ASIA TRA SINGAPORE E DELHI 2018

ITINERARIO: Singapore- Rangoon- Mandalay- Bagan- Heho-Tanguiy-Lago Inle-Rangoon-Singapore-Kuala Lumpur-Kotha Bahru- Isole Perhentian- Kuala Lumpur – Delhi-Agra-Benares-Calcutta-Bubhaneswar-Mamallapuram-Pondicherry-Madras-Singapore

ANTE SCRIPTUM

Si fa presto a dire Asia e spesso lo si fa in modo talmente generico da risultare imbarazzante; talvolta si restringe il campo ma non ci si accorge di operare un semplicismo comprensibile ma incapace di aiutarci a comprendere. La Storia, le etnie, le religioni, le culture hanno modellato territori ben oltre la geografia. E se l’Europa ha comunque una con-formazione relativamente omogenea (Roma, il Cristianesimo, le guerre e la loro fine, l’Unione Europea) l’Asia è un continente dove originalità, specificità, frammentazione rimangono ad un livello altissimo.

Prendiamo ad esempio il Medio Oriente dove ebrei, sciiti, sunniti, cristiani, per un lato, e turchi, arabi, persiani per un altro riportano il termine a una semplice espressione geografica, anch’essa un po’ traballante visto che l’Egitto, le repubbliche ex-sovietiche e la penisola arabica non sono poi un altro mondo. Per questa difficoltà nel corso degli anni si è passati da una identificazione più ristretta a qualcosa di molto vasto, che nella sua massima estensione va dal Marocco al Pakistan.

Così pure l’Estremo Oriente dove Mongolia, Cina, Giappone, Corea, Taiwan, Hong Kong sono espressione di storie millenari in cui non sono mancate contaminazioni, ma senza che fossero realizzati stabili collegamenti. E le Filippine cristiane e l’Indonesia musulmana sono Oriente geograficamente Estremo. E’ così che spesso si passa da una visione più ristretta a una visione amplissima che comprende tutta l’Asia Orientale a partire da Russia Occidentale, Kazahstan, Bangla Desh.

Lo stesso fenomeno riguarda anche l’Indocina che storicamente dovrebbe includere il Bangla Desh, parte della Cina meridionale e la Malesia oltre agli altri stati che caratterizzano il sud-est asiatico.

E poi c’è l’India un vero e proprio continente a parte.

 

Questa premessa non pretende di proporre una terminologia nuova o sposare una delle vecchie, ma al contrario tirarsi fuori perché, anche in questo caso, è la complessità a regnare sovrana.

Il viaggio di cui parlerò nasce dal desiderio di scoprire un paese dal passato ricchissimo che si stava riaprendo, la Birmania, oggi chiamatasi Myanmar. Approfittando della vicinanza geografica, del tempo a disposizione e delle opportunità di trasferimento abbiamo incluso Singapore, alcune isole della Malesia e la sua capitale e per concludere centri importanti dell’India Orientale, quella meno battuta dai monsoni nel periodo del viaggio.

 

SINGAPORE

Abbiamo visitato Singapore in tre occasioni, l’arrivo una tappa intermedia e la partenza.

Singapore è praticamente una città-stato che si è staccata dalla Malesia nel 1965, di dimensioni simili a quelle della città di New York con un reddito pro-capite molto alto. Ha sfruttato la sua posizione e le dimensioni del suo territorio, ma ha saputo valorizzare questi elementi in modo incredibile: ha saputo approfittare della globalizzazione e della rivoluzione informatica, diventando un vero e proprio hub economico integrato tra mare e cielo e dando ai propri cittadini libertà e opportunità. Abitata da una popolazione cosmopolita di maggioranza cinese, ma con forti presenze malesi e indiane tamil, ha saputo superare gli scontri razziali scatenati dalla comunità malese islamica nel 1950 e nel 1964 e dal 1998 è stata proclamata una festa nazionale per vivere in armonia, la Racial Harmony Day Celebrations. Come convivono le etnie, convivono anche le religioni, buddista cristiana islamica e anche induista, ed è questa “armonia” che ha permesso a Singapore di raggiungere i livelli di prosperità che sia le statistiche sia la visita mostrano con chiarezza.

Qualità della vita.

E’ il primo elemento che salta agli occhi a qualsiasi visitatore che si muove in questa città dal cuore antico, ma dal cervello e dalle forme moderne se non futuristiche. Si parla qui di economia e finanza ma anche di turismo con una compagnia aerea tra le più apprezzate al mondo e con iniziative culturali di ampio respiro. La città fu fondata e crebbe per opera degli inglesi e il suo fondatore, il Governatore Raffles, è ancora ricordato senza le assurde rivendicazioni anticoloniali oggi molto di moda.

Non esiste un itinerario particolare da seguire nella visita della città, molto dipende dal tempo e dagli interessi; per fortuna le maggiori attrazioni non risultano troppo dispersive e permettono di concentrarsi su questo o quell’aspetto.

I Giardini Botanici sono stati il nostro punto di partenza: vegetazione ricchissima e variegata ben presentata con tante tipologie, dalle orchidee alle palme al bambù ad alberi molto più grandi (anche 30 m.) a rappresentare la flora di una regione equatoriale dove l’umidità (e si sente) domina le giornate. I Giardini Botanici sono più di un Museo all’aperto, perché espongono numerose sculture lungo il percorso e offrono spazi educativi di cui difficilmente un turista approfitterà, ma che rappresentano un grande punto di riferimento per chi è residente. E’ uno dei siti che abbiamo apprezzato maggiormente.

Se consideriamo attrattiva naturale i Giardini, al loro opposto, geografico e concettuale, c’è l’area di Marina Bay quella parte con i tre grattacieli sormontati da una enorme specie di tavola da surf e accompagnata verso il mare dai Gardens by the Bay, uno spazio verdeggiante disseminato da alberi metallici di varie forme e colori. Giardini futuristici, ma anche tradizionali, grattacieli, mare, la baia, sculture e monumenti: un luogo in cui passeggiare e meglio sopportare il caldo e allo stesso tempo stupirsi, meravigliarsi, allargando gli orizzonti della nostra anima.

Da Marina Bay si può contornare la baia a piedi e raggiungere la foce del fiume Singapore intorno alla quale sorgono palazzi e strutture che rimandano alle origini della città, compreso lo storico Hotel Raffles e il Leone di pietra simbolo della città: Singapura vuol dire proprio “Città del Leone”, termini che si ritrovano nell’area linguistica indiana. Quest’area da un lato presenta i palazzi storici, come il Parlamento, la City Hall, l’Opera, i Musei, mentre dall’altra parte sono sorti grattacieli che esprimono varie particolarità, come la presenza ai diversi piani di veri e propri parchi verdeggianti oppure alla base monumenti particolari che ricordano la storia della città.

Non lontano si trova il vasto quartiere di Chinatown, non diverso da altri simili in tutto il mondo con la differenza che qui si ritrova un’anima originaria perché i cinesi sono parte integrante e decisiva della nascita e dello sviluppo di Singapore. A dimostrazione di un cosmopolitismo “armonico” troviamo il quartiere di Little India con tutto ciò che può caratterizzare una città dell’India meridionale, infatti è la comunità tamil quella più numerosa (il Tamil Nadu è lo Stato indiano in faccia alla Malesia) e anche il quartiere islamico, fondato dalla comunità malese, in cui si respira un’aria meno oppressiva di aree simili in città a maggioranza musulmana.

E come ogni città moderna anche Singapore ha la sua shopping road, dove si possono fare gli acquisti tecnologicamente all’avanguardia o maggiormente alla moda. Orchard Road, come si conviene a una città complessa e moderna, unisce la forma al contenuto e per questo ci sono esperimenti architettonici di vario genere che possono inorridire solo un fan di Le Corbusier. Si tratta di un paio di chilometri tra i resti del Forte e il Giardino Botanico e vale la pena farli tutti perché, al di là degli acquisiti possibili, lo spettacolo, le invenzioni, i colori, i materiali si presentano come un attualissimo museo all’aperto.

Per capire il fascino di Singapore basta pensare che Beatrice si è sentita talmente a casa sua che pensava di frequentare la Facoltà di Medicina di Singapore, idea che poi è stata abbandonata per vari motivi: a Singapore tutti parlano inglese, i trasporti sono diffusi ed efficienti, la pulizia va ben al di là dei sogni, librerie e biblioteche sono diffusissime, le possibilità sportive e culturali (dalla musica classica ai concerti Indie) sono all’ordine del giorno e il cosmopolitismo si respira anche nei quartieri etnici.

E’ ora la volta della Birmania.

 

BIRMANIA

All’aeroporto di Rangoon (Yangoon) nella sala del controllo passaporti si erge una grande arpa birmana dorata. La mia storia nacque una vita fa proprio con questo strumento.

[L’arpa birmana è il titolo della mia prima opera e nasce da un film che ho visto all’età di 7-8 anni: L’arpa birmana di Kon Ichikawa.

Ne è protagonista un soldato giapponese, Mizùshima, che accompagnato da un pappagallo e da un’arpa birmana si è posto, alla fine della guerra, il compito di ritrovare e sotterrare i corpi dei soldati morti in battaglia. Il suono è struggente e il suo viaggio è il viaggio tra la vita e la morte, è il viaggio dentro la propria sofferenza alla ricerca di un senso da dare alla propria esistenza. La musica era struggente e la storia triste: fu un bene vedere quel film a sette-otto anni. Chissà! Successe e su di esso cominciai a costruire il mio destino. Di certo Mizùshima mi volle prendere per mano e accompagnarmi alla vita. Con lui iniziò il naufragio e il pellegrinaggio dentro me stesso e il mondo: lo seguii docile, lo persi di vista, lo incontrai di nuovo quando ritenne che avessi affrontato le prove necessarie e subito il dolore del mondo.

Riconoscerlo fu facile perché troppi segni aveva lasciato dentro di me.

Avevo visto con lui la morte, l’infinito, il dolore, la solitudine e di tutto ciò avevo percepito il senso da bambino: non fu cosa da poco.

Dice un soldato “Torniamo tutti insieme!” e mentre Mizùshima tace e suona, io mi chiedo: tutti chi? e i morti?

Il filo spinato divenne fin da subito la siepe leopardiana.

L’arpa birmana divenne la mia arpa birmana. L’arpa birmana da sempre accompagna il cammino e mi tiene affettuosa per mano.

Cinquanta anni dopo, mezzo secolo passato come Mizùshima a cercare i corpi dei soldati morti allietato dalle note dell’arpa birmana, nasce una bimba. Beatrice. Non sono riuscito a seppellire tutte le spoglie, le spoglie di tutti. Altre guerre sono scoppiate, altri morti ho visto passare sul fiume insanguinato e pure il mio corpo ha subito ferite che ho voluto trasformare in stigmate. Ho sepolto quei corpi, guarito le ferite del mio corpo: non ho ricevuto medaglie né parole di premio. Mi sono nutrito dello spirito che volteggia, immortale eterno infinito, sui corpi e sul sangue, sulle piaghe che gemono pus, sulla terra resa ancora più fertile. E’ questo il mio premio: ambrosia e l’amicizia del Caso.]

La Birmania, oggi Myanmar, è uno Stato che ha una storia imperiale alle spalle avendo spesso cercato di espandersi ben oltre i territori naturali ai lati del fiume Irrawaddy; ne hanno fatto le spese soprattutto gli abitanti del vicino Siam, l’attuale Thailandia, che sono stati più volte vittime di saccheggi persino nella capitale Ayutthaya. Non è un problema razziale, naturalmente, perché la Storia non si fa con moralismo e anacronismo: sicuramente la presenza a nord di una potente Cina, ad est di un forte Siam e ad ovest di pressioni indiane e islamiche permettono di farsi un’idea meno superficiale. Per di più ironicamente va detto che i Birmani, come molti altri popoli vicini, sono di religione buddista che oggi, nell’incubo della cancel culture occidentale, è presentata come una religione di pace.

L’evolversi di dittature militari dopo la Seconda Guerra Mondiale ha incatenato il Paese in un ritardo, sociale ed economico, che non ha caratterizzato nessuno dei paesi confinanti. La cosa curiosa è che i generali birmani che si sono succeduti dal 1962 sono tutti comunisti, legati direttamente o indirettamente al Partito del Programma Socialista (cioè, il Partito comunista birmano), in particolare il primo Ne Win (1962-1988) ha introdotto un sistema collettivista in economia e repressivo nei confronti della società. L’unico sprazzo di luce proviene dal Premio Nobel Aung San Suu Ky, figlia del padre dell’indipendenza nazionale e leader della Lega per la Democrazia (NLD).

Noi abbiamo visitato il Paese nella fase migliore, quella di maggiore liberalizzazione, prima che i generali procedessero a un nuovo Colpo di Stato nel 2021 arrivando all’arresto di Aung San Suu Ky.

Avendo conosciuto molti paesi poco sviluppati in un arco di tempo che va dagli anni ’70 del secolo scorso fino ai giorni nostri ed avendo una cultura di base storico-economica mi sono reso conto dei cambiamenti avvenuti proprio a livello sociale. Nei due precedenti resoconti ho parlato dei paesi visitati in Africa meridionale e della Thailandia.

Rangoon (oggi Yangoon) assomigliava molto alle grandi città asiatiche ed africane della fine del secolo scorso con la differenza che era attraversata da un’energia vitale che si percepiva nel traffico, nelle numerose iniziative commerciali che andavano oltre il classico mercato locale, nella presenza di nuovi edifici, di qualche parco ben tenuto, di un aeroporto ormai aperto in molteplici direzioni. Non era solo la comunità cinese, storicamente sempre indaffarata nel commercio, ma tanti giovani che invece di bighellonare per le strade erano impegnati nelle nuove attività nate dall’apertura dei mercati a livello internazionale e da una maggiore democrazia interna. Si vedevano le tracce del passato, la presenza di quartieri ancora da ristrutturare, ma l’aria che si respirava era quella di un forte desiderio di vita. Anche il turismo aveva ripreso vigore e questo era visibile soprattutto nei centri storici come Mandalay e Bagan, perché a Rangoon, pur essendo la vecchia capitale, non molti sono i luoghi da visitare. Il punto di riferimento è la Pagoda Shwedagon, enorme, con lo stupa dorato, leggermente rialzata in modo da offrire una vista veramente suggestiva soprattutto la notte; una pagoda molto animata perché importante luogo di devozione con strutture minori e affreschi. Un’altra pagoda si trova in centro e leggermente in periferia anche un Buddha sdraiato, mentre possono essere interessanti anche una Chiesa cattolica, la Sinagoga e un luogo di culto cinese, variopinto ma meno imponente. Per il resto c’è una periferia da sfruttare soprattutto se si viaggia nella stagione secca.

A Mandalay si può arrivare in treno e da Mandalay si può ripartire a favore di corrente lungo l’Irradawy. Mandalay è la capitale culturale (e forse anche economica) della nazione. L’elemento distintivo della città è il Palazzo Reale, un enorme spazio con edifici antichi circondato da un quadrilatero di mura accompagnate da un fossato. Esso si trova all’estremità nord ai piedi delle colline dove si incontra un celebre monastero che offre una bella visita sulla città soprattutto al tramonto.

A sud del Palazzo è la vita della città, in parte vecchia in parte moderna, puntellata di numerosi luoghi di culto che ogni guida turistica sa indicare. A occidente la città è limitata dal fiume le cui dimensioni sono tali da aver bloccato lo sviluppo urbano: il fiume è navigabile ed esiste anche un servizio che vale la pena prendere in considerazione almeno per il trasferimento a Bagan. Un’escursione di mezza giornata dal porticciolo della città permette di risalire il fiume fino alle rovine di Mingun dove si trova una Pagoda non portata a termine ma che doveva essere la più grande del mondo: da lontano sembra più una collina che un monastero, di cui però non mancano alcune forme e anche un’enorme campana. Una pagoda luminosamente bianca ne ha fatto le veci ed altri piccoli edifici religiosi sono presenti.

Oltre ai luoghi storici nella città sono di un certo interesse alcuni luoghi della regione, alcuni turistici e altri invece popolati dalla gente del posto. C’è un triangolo che vale la pena visitare a una trentina di km. a sud della città, i cui vertici sono Sagaing, Innwa e Amarapura.

Nelle colline di Sagaing ci sono varie pagode luoghi di culto molto frequentati e che contengono statue e stupa dorati: la vista sul fiume e sulle altre pagode vale da sé l’ascesa.

Innwa è di là dal fiume e, per evitare una lunga strada, si può prendere una imbarcazione che fa il servizio di traghetto regolarmente. Di fatto non esiste un vero e proprio centro urbano e i resti di questa antica capitale birmana sono sparsi nella campagna in un quadrato di circa due km. di lato. Si tratta soprattutto di pagode e monasteri ma anche di palazzi civili, alcuni sono semplici ruderi mentre altri si impongono per grandezza e magnificenza. E’ un luogo archeologico e non presenta l’animazione dei fedeli che si incontra nelle pagode attrezzate per il culto: difficilmente si vedranno monaci, mentre il carattere sparso dei monumenti ne fa un luogo tranquillo, immerso in una campagna coltivata soprattutto a mais e banane.

L’ultimo vertice è dato da Amarapura (La città immortale), anch’essa un tempo capitale birmana prima di passare il testimone a Mandalay. Oggi è un grosso borgo quasi inglobato nella grande Mandalay; è un centro animato dai fedeli per la presenza di un paio di pagode importanti, ma anche un luogo visitato dagli stessi birmani per una realtà molto particolare. Essendo posta sul lato ovest di due laghi, a metà del 1800 fu costruito un ponte di legno teak che è risultato il più lungo al mondo di questo genere, 1200 metri, ed è solo pedonale. Ancora una volta la luce fa la differenza, mentre l’assembramento è la norma.

Chiuso con Mandalay fu la volta di Bagan, a soli 180 km. a sud. Sede di numerosi regni, città tra le più antiche della Birmania crebbe di importanza a partire dal IX sec. d.C. e una delle tante invasioni mongole con annessi saccheggi ne causò il crollo verso il XIII-XIV secolo. Oggi il Regno di Bagan è uno straordinario scenario di stupa dispersi in mezzo alla foresta in un’area enorme di 6 km. di lato: a questo si deve aggiungere una pagoda costruita lungo il fiume che ha lo stupa dorato. Il villaggio (New Bagan) è sorto in relazione al turismo ed è poca cosa, mentre la visita di tutti gli edifici storici risulta impossibile proprio per le distanze. La maggior parte delle strutture ha uno stupa geometrico a scale, molto diverse dalle pagode rotondeggianti che si ammirano a Rangoon e Mandalay e sono nude nella loro essenza, ma sono comunque ricche in decorazioni e fregi convenendo con l’importanza del Regno. L’aspetto forse più caratteristico, a parte l’originalità architettonica, risiede nel panorama verdeggiante da cui spuntano ora qua ora là i numerosi stupa che si ergono come ciminiere.

La tappa successiva è stata la regione orientale di Heho centro della popolazione di etnia Shan. Tre luoghi ci hanno catturato.

Pindaya, a N-E, una quieta cittadina a fianco di un piccolo lago con foreste di montagna, è famosa per la Shwe Oo Min Pagoda posta nei ripidi fianchi di una montagna e che introduce nelle più famose grotte che sono note non tanto per anfratti e secrezioni quanto per la quantità di statue di Buddha (di diverse dimensioni e materiali) collocate come forma di devozione: alcune di queste offerte votive sono state donate da singoli o comunità buddiste italiane. La regione è famosa anche per il caffè e una strana specialità alimentare: le formiche tostate.

Il Lago Inle a Sud è l’occasione per una lunga passeggiata in barca per godersi il panorama e vedere la vita dei pescatori locali che pescano con le nasse, stando in piedi sull’estremità della barca poggiati su un lungo bastone che serve anche per muovere il mezzo. Naturalmente c’è molta fauna avicola lacustre e ci sono molte palafitte, meta delle visite per invitare i turisti all’acquisto di prodotti locali di artigianato. Una caratteristica è la presenza di donne dal collo lungo che il turista deve fotografare per mostrare agli amici il carattere esotico del viaggio: la mia impressione è che si abbia un effetto ottico generato dagli anelli che coprono il corpo dallo sterno al mento dando l’impressione di un allungamento. Parlo delle persone che ci sono state mostrate, non del fenomeno in sé che è antichissimo anche se in forte diminuzione tra i membri della tribù Kayan che ne incarna i valori e che in genere vivono in aree remote.

A Est troviamo infine la città di Taunggyi, a 1400 m.s.m. E’ una città moderna di 200.000 abitanti che oltre ai negozi di elettronica ha un enorme mercato tradizionale con persone che vengono dalle valli più interne a vendere i loro prodotti che esprimono una varietà enorme di frutta, vegetali, pesci, pollame ecc.: dominante è l’odore del durian un frutto straordinariamente dolce ma anche da un profumo intenso di marcio, tanto che in molti locali è proibito portarne esemplari. Nella regione si produce anche dell’ottimo vino di uva, cosa non comune a queste altezze e soprattutto latitudini.

Da un punto di vista turistico a un’ora di auto da Taunggyi si trova Kakku un gioiello di sacra devozione: 2.468 stupa di varie dimensioni, da 2 a 40 metri, accatastati una accanto all’altra di diverse forme e anche materiali; il tutto raggruppato in un’area di un solo kmq.

Il ritorno a Rangoon avviene nella pioggia monsonica, battente e insistente: è la volta di tornare a Singapore per andare in Malesia.

 

 

MALESIA (due cose)

 

Tra arte, cultura e paesaggi il viaggio previsto si presentava abbastanza impegnativo, per cui era necessario trovare un luogo di relax per alcuni giorni e naturalmente, visto dove eravamo, abbiamo scelto di passare qualche giorno in un’isola tropicale. Per la questione dei monsoni la scelta era sul lato orientale e, dato che anche su quel lato, molte sono le isole abbiamo deciso di andare alle Isole Perhentian in Malesia. Scalo nella capitale Malese Kuala Lumpur, arrivo nella costa a Kotha Bahru, quasi al confine con la Thailandia, e discesa verso l’imbarco per le isole. In questo modo avremmo approfittato degli scali a Kuala Lumpur per una visita della capitale che sarebbe stata la rampa di lancio verso l’ultima tappa, l’India.

Le Isole Perhentian sono un piccolo arcipelago a nord-est della Malesia, con due isole maggiori, Grande e Piccola Perhentian, ma solo sulla piccola esiste un modesto villaggio di pescatori con tanto di Moschea. Alcune isole sono del tutto disabitate mentre nelle due principali ci sono modeste sistemazioni per turisti, non veri e propri villaggi turistici. Sole e mare sono stati i temi del nostro soggiorno. Il sole sotto le palme come nelle migliori cartoline di genere e il mare tipico tropicale, caldo celeste trasparente ricco di fauna. E’ stato così possibile fare delle escursioni marine in diversi ambienti che ci hanno permesso, attraverso il semplice uso di maschera e boccaglio (snorkeling), di osservare i coloratissimi pesci tropicali e le rocce coralline dalle forme variegate, ma anche tartarughe marine di diverse dimensioni. Non esistendo strade i movimenti si sono realizzati solo in barca o a piedi lungo la costa, permettendoci di esplorare la flora e in parte anche la fauna, dominata soprattutto da un notevole numero di comunità di scimmie.

La costa continentale si trova a poco più di un’ora di barca a motore ed è poco urbanizzata ma ricca di coltivazioni che vanno dagli alberi da frutta (ananas e banane) a vegetali come il mais.

 

Ed eccoci a Kuala Lumpur. La capitale si presenta con due facce, quella classica di grosso borgo con case semplici e tradizionali e quella ipermoderna frutto di uno sviluppo economico non recente ma che si è intensificato grazie alla globalizzazione.

La prima area è quella storica con pochi punti di reale interesse, soprattutto intorno a Merdeka Square (Piazza della libertà) con il Palazzo del Sultano e un paio di moschee, il mercato (Pazar), la cattedrale di S. Mary e Chinatown. Essa presenta i classici negozi con prodotti ordinari soprattutto di abbigliamento e dove gli uomini camminano con i vestiti anni ’50 separati dalle donne con i tuniconi e il velo e dove un solo, storico ristorante, il Coliseum Café, ha il permesso di vendere alcolici.

La seconda area si trova al di fuori di questa ed è simboleggiata dai due celebri grattacieli delle Torri gemelle Petronas con 88 piani e un ponte sospeso, che con i suoi 452 metri sono state fino a poco tempo fa tra gli edifici più alti del mondo: lo stile e i materiali usati rappresentano la modernità della struttura mentre il parco che è stato creato davanti rende il luogo ancora più interessante. In questa e in altre zone meno centrali Kuala Lumpur è cresciuta anche in altezza e si presenta con lo skyline tipico delle metropoli contemporanee: sedi di multinazionali, alberghi delle catene più famose, strade di scorrimento nuove e numerose, una nuova stazione centrale, un sistema di trasporti che si cerca di rendere più efficiente anche in chiave turistica.

Tra le località che abbiamo apprezzato maggiormente è stata Batu Caves a 15 km. dal centro della città: l’interesse per questo sito è dato non tanto dalle Grotte quanto dall’essere un importante luogo di devozione induista con una lunga scalinata alla base della quale c’è un’enorme statua di Lord Murugan (aka Kartikeya) dio della guerra induista. La statua dorata è alta 43 metri ed è preceduta dal classico tempio induista a gradoni pieno di immagini multicolori e crea una visione d’insieme molto suggestiva e fotogenica. Il luogo è punto di pellegrinaggio per gli induisti di tutto il mondo, ma in particolare per la popolazione tamil che considera Murugan come il suo dio protettore. E’ possibile raggiungere il luogo anche col treno che ovviamente è un po’ più lento: nel raggiungere la stazione si può vedere una statua grande di un altro personaggio importante del poema epico Ramayana e dunque della religione induista, Lord Hanuman, uomo scimmia dal classico colore celeste.

 

La Malesia è un paese eterogeneo ma a maggioranza malese islamica, circa la metà della popolazione; ci sono poi un quarto di cinesi e un quarto tra tamil e indigeni. Pur non raggiungendo la rigidità riscontrata in altri paesi l’islamismo ha inasprito i toni cercando di imporsi sempre di più anche a livello pubblico come avviene negli aerei della compagnia di bandiera (MAS) che propongono una preghiera prima del decollo. Nonostante questi aspetti le popolazioni vivono in maniera abbastanza armonica anche se ci sono attriti ricorrenti con la comunità cinese che è presente però nella penisola da molti secoli. Da ricordare infine che nella Federazione Malese sono presenti anche regioni che si trovano fuori dalla penisola e precisamente nella parte settentrionale della grande isola del Borneo.

 

Finita l’escursione malese ci aspetta il volo per l’India, direzione Nuova Delhi.

 

INDIA (Da Delhi a Calcutta a Madras)

Delhi è una città che conosco abbastanza bene, come l’India in generale; un tempo me la cavavo con l’hindi e avevo cominciato un mio libro con una frase in hindi rivolta ai miei studenti. L’arrivo nella capitale in una fresca notte serena ha risvegliato i ricordi soprattutto grazie alla lingua e ai profumi. A differenza di moltissime aree geografiche l’India si riconosce per i suoi odori, difficilmente identificabili ma sempre pregnanti; non parlo solo degli odori del cibo che non esisterebbe senza le centinaia di spezie spesso mescolate in curries sapientemente miscelati, parlo infatti anche dei profumi delle piante, degli odori delle fogne e dei tubi di scappamento. Quella sera però i profumi dominanti erano quelli del cibo e delle piante. Il nostro hotel era a Nuova Delhi e il trasferimento fu estremamente piacevole perché tranquillo, silenzioso e profumato.

Anche l’India come molti paesi meno sviluppati ha goduto dei vantaggi della globalizzazione, favoriti dalla conoscenza diffusa dell’inglese e da un sistema pervasivo di trasporti ferroviari la cui struttura di fondo fu creata durante la dominazione coloniale. E così sapevo che anche l’India ci avrebbe offerto un mix di modernità e tradizione.

La modernità si vede subito appena usciti dall’aeroporto con la presenza del metro e si scopre che è stata realizzata una rete di linee che copre tutta l’area urbana in un cerchio di 25 km. di raggio e per un totale superiore ai 200 km. Per la tradizione avrei dovuto aspettare il giorno dopo in occasione della visita turistica.

Ed eccoci nella Old Delhi, la città che non è cambiata nei secoli e che mai cambierà; qui il turista incontra l’India storica e antica, perché anche l’umanità che la percorre è antica. I monumenti più noti sono l’immenso Forte Rosso impressionante per la sua struttura ma anche interessante per gli edifici interni, ricchi di motivi decorativi; la Grande Moschea fondata nel XVII secolo durante l’Impero Moghul, uno spazio di grande pregio e interesse architettonico che vede purtroppo rovinata la visita dai guardiani all’ingresso che mostrano disprezzo per gli infedeli; il tempio giainista dalle cupole particolari, la Chiesa di San Giacomo e numerosi edifici che ricordano il glorioso passato di questo vero e proprio centro dell’India.

Ciò che colpisce però di Old Delhi è il brulichio della gente che per i più diversi motivi della vita quotidiana inonda le strette strade della città vecchia. Pedoni, ciclisti, moto, bajaj, auto, carretti tutti si muovono freneticamente cercando di avanzare senza che il cammino venga interrotto: le auto devono segnare il passo, mentre la meglio ce l’hanno i motociclisti (spesso in sella alle nostre Vespe) che riescono a sgattaiolare nel turbinio umano che popola la città. Bajaj è il nome della ditta che produce questo mezzo, altrove chiamato tuk tuk, e non è altro che un’italianissima Ape riadattata a mini-taxi. Resistono ancora i rickshaw a pedale che trasportano anche tre persone, soprattutto locali, e cumuli di masserizie in uno sforzo che ci appare incredibile e che per fortuna è mitigato dalla pratica inesistenza di salite, sebbene anche un piccolo dislivello imponga l’intensificazione dello sforzo. Appena la strada si allarga, ad esempio verso il Forte, le auto non le ferma più nessuno e i taxi sono ancora quelli di 40 anni fa, le vecchie Ambassador di produzione della Hindustan Motors sulla base della Morris inglese e anche le nostre Fiat 1100, di minor prestigio e dimensione, ma leggermente meno vecchie.

Guardando meglio tra la folla si vede di tutto, una sintesi del carattere multietnico della città, i sikh col turbante, le donne islamiche con il velo, le donne induiste con il sari, giovani vestiti all’occidentale, uomini di mezza età vestiti come ragionieri degli anni ’60, altri giovani in giacca, cravatta e 24 ore, anziani con barba, baffi, lunga capigliatura e tonaca bianca dai lunghi gambali, gente più scura e minuta proveniente dal sud, pochi orientali, qualche giainista con la mascherina per non mangiare inavvertitamente qualche insetto. E poi i negozi, anche lussuosi, che vendono, ognuno nella propria specializzazione, spezie, saponi, dolciumi, argento, oro, vestiti e tessuti per il classico sari, oggetti sacri. Leggermente in lontananza il mercato quotidiano, di frutta verdura animali acqua bibite, ma anche di pezzi di ricambio per motori e biciclette e poi piccoli ristoranti con piatti saporiti cucinati in pentoloni e venduti in ciotole ai venditori e ai compratori. E’ l’India antica che ho conosciuto nel sud o nel Rajasthan o a Bombay o nei vari stati centrali decine di anni fa e che è la stessa che sempre molti anni fa si agitava nelle stesse strade di Old Delhi.

In India la tradizione è immortale e non riguarda solo la religione e non è limitata alla Città Vecchia, perché essa è presente anche nella parte nuova, anche se qui, a New Delhi, l’evoluzione è visibile e ben marcata e domina la modernità, non la modernità che le ha meritato il nome, ma la modernità contemporanea, quella della globalizzazione e della rivoluzione informatica.

C’è la Nuova Delhi che fu decisa e progettata all’inizio del 1900 per sistemare il Centro Amministrativo e c’è la Nuova Delhi degli ultimi decenni che, approfittando del progetto urbanistico iniziale che lasciava molto spazio al verde e ad ampie vie di comunicazione, si è dotata delle strutture tipiche delle metropoli, dai grattacieli ai locali di svago a una nuova stazione ferroviaria adatta anche all’Alta Velocità che ha cominciato i primi passi. L’interesse per Nuova Delhi ci riporta alle sue origini: mentre la piazza circolare di Connaught ha perso la sua importanza di fronte ai nuovi centri economici, a parte il vicino mercato di artigianato, l’area circostante la Porta dell’India rimane di grande attrattiva. Il lunghissimo viale di avvicinamento alla Porta e oltre, gli edifici istituzionali e i musei, e anche lo zoo per gli appassionati, edifici religiosi e giardini, mentre sul viale monumentale (il Kartavya Path ) famiglie indiane si ritrovano per orgoglio nazionale e centinaia di venditori di gelati, pop corn, dolciumi, bevande aspettano i loro sicuri avventori. A New Delhi la modernità passa anche attraverso il traffico, intenso ma ordinato e soprattutto caratterizzato da modelli di auto che troviamo nel resto del mondo.

Ai margini sud occidentali un’eredità del passato, il Qutab Minar, complesso islamico del XIII secolo, mentre ai margini sud orientali una testimonianza del presente, il Tempio di Loto della comunità Baha’i, che ricorda l’Opera di Sydney ed è uno dei centri di meditazione più importanti della religione baha’i.

Delhi è bagnata dal fiume Yamuna, così come Agra, e il fiume è il più importante affluente del fiume sacro, il Gange, che troveremo a Benares e qualche chilometro a nord di Calcutta.

Ad Agra ai lati dello Yamuna sorge il Forte Rosso di dimensioni non molto minori rispetto a quello di Delhi e sempre frutto della dinastia Moghul che avrebbe voluto spostare la capitale ad Agra. Al di là del Forte però si viene ad Agra per il Taj Mahal. Considerata spesso una delle nuove sette meraviglie del mondo è sicuramente un luogo impressionante a tutti i livelli, del corpo come dello spirito.

Una fotografia del Mausoleo è di per sé stimolante e per questo la visita di persona produce un effetto difficilmente riscontrabile di fronte ad altri monumenti. Sono stato ad Agra in diverse fasi della mia vita e a distanza di anni: l’ambiente non è mai mutato e mi ha provocato sempre lo stesso effetto. La geometria delle linee, il colore dominante, il marmo che è il materiale usato, la presenza di indiani e non solo di musulmani, soprattutto le famiglie che considerano il Taj Mahal una dedica alla famiglia, ricordando che fu eretto dall’Imperatore Moghul in onore dell’amatissima moglie. Anche chi non ama le geometrie regolari non può rimanere indifferente da questo gioco di spazi, di linee di fuga, di alberi e corsi d’acqua che creano effetti visivi riposanti. Lo stesso vale per l’edificio simmetrico nella composizione di quattro alti minareti laterali che proteggono a distanza la costruzione centrale a cipolla con due cupole simili più piccole. Il colore bianco e il levigato del materiale contrasta con i coloratissimi e movimentati templi indù, mentre l’insieme si riflette sul corso d’acqua che gli sta davanti. Non mancano le decorazioni e le nicchie che evitano che il monumento assomigli a una massa piena: con queste caratteristiche il Taj Mahal costruito in alto rispetto al fiume apre la vista e la mente al cielo infinito, come la siepe leopardiana.

Il treno nella notte sferraglia lungo il fiume Gange e a metà mattina arriva a Benares (Varanasi), la città sacra per eccellenza, il luogo dove vengono bruciati i corpi e gettate le ceneri perché le sue acque sono sacre e i pellegrini oltre a bagnarvisi ne portano un po’ a casa: non c’è l’obbligo dei musulmani per La Mecca, ma similmente ogni induista cerca di raggiungere il fiume in questa città per compiere quello che sente come un dovere. Qui si respira l’aria della vecchia India, non quella dei decenni passati né quella dei villaggi più isolati, ma la vecchia India tenuta in vita per il pellegrinaggio e per l’illusione turistica. La città è confusa e caotica, non animata; la città non ha i profumi delle spezie e dei fiori, ma il puzzo di escrementi e roba marcia; la città ha i suoi luoghi rituali e di pellegrinaggio, ha i santoni per le esigenze del caso e per fregare qualche turista troppo rispettoso, non ha molti negozi e in compenso ha un numero esagerato di bajaj altamente inquinanti in un tessuto urbanistico ridotto e dalle strade strette.

Se però si esce dalle strade e si scende sulle rive del fiume l’atmosfera cambia; un giro in barca poi lungo acque placide permette di cogliere dalla dovuta distanza e senza la corruzione dell’immediato il carattere di questa città che ci è lontana per cultura ma che si riconnette a noi per il senso di morte che la anima e per la presenza di pellegrini dallo sguardo sereno. Molti europei vanno a Benares convinti che sia un luogo di spiritualità senza conoscere la profonda anima materialista che caratterizza la religione induista così come espressa dalle stesse divinità e dai suoi fedeli: il tutto si risolve nella recita di un mantra e nello sguardo perduto di chi guarda con indifferenza la morte. Basta però incontrare qualche giovane credente che viene qua con la famiglia per un senso di appartenenza ma che veste in modo moderno e ama parlare con chi viene da fuori e allora si comprende quanto sia teatrale ciò che anima questa città: non c’è nulla di male, ma come ogni opera letteraria anche questa ha valore solo se ci aiuta a fare i conti con noi stessi.

Un’altra notte in treno, sempre lungo il Gange, per arrivare a Calcutta, oggi Kolkata, bagnata dal fiume Hougli strettamente interconnesso con il Gange che ha ricevuto le acque del Brahmaputra dando vita ad un bacino idrico immenso, frutto delle alte vette himalayane e dell’alta piovosità soprattutto monsonica. Calcutta è una metropoli e non è più la città di Santa Teresa, la città che negli ultimi decenni del secolo scorso contava ogni mattina per le proprie strade decine e decine di morti. Il clima e la storia hanno lasciato una città grigia, ma che sta risorgendo come la maggior parte delle città indiane. Nuovi ponti collegano le due parti, gli assetti stradali permettono una migliore circolazione che non significa traffico ovunque scorrevole, ma la città ora è in grado di offrire servizi, anche turistici, che permettono migliori condizioni di vita. Non ci sono grandi monumenti, se non un paio di Templi e Musei, uno dei quali ha sede nel Victoria Memorial un bell’edificio all’interno di un parco dove la gente si ritrova. Per apprezzare la città occorre avere pazienza e essere disposti a spostarsi a Nord come a Sud anche di parecchi chilometri: fuori città, o meglio ai suoi margini, si trovano oltre a importanti templi induisti anche luoghi storici come la Missione di Ramakhrishna, la casa di Tagore, la Cappella di Madre Teresa e il Palazzo di marmo. Una visita interessante per entrare più in contatto con un aspetto importante della vita e della sensibilità della città è Kumartuli, un quartiere di stradine tutto caratterizzato da officine dove si costruiscono gli idoli delle numerose divinità da portare nelle processioni più importanti dei Festival dedicati a Durga e Kali. Si tratta di veri e propri artisti che lavorano soprattutto sul gesso per procedere poi alla colorazione.

Come Delhi anche Calcutta è entrata nel XXI secolo ma a differenza di Delhi, in cui Old e New risultano abbastanza separate, Calcutta mantiene un suo fascino particolare in cui si coglie un Vecchio che, pur rimanendo tale, si sta trasformando in un Nuovo che, se escludiamo Sud Calcutta, non si è ancora compiuto. Possiamo goderci con l’occhio attento e l’anima pronta questo processo come se lo percepissimo al rallentatore: non c’è nulla di meglio per un viaggiatore.

Tappa successiva, dopo sei ore di treno verso sud, è Bhubaneswar capitale di Orissa. Siamo ad est ma ancora troppo a Nord, per cui i monsoni si fanno sentire, meno che ad ovest ma il sole lascia spazio a piogge anche intense e il mare, altrimenti favorevole, non permette il bagno.

Bhubaneswar è chiamata la città-tempio perché ha oggi più di 50 templi (un tempo erano un migliaio) risalenti al XII e XIV secolo, molto caratteristici, decorati e scolpiti, ma anche semplici nella struttura a pannocchia che risente di influenze buddiste (vedi alcuni templi tailandesi) e giainiste (vedi i templi di Delhi). Questa tipologia è tipica della regione ed è dunque un luogo da non perdere. Non lontano dalla capitale ci sono due centri che vanno messi in conto: Kornak e Puri.

Kornak offre il Tempio del Sole, massiccio edificio geometrico, ma riccamente decorato con scene di vita quotidiana comprese alcune sculture di contenuto erotico. Esso celebra la vittoria indiana contro i dominatori musulmani. Nel basamento si affermano grandi ruote di carri, quella tipologia che ritroviamo nella bandiera indiana, la Ruota di Ashoka, imperatore indiano che ha regnato nel III° sec. a.C.

Puri è una città viva con un tempio sempre pieno di pellegrini e che non permette l’accesso ai non induisti. Da fuori, soprattutto dalla terrazza della Biblioteca, la vista sul Tempio e la enorme piazza circostante è impressionante: colori, suoni, profumi, luci, grida, carretti bajaj camionette che strombazzano perché la parte antistante al tempio è raggiungibile solo a piedi. Le dimensioni della piazza e del tempio sono comprensibili se si pensa che Puri è il centro di uno dei più importanti Festival induisti, il Rath Yatra (Festival del carro) in onore di Jagannath, incarnazione di Vishnu. Il Festival raduna migliaia di pellegrini che in un’atmosfera tra l’incantesimo e l’ossessione danno vita a danze in mezzo a carri colorati.

E’ giunto il momento dell’ultima tappa: il Tamil Nadu, lo Stato all’estremità sud-orientale che trae il nome dalla popolazione Tamil, l’altro nucleo della popolazione indiana. Anche fisicamente gli abitanti sono facilmente riconoscibili, per il colore scuro della pelle e dimensioni più modeste, rispetto ai cugini ariani del Nord, più chiari e massici; questi sono gli indoeuropei, i nostri antenati, anche per la lingua (il sanscrito), mentre il tamil è una lingua completamente diversa, appartenente alla famiglia dravidica come le altre lingue del Sud India. A parte questa disquisizione il Tamil Nadu vede la presenza di una città importante, Madras (oggi Chennai), di un centro storico di grande valore, di un residuo coloniale francese e di un centro idealistico ma funzionante.

Andiamo in ordine.

Madras è in grande fermento e negli ultimi decenni ha perso il carattere di grande borgo confuso tipico dell’India e si è trasformata in una moderna metropoli che ha saputo mantenere la sua storia attraverso l’incontro di molti e diversi aspetti. Non c’è moltissimo da vedere, ma alcune cose valgono il nostro interesse. Il Forte S. George costruito dagli inglesi, la chiesa cattolica di San Tommaso fondata dai Portoghesi, il tempio del quartiere di Mylapore coloratissimo e animatissimo di statue e pellegrini, la lunghissima spiaggia di Marina che si popola di famiglie e carretti di venditori, la casa del mistico indiano Vivekananda, principale discepolo di Ramakrishna.

Aggiungerei le Stazioni ferroviarie, essendo la città un nodo importante nel sistema dei trasporti indiano.

Da Madras a Mamallapuram, ancora più a sud. Da un lato il mare dall’altro i monumenti, che sono la traccia dei suoi antichi splendori essendo stato il porto principale del Regno di Kanchipuram (III°-IX° sec. d.C.) che ebbe contatti con la Cina e con Roma. Qui si trovano templi scavati nella roccia, sculture imponenti, statue e templi tutti risalenti al primo secolo dell’era cristiana.

Ancora più a sud è Pondicherry, colonia francese fino al 1954, città quieta e riposante, almeno nel suo centro, con strade larghe e alberate e un tranquillo seppur molto frequentato lungomare. Naturalmente la presenza francese si nota e con essa anche alcune chiese cattoliche come la Chiesa dell’Immacolata e la chiesa del Sacro Cuore. In città c’è anche l’Ashram di Aurobindo, filosofo e mistico indiano, considerato dai discepoli, incarnazione dell’Assoluto.

Le tracce però più importanti lasciate da Aurobindo si trovano nella vicina città nata dal nulla di Auroville.

La città fu fondata nel 1968 da una discepola di Aurobindo e le fu dato il nome di Auroville sia in onore del maestro sia perché la prima parte del nome è Aurora, tanto che in inglese è chiamata “The City of Dawn”, la città dell’aurora. In essa abitano circa 3.000 persone da decine di paesi con l’obbiettivo di vivere in armonia tra le persone nel rispetto reciproco. Naturalmente risente dell’epoca in cui fu fondata, una specie di incarnazione dello spirito di quegli anni ed è riuscita a convincere un certo numero di persone: anche nella sua struttura architettonico-urbanistica esprime le geometrie circolari un po’ psichedeliche di quegli anni. La città si trova a 10 km. da Pondicherry e vive di artigianato e di agricoltura organica; essa è oggetto continuo di visite, molti turisti, molti curiosi, molti nostalgici. Non circolano auto e un pulmino porta dal parcheggio all’ingresso della città; la zona residenziale ha un diametro di 2,5 km. mentre l’area che include la circostante parte agricola misura 5 km. di diametro. Una visita è piacevole e ha il merito di confrontarci con una parte dell’umanità che è sempre dentro di noi. La presenza di turisti ha fatto sì che immediatamente fuori dalla città si sia moltiplicato il numero di baracche di indiani che vendono souvenir. Tornati sulla strada litoranea si può fare un bagno nell’Oceano ondoso mescolati ai ragazzi e alle famiglie del posto.

Il ritorno a Madras completa la visita, piacevole soddisfacente interessante, e il ricordo della mia precedente esperienza, quando riuscivo a leggere i caratteri tamil, è privo di nostalgia e rimane arricchito da un uomo uguale e diverso e dalla presenza di Daniela e Beatrice.

Il viaggio termina nuovamente a Singapore, scalo a K.L. con il sorriso nel cuore.