Questo è un libro importante perché va oltre i luoghi comuni sulla tratta degli schiavi avvalendosi degli studi più significativi sull’argomento. E’ un libro che non cade in nessun tipo di moralismo, rifiuta posizioni anacronistiche che di solito si confondono col moralismo e si muove in una dimensione ampia e complessa, evitando schematismi di qualsiasi genere.
In più, cosa non secondaria, si legge con estrema facilità e per gran parte delle sue 461 pagine l’elemento narrativo si integra nell’elemento saggistico.
A parte la scorrevolezza e la presenza di tante storie, il libro si presenta subito dichiarando il senso della sua scrittura; dovrebbe coinvolgere soprattutto gli insegnanti, ma è utile anche a chi crede nel valore della cultura.
“Concordo assolutamente con Herbert Klein quando scrive: ‘Benché la maggior parte della ricerca in merito abbia invalidato le convinzioni tradizionali sulla tratta atlantica, queste ultime rivelano ancora una forza enorme, e continuano a essere ripetute nei testi normalmente destinati alle scuole primarie e secondarie’” (pag. 10, nota 6).
Tutti hanno studiato a scuola il “commercio triangolare” e la cosiddetta “tratta atlantica degli schiavi” o semplicemente “tratta dei neri” che ha visto come protagonisti i paesi occidentali, ma quasi nessuno conosce l’esistenza di altre due tratte di schiavi, simili per caratteristiche e significato: la “tratta orientale” e la “tratta africana”.
Il motivo di questa forbice di conoscenza è semplice e riguarda la quasi totalità degli avvenimenti del mondo: conosciamo molto della tratta occidentale perché l’Occidente non si è mai nascosto e ha sempre considerato come sua essenza la ricerca della verità e lo sviluppo della conoscenza.
L’Occidente è cosciente che la storia non è immutabile e che è importante tornare sui propri passi, conoscerli meglio e più approfonditamente, correggere la prospettiva e procedere al cambiamento, se necessario, per costruire una società migliore.
In Oriente e in Africa gli studi sui loro mondi sono pochi e spesso svolti per realizzare delle giustificazioni e obbedire a valori culturali o religiosi visti come immutabili. Non mancano studi di qualità, ma molto di quello che si conosce non si deve a chi in quel mondo è nato e a quel mondo fa riferimento.
“La tratta atlantica, la più famosa e la meno travisata delle tratte d’esportazione, si sviluppa soltanto nel XVII secolo, mille anni dopo il fiorire delle tratte orientali che, più precoci e più durature, alimentarono il mondo musulmano” (pag. 17).
La schiavitù è sempre esistita tanto che Marx la considerava alla base della prima società umana dopo quello che lui immaginò come “comunismo primitivo”; erano società schiaviste quella greca, quella romana, quella babilonese e praticamente tutte le altre. La caratteristica specifica di ciò di cui stiamo parlando non riguarda la schiavitù, ma la sua estensione in termini numerici e geografici. Quelle greche erano città-Stato e la schiavitù in grandi dimensioni non era necessaria; lo stesso vale per Roma, anche quando organizzò un territorio grande come l’Europa, perché aveva scelto una politica di colonizzazione più che di asservimento. Lo stesso avvenne anche per la Cina, chiusa altezzosamente nei propri confini territoriali e culturali.
Le cose cambiarono con l’espansione araba che portò alla conquista e islamizzazione dell’Africa del Nord e di gran parte dell’Oriente Medio che mise in contatto Ovest ed Est in un’epoca in cui i commerci si erano notevolmente sviluppati. In quel periodo, mentre l’Europa si stava riorganizzando e muovendo soprattutto al proprio interno, gli Arabi prima e i Turchi poi accompagnavano commercio e religione dall’Oceano Atlantico all’Oceano Indiano. La vera espansione europea negli altri continenti inizia solo nella seconda metà del XV secolo e si affermerà nel secolo XVII non più cedendo il predominio.
Nei secoli del dominio arabo, o meglio islamico, la tratta orientale dei neri raggiunse cifre consistenti rifornendosi anche alla preesistente tratta africana, e soprattutto sub-sahariana.
E’ importante notare come furono i musulmani i primi a stigmatizzare il colore della pelle identificandolo come un necessario attributo della schiavitù.
(1)La famosa maledizione di Noè sul più giovane dei figli di Cam, Canaan (sarebbe stato per i suoi fratelli lo schiavo degli schiavi), di cui parla la Bibbia fu usata in Europa soprattutto per indicare ora questo ora quello senza riferimenti a colore o razza (pag. 31). Essa invece divenne un punto fermo nel mondo islamico per giustificare la schiavitù di persone nere (pag. 31 e seguenti i numerosi riferimenti).
(2)Il grande studioso Lewis ricorda che la centralità degli arabi nel mondo da loro dominato li portò ad attribuire “una connotazione di inferiorità alle pelli scure e più precisamente nere” (pag. 29). Per l’autore del libro questo giudizio negativo non era ancora razzismo: “A spingere gli arabi (in questa direzione) fu proprio la tratta dei neri che creò negli abitanti dell’impero l’abitudine di vedere degli uomini di colore asserviti, con la progressiva assimilazione fra la pelle nera e la figura dello schiavo” (pag. 29). A meglio chiarire, riportando nella nota 15 un brano importante di Lewis (carattere più piccolo), scrive: “Già durante il Medioevo divenne abituale impiegare termini differenti per indicare gli schiavi bianchi e gli schiavi neri”. Questi ultimi erano chiamati ‘abd. In parecchi dialetti arabi, il termine finì per indicare l’uomo nero in genere, che fosse libero o schiavo”.
Non è un problema morale, ma storico: i musulmani crearono la prima tratta di schiavi neri su scala planetaria solo perché i loro commerci erano talmente estesi che avevano bisogno di un approvvigionamento regolare di manodopera a basso costo. Manodopera che trovarono facilmente in Africa dove avevano già stabilito rotte carovaniere lavorando insieme ai mercanti africani.
E’ così che arriviamo alla terza tratta di cui poco si parla, perché l’ideologia e il moralismo non ragionano in termini complessi: se gli africani sono vittime non può essere che siano colpevoli. Affermazione perentoria e poco ragionevole, ma capace di attecchire in animi, coscientemente o inconsciamente semplici.
“Il modo di produzione di prigionieri …era gestito soprattutto da africani…essi provenivano da razzie e catture operate in guerra e dall’applicazione di regole del diritto consuetudinario (sanzioni con la riduzione in schiavitù)” (pag.74). “In Africa furono i poteri radicati sul posto a produrre prigionieri e furono poi questi stessi poteri, attraverso le élite mercantili locali, a regolamentare e organizzare le operazioni di vendita” (pag. 75). I motivi perché questo poteva avvenire erano diversi.
Uno di questi motivi riguarda l’assenza di un sentimento di appartenenza a una stessa comunità “africana” e in effetti termini come Africa e africani avevano un senso solo per gli europei. Questo è tanto vero che persino oggi non esiste un sentimento di riconoscimento che sia diverso dalla propria etnia e spesso anche solo dalla propria tribù: cosa voglia dire questo il sanguinoso e recenteconflitto tra Hutu e Tutsi ne è una drammatica testimonianza.
C’è poi un sistema che ha radici solidissime e presenta un evidente vantaggio economico. Va tenuto presente anche il fatto che il potere delle élite locali, data la frammentazione etnica, si basava sul riconoscimento delle popolazioni, il cui sfruttamento era indubbiamente minore se si rivolgeva all’esterno, verso tribù o etnie diverse. “I vicini erano dunque le prede e le vittime designate, soprattutto quando apparivano più deboli, a causa di una minore complessità delle loro strutture sociali, politiche e militari” (pag. 81).
Prendendo in considerazione le regioni dell’Africa Occidentale più coinvolte nella tratta, quelle tra Senegal e Camerun, è qui che ha fatto la sua comparsa il mercato schiavistico, in relazione alla nascita di veri e propri Stati, il Ghana, il Mali, il Songhai: le testimonianze sono evidenti, tra VII e XI secolo per Ghana, tra XIII e XVII per Mali e tra XV e XVII per Songhai. Le scoperte archeologiche se da un lato mostrano questo aspetto, dall’altro lo escludono per le organizzazioni sociali preislamiche: “l’islamizzazione delle élite permise alle stesse di legittimare la riduzione in schiavitù delle popolazioni limitrofe, dichiarate pagane” (pag. 84).
Non ci sono colpe né buoni o cattivi, ma intreccio di flussi che talvolta si fortificano e subiscono un’accelerazione: l’estensione del commercio islamico all’Africa trasse vantaggio dalla presenza di reti commerciali indigene e queste reti si rafforzarono grazie alla presenza di una società, quella islamica, che già praticava il commercio di schiavi su larga scala. E’ a questo punto che si inseriscono gli Europei e si afferma la Tratta atlantica.
Numerosi sono gli aspetti affrontati dallo studioso e non è possibile qui riportarli tutti. Due in particolare meritano un richiamo perché mettono in evidenza elementi che la voce comune evita preferendo slogan a studi seri.
Il primo riguarda il movimento abolizionista e il secondo la supposta decrescita demografica africana a seguito della tratta.
Non c’è dubbio che il movimento abolizionista appartiene all’Occidente e all’Occidente soltanto e si è sviluppato in modo non semplice e articolato, in molti secoli e attraverso l’interazione di elementi religiosi, filosofici ed economici. L’Occidente impiegò secoli e mezzi svariati prima di arrivare definitivamente all’abolizione sia della tratta sia della schiavitù stessa. Un impegno impressionante che ha finito col rappresentare una costola importante della democrazia moderna. Ciò non è successo altrove.
L’autore parla di movimenti e non semplicemente di pensatori.
Ed è così che veniamo a sapere di un primo segnale già nell’XI secolo; da allora, anche per la comune origine cristiana che valorizza la persona i diversi Stati Europei procedettero in misura sempre maggiore, e non certo lineare, a mettere in discussione soprattutto la Tratta perché la schiavitù in Europa era praticamente scomparsa alla fine del 1300. E’ vero che il fenomeno rimase ma è un dato che alcuni stati americani avevano abolito la Tratta nel corso del 1700, ma il primo Stato-Nazione a farlo fu la Danimarca nel 1792 e a ruota seguirono Inghilterra, Francia, Olanda e tutti gli altri in Europa. La quantità di documenti portati alla luce nel corso degli ultimi secoli su questo argomento è enorme. Naturalmente l’abolizione della Tratta non significò anche l’abolizione della schiavitù, che fu realizzata alcuni decenni dopo; trovo curioso e interessante notare come il Brasile, uno Stato in cui la schiavitù aveva prosperato per secoli, una volta resosi indipendente all’inizio del 1800 non scelse subito l’abolizione, ma aspettò il 1888 per decretarne la fine.
Il tema dell’abolizionismo viene sviluppato dall’autore per più di 100 pagine, di cui 25 sono dedicate ad Africa e Oriente; si tratta di pagine illuminanti per la serietà degli studi e per la quantità dei dati forniti. Fuori dall’Occidente il tema non si pose praticamente mai e quando fu oggetto di riflessione avvenne in seguito al peso degli studi e delle posizioni occidentali. Vari elementi contribuirono a questa realtà e non va sottovalutato il fatto che in quelle aree mancava, ancor prima della presenza coloniale, un’identità comune.
Il secondo ha richiesto un approfondimento perché è diffusa l’opinione che la Tratta abbia decimato la popolazione africana, preferendo troppo spesso il semplicismo dei luoghi comuni.
E’ solo dagli studi di Curtin del 1969 e di Eltis del 2001 che il tema demografico assume una credibilità storica e statistica, ponendo fine a quello che veniva chiamato “balletto delle cifre”. Ovviamente cifre più precise permettono una riflessione più puntuale, anche se importante rimane sempre un approccio complesso. Gli ordini di grandezza di cui oggi disponiamo sono generalmente accettati. Vediamo le cifre.
Tra il 1519 e il 1867 gli africani sbarcati al di là dell’Atlantico sarebbero stati 9.599.000 e diventerebbero 11.062.000 includendo le persone morte nel viaggio. Aggiungendo i 17.000.000 deportati nell’insieme delle tratte orientali arriviamo a un totale di 28 milioni.
Qual è stato dunque l’impatto delle tratte sulla popolazione complessiva dell’Africa?
Diversi sono i metodi di approccio e quello preferito dall’autore non è globalizzante (utilizzare i numeri in termini generali e astratti), ma un metodo sistemico che cerca di contestualizzare l’andamento demografico all’ambiente, ecologico, sociale, culturale e politico. Non mi dilungherò su questi aspetti che rimando alla lettura dell’ultimo capitolo. Citerò alcuni aspetti che, seppur non decisivi, mettono in evidenza elementi in genere trascurati dai luoghi comuni correnti. Li citerò lasciandoli in sospeso alla curiosità dell’eventuale lettore.
Innanzitutto viene avanzata “l’ipotesi che, a livello demografico, la tratta avesse un effetto minore delle siccità, delle epidemie, e delle carestie” (pag.376), mentre alcuni studiosi ricordano che va presa in considerazione anche l’esigenza dei capi africani di sbarazzarsi dei prigionieri di guerra più ribelli.
Rispetto a chi ha sostenuto il peso delle mancate nascite dovute all’esportazione di così tanti uomini, principalmente maschi, alcuni studiosi mettono in evidenza che questo aspetto non è considerevole a causa del carattere poligamico delle società africane, grazie al quale la fertilità sarebbe risultata praticamente immutata.
Forse però l’elemento più significativo rispetto a questo tema riguarda il fatto che i paesi Ibo, Yoruba, Efik, quelli cioè maggiormente colpiti dalla tratta, sono rimasti paesi dalla densità eccezionalmente alta.
Rimane dunque un terreno di indagine da sviluppare, ma è facilmente discutibile sia l’approccio minimalista sia quello massimalista, perché entrambi basati o su dati precisi ma locali o su astrazioni.
Altri aspetti risultano nel libro di estremo interesse e alcuni li ho già ricordati.
Voglio qui disegnare un quadro che pone il dibattito su un piano ancora più complesso. Vediamone gli snodi.
1)La schiavitù era già fondamentale per l’ordine sociale, politico ed economico di zone situate a nord della savana, in Etiopia e sulla costa orientale africana, molti secoli prima del Seicento (Lovejoy) (pag. 428);
2)L’economia di molte aree del continente africano prima della tratta atlantica non era di semplice sussistenza, ma si basava su forme di commercio non occasionali e di discrete dimensioni. Questo fenomeno, come altrove, aveva favorito la nascita e il rafforzamento di veri e propri Stati con eserciti di soldati: Stati non tribù. Vengono individuate da Thornton 150 unità politiche sovrane e 4 vaste regioni diplomatiche e militari (Guinea superiore, Guinea inferiore, Angola, Africa centro-occidentale (pag. 400);
3)L’influenza europea in questa economia e su questi Stati rimase fino al XIX secolo marginale: solo verso il 1860 i prodotti europei cominciarono ad avere un certo impatto in Africa (pag. 412);
4)Il crollo del prezzo degli schiavi, l’influenza della campagna abolizionista, nuove forme organizzative e produttive, fenomeni avvenuti tra la fine del 1700 e la prima metà del 1800, mandarono in crisi quegli Stati, favorendo l’intervento europeo in termini di colonialismo.
Come tutti i libri seri anche questo non svela il nome dell’assassino, semplicemente perché la storia non è un libro giallo. Ormai la ricerca storica ha chiarito che occorre abbandonare il rapporto causa-effetto o anche cause-effetti e che invece dobbiamo seguire i diversi flussi e le diverse relazioni, cosa non facile, ma necessaria per non cadere nel semplicismo ideologico e moralista.
Le tratte degli schiavi neri colpiscono per la dimensione e la durata, ma non sono niente di unico e anzi sono coerenti con la storia generale dell’umanità. Purtroppo la ricerca di colpevoli su cui scaricare le proprie responsabilità nasconde la cattiva coscienza: la storia non è una lavagna in cui scrivere da una parte i nomi dei buoni e dall’altra quella dei cattivi. Troppi luoghi comuni continuano a circolare nonostante gli studi abbiano prodotto enorme materiale di pregio: lo abbiamo visto nel massacro del 1994 in Ruanda che ha coinvolto Hutu e Tutsi e che alcuni intellettuali attribuivano ai “colonialisti occidentali”. Sarebbe giunto il momento di iniziare una riflessione seria e questo libro offre tutto il materiale necessario: non si creda che ciò riguardi solo gli esperti, perché troppo spesso è proprio la conoscenza media di una società che fa la differenza.