera ma non vede molti segnali. Il suo pessimismo si basa sul fatto che è la prima volta nella storia delle nazioni dominanti che sia proprio il Potere, il Sistema a distruggere il proprio passato e le proprie origini. Nessun Impero, nessuna grande potenza, che ha dovuto lasciare il posto ad altri sopraggiunti, non ha mai distrutto la propria Storia, facendo harakiri.