APPUNTI SULL’ESTETICA:IMPOSSIBILITA’ DI UN ORIZZONTE

 A Beatrice, che chiede e non si accontenta

PERCHE’

Mi accingo a scrivere questo breve saggio perché Beatrice mi ha messo alle strette, chiedendomi perché ce l’avessi così tanto con “l’estetica”; ho cercato di abbozzare una risposta, ma ho compreso che non bastavano poche parole e qualche esempio per soddisfare la richiesta. Beatrice ha svelato un tema che tutti danno per scontato e che anche io seppur in senso opposto davo per scontato.

Avevo dato per scontato che la risposta al tema “estetica” era già nell’affermare che il senso della vita rinvia alla costruzione, decisa e responsabile, della propria persona. Come su tanti altri aspetti che hanno contribuito alla mia conformazione, anche su questo ho creduto che analisi approfondite, uno scavo continuo e profondo, fossero sufficienti per far comprendere non solo ciò che intendevo, ma anche il percorso che mi aveva portato a quelle considerazioni. C’è voluta Beatrice che non si è limitata a dire “non capisco”, ma ha preteso da me delle spiegazioni, proprio nel senso etimologico di ex-plicazioni, apertura del plico, di qualcosa che è piegato e dunque di portare alla luce degli occhi e della mente pagine che non si riusciva a leggere.

Come avviene per ogni parola che ha dietro di sé un universo di vita, e non è un semplice nome delle cose, anche l’estetica ha bisogno di essere sottoposta a una determinazione complessa che, a differenza di quanto succede per un’analisi di tipo deterministico, non avviene creando una specie di diagramma di flusso che individui stepbystep un percorso. E’ necessario infatti un continuo rivolgimento e riavvio dei processi dove il tempo e lo spazio (in questo caso la parola o il concetto) esulano da una prospettiva lineare. Si tratta di concepire una specie di caos, imprevedibile e imprescrittibile, ma all’interno di un orizzonte che ammette movimenti in molte direzioni non ipotizzabili e tanto meno non prevedibili nel momento di inizio.

UNA PREMESSA

Intanto non esiste un vero e proprio momento di inizio e la partenza, il punto di avvio è solo un’approssimazione che però è densa e non è mai “il punto zero”. Abbiamo vissuto la nostra vita, l’abbiamo costruita e ci siamo con-formati interrogandoci su vari aspetti e fornendo risposte a cui non sempre ci affidiamo ciecamente, quando ad un certo punto decidiamo di soffermarci su una parola-concetto, ad esempio “estetica”, e cominciamo ad andare più in profondità, credendo talvolta che troveremo un fondo in cui fermarsi. Quello sarebbe “il punto zero”, ma in realtà in quel momento il punto è tutt’altro che zero e lo occupiamo con tutto ciò che siamo, pre-giudizi nel senso di Gadamer, più o meno solidi, più o meno formati, non necessariamente coerenti, non doverosamente e in modo ordinato organizzati.

E(0) è il momento della nostra nascita, E(1) è il momento in cui abbiamo deciso di riflettere sull’estetica, E (n) è questo momento in cui sto scrivendo e quando cerco di fornire un quadro ancora più com-prensibile (almeno secondo me) di questo approfondimento.

Se pensiamo che le montagne non siano né triangoli né piramidi, cioè pensiamo che la realtà sia complessa, anche quella che chiamiamo estetica è necessariamente un termine-concetto complesso e questo vuol dire che non possiamo prescindere da due dimensioni che ci appartengono e ci determinano, lo spazio e il tempo. Il divenire non è una categoria metafisica ma è ciò che più ci caratterizza, nell’adorare uno o più dei, nel creare miti, nel riconoscerci esseri razionali, nello scoprire limiti in questa nostra razionalità. Allo stesso tempo lo spazio ci modella e noi lo modelliamo, costruendo barriere, scavando canali, distruggendo e ricostruendo città, godendo del clima che ci è dato in sorte e anche maledicendolo, invadendo territori che altri ritenevano e dichiaravano suoi.

Insomma diveniamo, nello spazio e nel tempo.

L’ESTETICA E CIO’ CHE PENSIAMO

Non mi interessa qui ripercorrere la storia dell’estetica che troviamo in molte pagine anche liceali, ma delineare il punto di partenza E(2022) allargando lo sguardo e allo stesso tempo incorporando l’oggetto in una rete più ampia, una rete che in quanto tale non è lineare, ma che deve necessariamente essere provvisoria non per limiti conoscitivi ma per la natura stessa di tutto ciò che rientra sotto la voce vita.

Se è oggi che scopriamo la complessità del mondo e dell’essere umano, non vuol dire che l’uomo primitivo non fosse complesso, semplicemente il livello di complessità che lo caratterizzava era meno complesso del livello che ci caratterizza oggi: non solo la comprensione del mondo e della vita si è fatta più complessa e per questo ci siamo dati strumenti più complessi, ma lo stesso mondo e la stessa vita sono diventati più complessi. Al di là delle diverse ipotesi sul riscaldamento globale, anche il mondo naturale si è fatto più complesso: i vulcani agiscono oggi come un tempo, ma allora interagivano solo con elementi “naturali” mentre oggi interagiscono anche con elementi “umani”, per giunta sempre più vari e numerosi.

Tutto questo per dire che non può esistere un approccio unico all’estetica, indipendentemente dal fatto che i Greci dicevano una cosa e i Romantici un’altra, indipendentemente dal fatto che ci si voglia concentrare sull’individuo o sulla società, sulla bellezza e l’arte o sulla bellezza in generale. La complessità nell’ambito dell’estetica non è diversa dalla complessità in ambito meteorologico o informatico e in questo senso se vogliamo parlare di estetica dobbiamo tener conto di molteplici e diverse strade che là vanno o da là si dipartono.

Nello studio di fenomeni (anche parole) normalmente si individua un punto e si procede seguendo una linea di collegamento: da a si individua b, da b si arriva a c e così via procedendo per causa-effetto, quella che si chiama logica.

Qui procederò diversamente. Analizzerò separatamente tutti gli aspetti che mi collegano, in entrata e uscita, alla parola. In tal modo il collegamento non potrà essere lineare, ma dovrà essere reticolare e spesso con reti di reti.

In genere si fa risalire il termine estetica al 1750 in ambito tedesco; eppure la parola è greca e deriva da “sensazione” e “percezione attraverso i sensi”, per questo poi sono nate parole come esteriore, esterno, cure estetiche, che indicano ciò che è fuori: i sensi ci mettono in contatto con ciò che è fuori. Stabilire un nesso diretto tra questi due momenti è solo una pretesa, qualcosa che non ha una giustificazione in sé, perché quei due momenti non solo sono lontani nel tempo e nello spazio, ma sono stati formati, con-formati, ri-formati e trans-formati da eventi di ogni genere (materiali e spirituali, per semplificare). E’ qui che dobbiamo indagare, ma non in senso cronologico bensì partendo dall’oggi, operando movimenti in avanti, retroattivi, ricorsivi, trasversali.

Estetica oggi parla di bellezza e di arte. Tra i greci, i tedeschi e i contemporanei c’è stato un salto che impedisce un’analisi lineare, tanto meno deterministica.

Fino al 1800 circolavano affermazioni di estremo soggettivismo del tipo “de gustibus non est disputandum” oppure “ogni scaraffone è bello a mamma suia”, ma si trattava di espressioni di ceti subalterni, mentre le classi dominanti esprimevano valori assoluti, che erano necessariamente la cifra del loro potere. Il potere si manifestava come potenza, ma anche come valori, elementi che valgono e che sono la bandiera del potere.

Le terre da sottomettere, i valori da far rispettare, i canoni di bellezza cui adeguarsi, le opere d’arte da favorire sono tutti aspetti di pertinenza del “Principe” e delle classi dominanti.

Questo modo di vedere e vivere le cose è andato sempre più incrinandosi soprattutto quando e dove si è creato un universo aperto che ha rotto quello chiuso, costruito all’inizio, per necessità di conservazione, una conservazione che dava per scontato un principio, quello della guerra, per cui, se occupo un pezzo del tuo territorio, è più difficile che tu occupi parte del mio. Volontà di potenza molto materiale.

Il Cristianesimo ha messo in crisi quell’universo e la scienza moderna e lo Stato di diritto hanno approfondito quella frattura: processo non lineare, spesso realizzato con obbiettivi diversi, attraverso confusi e tormentati movimenti. A distanza di secoli siamo in grado di vedere questo percorso, ma abbiamo rinunciato a prevederne le tappe successive determinando i contorni del futuro.

In questo turbinio di tempi, dal paleolitico all’affermazione della scienza, passando per tutte le strade e i tempi che vogliamo (Egizi, Greci, Cartaginesi, Romani, Arabi, Mongoli, Turchi, Giapponesi….) si è preparato quello che rappresenta il salto decisivo che porterà con sé una molteplicità di trasformazioni che obbligano a usare metodi nuovi e orizzonti diversi.

Quel salto è rappresentato dalla nascita della Società di massa che supera la radicale dicotomia tra classi dominanti e classi subalterne. La diffusione dell’alfabetizzazione, della scuola di massa, della libertà di pensiero e di comunicazione, di Stati di diritto, di mezzi di comunicazione sempre più complessi ha ricucito in modo crescente quella frattura segnando di fatto un salto decisivo. E’ chiaro che rimangono differenze di reddito, di fatica, di potere, di soddisfazione, di riconoscimento, ma -come verificato negli ultimi anni- ogni individuo ha la pretesa di un riconoscimento per ciò che dice o fa. “Questo lo dice lei” disse una grillina al Ministro Padoan Prof. Universitario; “Uno vale uno” fu la parola d’ordine dei 5stelle; il merito continua ad essere combattuto ampiamente; i movimenti “woke” e “cancel culture” riconducono le differenze su un piano razziale ed etnico. Tutte cose che, prima del 1800, avrebbero suscitato grandi risate presso i lettori o, in casi peggiori, prigione e torture.

Società di massa. In un rapporto ricorsivo, più o meno negli stessi anni, si verifica un salto anche nel campo della Scienza e dell’Arte. In un’analisi storica ci troviamo sempre ad affrontare momenti di continuità e momenti di rottura, ma queste realtà non sono mai definitive e ciò che in un primo tempo fa pensare alla continuità, poi decidiamo per la rottura. Gli esempi sono numerosi e ricorrenti. Pensiamo al Decadentismo per molto tempo identificato come una continuazione del Romanticismo oppure la rottura del Romanticismo rispetto all’Illuminismo, ricondotta in termini più vicini da Gadamer, o ancora la rottura tra Scienza del 1600 e la coeva poesia barocca, per secoli posti agli antipodi.

Ciò avviene soprattutto perché siamo noi a cambiare e dunque vediamo i fenomeni con occhi diversi e metodi nuovi.

 Dicevo Arte e Scienza.

L’Arte da sempre era considerata come imitazione della realtà; a partire dalla metà dell’Ottocento essa svolge un ruolo completamente diverso, che nega il carattere oggettivo della realtà sia che la si concepisca come epifanica sia che se ne riveli il ruolo di creazione. Tutta la poesia e il romanzo moderno vanno in questa direzione e lo stesso avviene anche nelle arti figurative, soprattutto in campo pittorico.

La Scienza si è sempre caratterizzata come conoscenza (latino: scire) arrivando ad una precisa definizione nel 1600 che per i risultati ottenuti si è identificata sia come Scienza Moderna sia come la Vera Scienza: essa si basa su leggi assolute, sull’esperienza, su un metodo ben preciso e tutto ciò permette la previsione, partendo dal presupposto, comune anche all’Arte, che la realtà sia oggettiva. A partire dalla fine dell’800 questa visione comincia ad entrare in crisi, una crisi che prosegue fino ai giorni nostri procedendo a una continua sfaldatura di quei paradigmi considerati assoluti e universali. La fisica quantistica ha dato una forte picconata e successivamente è il tema della complessità che fornisce un quadro di riferimento completamente nuovo e diverso.

Società di massa. Arte di creazione. Scienza della complessità.

Proviamo a pensare questi tre momenti nella loro interconnessione e così ci rendiamo conto meglio di cosa stiamo vivendo e di quali siano le acque nelle quali stiamo nuotando. In tutti e tre i casi emerge in misura nuova la dimensione dell’individuo che si sente protagonista e non è importante il risultato, e cioè che spesso questo protagonismo sia diafano o addirittura vano. Si fa strada un soggettivismo che spesso diventa arbitrio e spesso viene negato in nome della solidarietà sociale: al determinismo della Scienza Moderna si contrappone il Caso, alla società l’individuo, al canone artistico la libertà creativa.

Dobbiamo pensare il divenire come qualcosa di lento, molto lento, e farraginoso; esso procede incessantemente, ma non lo fa in maniera lineare e tanto meno diretta, per cui quando sembra di aver imboccato il rettilineo finale si blocca, cambia strada, torna indietro, si sposta in modo turbolento e noi che avevamo creduto di capire rimaniamo interdetti. In questo quadro l’ideologia ha cessato di fornire le risposte perché la complessità del mondo si è accompagnata alla complessità degli individui, singoli e in gruppo.

La mia ipotesi, molto generica, è che si sia verificata una rottura con tutto ciò a cui eravamo abituati e che questo obbliga anche noi a un salto simile, anche se è difficile pensare che i singoli possano decidere in tempi rapidi, e questo è stato un mio errore o meglio una mia incomprensione, se il mondo ha impiegato un secolo per realizzare questo mutamento di riferimenti o paradigmi. Nei sistemi complessi esiste il carattere attrattivo dei fenomeni che tende a velocizzare le trasformazioni, ma questo non significa che tutto sarà facile e veloce. Piove sul bagnato è la sintesi popolare.

Torniamo a inserire la questione di cui ci stiamo occupando, l’estetica, in questo nuovo quadro. Occorre prenderla alla larga e ricordare cosa succedeva fino alla metà del secolo scorso, quando la separazione tra classi dominanti e classi subordinate o tra intellettuali e poco alfabetizzati-analfabeti caratterizzava i colori della società. Lasciando da parte la componente politica, pensiamo a cosa succedeva nel campo della produzione e diffusione delle idee, del pensiero e financo delle opinioni. Esisteva una punta dell’iceberg che in rapporto variabile (tempi, interessi, potere) elaborava teorie che erano il frutto di convinzioni, studi e quant’altro, mentre la restante parte prendeva atto di quelle teorie, per come era in grado di assorbirle. Non occorre andare molto lontano; basta pensare agli anni ’50-’60 del Novecento, quando da un lato c’erano gli intellettuali (professori universitari, scrittori, giornalisti, scienziati, artisti) che erano i creatori e gli sviluppatori, mentre dall’altro lato o si approvava questa o quella tesi o se ne subiva una approssimazione consistente: Gramsci elabora un pensiero, una media borghesia intellettuale (docenti, dirigenti, alti impiegati) sostiene quel pensiero a ragion veduta (ha letto i libri) mentre la parte meno colta si limita alle parole d’ordine che il PCI ha elaborato.

Si tratta di una divisione sociale, ma non di una frammentazione. I confini tra le tre aree erano netti e ben marcati: all’interno di ogni area c’erano contrapposizioni, ma della stessa qualità, alta, media, bassa. C’erano ad esempio crociani, gentiliani, gramsciani, marxisti puri, e poi sartriani, seguaci della scuola di Francoforte e così via.

Mi riferisco al secolo scorso perché nei secoli precedenti la contrapposizione tra alto e basso era radicale e i casi di passaggio dal basso all’alto erano minimi e soprattutto casuali. Non è difficile comprendere che il coinvolgimento nella comprensione delle idee è andato crescendo nel corso dei secoli, soprattutto a partire dal 1600 con le istituzioni religiose e il teatro e successivamente con le gazzette e i giornali, fino ad arrivare alla scuola elementare obbligatoria e successivi sviluppi.

Oggi assistiamo a una frammentazione e i movimenti dal basso verso l’alto e viceversa sono abbastanza fluidi; rimangono gli intellettuali che sviluppano idee, pensieri e teorie, ma queste elaborazioni durano poco e non è necessario scrivere un libro per contestarle, basta spesso un articolo di qualche pagina con una scarna bibliografia per metterle in discussione. Pensiamo al fatto che gli elaborati oggi sono milioni sia per il contributo di persone di lingue diverse sia per lo sviluppo dell’industria editoriale sia per l’esplosione di social. A proposito dei social non mi riferisco solo a strutture come TikTok né a piattaforme generalissime come Internet, ma alle centinaia di siti su cui vengono pubblicati, anche gratuitamente, saggi brevi e meno brevi, come Academia e i gruppi su Facebook, tipo System thinking, Social complexity, Polymaths & Polymath, Phenomenology and Continental, Thus spoke Zarathustra per citare quelli di cui io faccio parte, ma ce ne sono di tutti i tipi, tutte le tendenze, tutti i colori, micro e macro argomenti.

Fino al 1968, annus fatalis, il dibattito culturale era abbastanza chiaro e le diverse posizioni che si contrapponevano lo facevano in ambiti ristretti, diciamo accademici: non mancavano riviste su cui gli intellettuali si esprimevano, ma i lettori erano un’élite e come tale molto ristretta. Un’élite componevano coloro che leggevano Il Ponte o Rinascita e poi anche Quaderni Piacentini e Quaderni Rossi o La Nuova Antologia del Secondo Dopoguerra e tante altre, soprattutto di ispirazione marxista ma non solo. Il punto era che per quanto la tiratura fosse alta si parlava di qualche migliaio di copie e dunque il lettore non era l’uomo-massa; ricordo a questo proposito che ancora nei primi anni dell’Università mi cimentavo con Rinascita e devo confessare che, pur essendo stato un bravo liceale, avevo difficoltà a comprendere ciò che leggevo.

Tutto cambia con il Sessantotto e tutte le trasformazioni di cui ho parlato. Non che le nuove riviste non fossero cervellotiche, anzi forse lo erano ancora di più, ma il fatto è che le nuove teorie si trasformavano in semplici slogan (Lo Stato si abbatte e non si cambia…Fascisti, borghesi ancora pochi mesi…) ma ora c’era un passaggio intermedio che forniva un’articolazione delle nuove teorie facilmente accessibili al militante medio e all’uomo-massa (volantini, documenti, assemblee, giornali, tesi politiche…). Attraverso i fenomeni di diffusione della società di massa di cui ho parlato sopra la stragrande maggioranza delle persone si dotava di una cultura fatta di argomenti che seguivano una certa logica e di cui si appropriavano consolidando il proprio spessore: non era più il semplice slogan degli anni ’50 e ’60 che portava la massa verso questo o quel partito, perché ora, e sempre di più, tutti avevano degli argomenti in cui si riconoscevano e che ne rafforzavano l’identità. Questo percorso è andato crescendo indipendentemente dal fatto che con gli anni ’80 l’impegno politico sia scemato, perché ormai lo sviluppo della cultura di massa permetteva a ognuno di farsi portavoce di idee. Il processo ha raggiunto il suo culmine con l’affermazione del Movimento 5 Stelle e del suo celebre “Uno vale uno”.

Come ho cercato di spiegare in modo sintetico, a partire dal 1800 e in misura crescente abbiamo assistito a importanti trasformazioni sociali che hanno dato vita a strutture comunitarie sempre più ampie e sempre più in reciproca relazione, condizionando le varie componenti, spesso assorbendo elementi provenienti da parti all’origine distanti. Anche le nuove forme comunitarie, nate per difendere il proprio territorio, si sono presentate nelle forme di una socialità diffusa: il nazionalismo ha innalzato le barriere dell’identità storico-linguistico-culturale, mentre il classismo ha fatto lo stesso separando in modo semplicistico gruppi sociali. E così l’individuo annacquava la sua individualità in un valore che lo trascendeva: borghese, proletario, piccolo borghese, francese, tedesco, slavo e poi uomo, donna, gay e ancora bianco, nero, giallo ecc.

Potremmo allargare questo discorso introducendo altri aspetti indubbiamente presenti e senz’altro influenti, come la nascita di partiti politici, l’appartenenza a una religione e a una specifica confessione, l’aspetto professionale, la formazione culturale, il regime politico. Tutto ciò non cambierebbe però il senso del discorso e il nodo del problema che qui voglio affrontare.

A partire dal 1800 e poi in modo sempre crescente l’individuo comincia a spuntare come un germoglio e a pretendere un riconoscimento, riconoscimento che all’inizio passa necessariamente per la sua affiliazione collettiva: ha cioè bisogno di sentirsi parte di un gruppo, di una comunità più ampia, e non ha gli strumenti (sociali e culturali) per affermarsi come persona, cosa che, seppur di maggiore consistenza, rimane possibile solo ai politici, agli intellettuali, alle libere professioni.

LA REALTA’ E DINTORNI

Io penso che per cogliere appieno le trasformazioni degli ultimi 150 anni occorra abbandonare le dinamiche sociali che, per quanto rivoluzionarie, impongono il principio della continuità e andare a vedere l’elemento decisivo che, pur non negando l’aspetto della continuità, si impone per la sua evidente e decisiva rottura.

Dove lo troviamo questo aspetto?

Lo troviamo nell’abbandono di una visione che non era mai stata messa in discussione, il carattere oggettivo della realtà. E’ a metà del 1800 che questo avverrà in maniera non episodica ma attraverso un percorso che è andato crescendo e rafforzandosi.

La fisica di Aristotele inquadrava la realtà in forme ben precise e soprattutto delimitate; i latini usarono il termine realtà partendo dalla parola res che vuol dire semplicemente cosa. La Summa di San Tommaso e l’Enciclopedia medievale riproponevano l’inquadramento di Aristotele. Per Cartesio era la res extensa e per Galileo la natura era un libro, con un inizio e una fine, con caratteri che conosciamo e che dobbiamo usare, lo stesso era per Kant e per tutto il razionalismo Settecentesco fino ad arrivare a positivismo e marxismo. L’esistenza di qualcosa che fosse al di sopra o oltre la realtà non ne metteva in discussione il carattere oggettivo, anzi lo giustificava proprio per esserne l’antitesi: il motore immobile, il Dio cristiano, il Noumeno, lo Spirito Assoluto, la Storia.

L’interesse per la metafisica che porterà il pensiero al suo esaurimento con Nietzsche e poi Heidegger è reso possibile proprio dal riconoscimento dell’esistenza di una realtà fisica oggettiva e riconoscibile, indipendentemente dal fatto che questa riguardasse principalmente alcune discipline, l’individuo, la natura, la società, la cultura.

Fu Baudelaire che dichiarò in modo forse ingenuo che la realtà oggettiva non esiste, fu l’arte moderna a procedere in quel solco, ma è stata la scienza a completare il lavoro, prima con i dubbi di Poincaré, poi con la fisica quantistica e infine con il riconoscimento dimostrato che l’ipotesi EPR (Einstein-Podolsky-Rosen) dell’esistenza di variabili nascoste non è valida. Il fatto che un’urgenza letteraria e artistica abbia finito coll’influenzare la comunità scientifica mostra il carattere decisivo del fenomeno tale da coinvolgere i costumi e le pretese di ogni membro della società, soprattutto in relazione alle trasformazioni che hanno visto la nascita dell’individuo-massa.

Poiché il tema di queste mie riflessioni riguarda l’estetica è qui che devo tornare, ma il percorso non sarà dei più semplici. Va ricordato che l’estetica si occupa di valutare il bello soprattutto in campo artistico, ma che, con la nascita e affermazione di una società di massa, la valutazione in termini di bellezza si allarga all’intero campo della società spingendo ad esempio nella direzione del massimo soggettivismo possibile che porta a concordare o meno con uno dei tanti canoni che nel frattempo sono emersi, talvolta disinteressandosi di quei canoni.

Dire che viene ora coinvolto l’intero campo della società significa che si esprimono giudizi pertinenti per i vestiti, per le auto, per le scarpe, per le pietanze, per i film, per i volti e i corpi, per loro parti, addirittura per i gol calcistici, per gli scatti dei ciclisti, per le piante da appartamento o da giardino, per gli oggetti di arredamento, per il sorriso, per l’incontro sessuale e così via. L’arte è polverizzata e non è un caso che da più di 50 anni si sia interrotto quel flusso di grandi artisti (comunemente giudicati tali) che ha sempre caratterizzato, nel giudizio positivo o negativo, la produzione artistica. Oggi la critica continua a esprimere quel giudizio cercando di spiegare e valorizzare il proprio canone, ma il giudizio rimane provvisorio e debole, completamente sovrastato dalla voce di quell’individuo-massa che è diventato il protagonista e che ha imposto, ormai senza possibilità di ritorno, un terreno molto più ampio rispetto a quello classico delle “arti maggiori e minori”.

Bellezza. Oggi è linguaggio comune esprimersi in questo modo: Bella scopata, Bella lezione, Bella cena, Bel maschione, Bella bistecca, Bella presentazione (di un libro, di un film…), Bell’esame, Bel gol, Bel film, Bella trasmissione, Bell’esempio etc. Si tratta di espressioni che vogliono dire altro rispetto al giudizio estetico, per cui introducono analogie che avrebbero bisogno di altri termini che includono, ma non necessariamente, il piacere e si interconnettono con la bontà degli altri gusti o di tipo morale. Il fatto che ritengo importante è che prima il canone (classico, rinascimentale, romantico o altro) forniva dei punti di riferimento globali dai quali si traevano gli elementi per giudicare positivamente o no un quadro, una sonata, una poesia, un romanzo etc. Difficilmente il canone ci avrebbe permesso di giudicare “scopate, bistecche, gol” e tutti quei microelementi che oggi invece rientrano nel giudizio soggettivo odierno.

Questo fatto non è né strano né scandaloso, perché esso risponde in pieno all’urgenza dell’individuo che oggi manifesta il bisogno di riconoscimento e che occupa la scena della vita a 360°. Non vale neppure ironizzare sulla povertà espressiva e concettuale che quell’urgenza esprime, perché il livello alto prosegue con le sue riflessioni e teorie, mentre il livello basso espelle rimasticamenti di quelle teorie che, per quanto interessanti e profonde, non riescono a coprire tutto il panorama della vita di oggi, come invece avveniva in passato, quando al grande artista, scienziato, filosofo, musicista si contrapponevano “bifolchi”, “cafoni”, “analfabeti”, “proletari” che ripetevano la lezione del giornale o della Casa del Popolo e sottoproletari che improvvisavano.

Torniamo un attimo indietro. Prima di Baudelaire l’arte era mimetica, di rappresentazione, rappresentava la realtà, non nel senso fotografico ma nel senso proprio che veniva garantito al fenomeno artistico. La realtà poteva essere presentata fedelmente, leggermente stravolta, idealizzata, ma rimaneva il punto di riferimento da cui partire. L’autore sceglieva quale pezzo di realtà rappresentare e poi decideva come procedere: quel pezzo, la sua articolazione e il suo svolgimento rappresentavano il contenuto, mentre il modo con cui sviluppava tutto ciò rientrava nella forma. Il cosa e il come. Si potevano rappresentare le stesse cose ma in modo diverso oppure usare una forma simile per rappresentare cose diverse.

La forma non era però un semplice abitino con cui vestire il corpo, era qualcosa di molto più elaborato e aveva a che fare con lo stile e il carattere dell’autore. Nella forma rientrano tanti aspetti che non ha senso qui riassumere, ma può essere utile fornire qualche riferimento. Il punto di vista può essere importante, la preferenza tra aggettivi e sostantivi, l’uso di similitudini e metafore, la scelta di parole colte o popolari, di termini molto rudi e concreti oppure di termini più astratti; nel corso dei secoli si è formata una quantità enorme di cosiddette figure retoriche che aiutano il lettore a decifrare il testo, si sono scritti manuali e fatti corsi di scrittura, anche se questo aspetto è molto recente. In ogni caso la forma risultava separata dal contenuto, tanto che ancora oggi a scuola si insegna a fare il riassunto di un testo di narrativa e la prosa di una poesia e per la forma ci sono moltissime indicazioni.

Rimane il fatto che i due aspetti abbiano continuato a rimanere separati. E questa separazione è andata progressivamente dall’alto al basso e, come tutte le cose che scendono, ha perso gran parte del peso e della portata, oltre che del significato, iniziali; e in tal senso, giù in basso, ci siamo limitati a fare nostri solo aspetti marginali o meglio a trasformare in semplice qualcosa di complesso. Nonostante il peso che da sempre ha avuto la forma (e mi pare di averlo messo in evidenza), è per questo motivo ad esempio che si è andato degradando il valore attribuito alla forma, tanto che parole come “formale” e “formalismo” siano diventate quasi dispregiative e che soprattutto con l’avvento della società industriale l’interesse per la forma sia spesso visto come un retaggio nobiliare, una qualche manifestazione di affettazione, mentre il peso della realtà si fa sempre più pesante. L’esperienza del realismo socialista, russo e cinese ma non solo, ha mostrato come ciò che conta sia il cosa e non il come: possono sfuggire anche degli errori/orrori ma è sempre tutto secondario rispetto a ciò che intendiamo dire.

Pensiamo a come sia stato demonizzato per secoli il barocco, perché interessato solo ad aspetti formali, in primis la metafora, che potessero destare “maraviglia” nel lettore.

Pensiamo a tutto il discorso che ancor oggi rimane lineare fatto sul “Parnassianesimo” attento ad ogni parola perché dalla sua scultura dipendeva il certificato di bellezza, tanto che si parla di Baudelaire come parnassiano.

Pensiamo, su questa scia, all’estetismo di fine Ottocento ridotto a pura contemplazione per cui anche Pascoli si sente in dovere di porre fuori dalla poesia “un artista che nielli e ceselli l’oro che altri gli porga” (cioè Dannunzio) e lo stesso grande Montale infierisce prendendo le distanze dai poeti laureati che “si muovono soltanto fra le piante dai nomi poco usati”.

Anche i poeti e gli scrittori che non si limitano a una rappresentazione fedele, concreta, fotografica solcando i territori della fantasia e dell’immaginazione non fanno altro che allargare il territorio che da sempre si chiama realtà, non certo ne mettono in discussione le caratteristiche oggettive.

Pensiamo all’Orlando Furioso dell’Ariosto che è molto ricco di elementi fantasiosi e fantastici e che, nonostante ciò, è considerato una grande rappresentazione dell’essere umano, tanto che risulta difficile per molti studenti comprendere questo nesso.

Cosa vuol dire che la realtà cessa di essere oggettiva?

Innanzitutto presenta delle aperture o addirittura cessa di avere dei confini, e per questo le coordinate che mi permettevano di riconoscere nel territorio caratteristiche, posizioni e movimenti definiti non sono più lo strumento principale per rapportarmi al territorio.

Intanto l’osservatore, Io cioè, non può collocarsi al di fuori per ricostruire la mappa perché il territorio non appartiene più a una geometria euclidea e dunque se l’osservatore pretendesse di fotografare il territorio si perderebbe. Dunque l’osservatore (poeta, artista, scienziato, semplice persona) è dentro un territorio, che deve imparare a riconoscere in modo nuovo e con strumenti nuovi, e quindi non può de-finire né la posizione delle cose né il loro movimento visto che non ha più dei punti di riferimento precisi e che è il territorio stesso che si muove (echi evidenti della fisica quantistica, in particolare del Principio di indeterminazione di Heisenberg).

L’osservatore è dunque coinvolto in prima persona nell’osservazione e questo è possibile solo riconoscendolo come spazio e tempo: da qui emerge la sua responsabilità come fattore determinante. Responsabilità nel dare il nome alle cose (eco pascoliana), nello stabilire relazioni tra gli elementi con cui entra in contatto, responsabilità di sapersi su un terreno scivoloso, responsabilità che se il territorio si muove anche lui si muove e l’assenza di confini non è solo del territorio ma anche sua.

Torniamo all’estetica. Canoni di bellezza e giudizi sulla bellezza dell’arte.

Mi pare abbastanza chiaro che la possibilità di individuare canoni, cioè elementi di valore, quali che fossero, fosse possibile in un contesto in cui era possibile mappare il territorio (qualsiasi territorio) e l’essere (non il movimento) era il dato significativo. Il contenuto era dato dalla geometria che trovavamo nel territorio, mentre la forma ne metteva in evidenza i colori, le movenze, i suoni ecc. L’uno non esisteva senza l’altra, e viceversa, ma in questo rapporto era la forma che dominava l’ambito estetico: una pera può essere più buona di una mela, ma la sua bellezza riguarda il come non il cosa. Se il canone privilegia il colore è probabile che a vincere sia la mela, se invece ci si basa sulla forma si possono avere due canoni, quello classico darà il primato alla mela mentre quello barocco alla pera.

Si fa per dire.

Oggi abbiamo scoperto che quel contesto era non tanto illusorio, ma un’approssimazione che ci permetteva di lavorare, operare, pensare con gli strumenti semplici che avevamo. Oggi assistiamo a una caduta crescente di tutti i corollari che caratterizzavano il nostro approccio alla realtà: le montagne non sono piramidi e la bellezza si interroga. Se non posso de-finire le cose nel territorio cade anche la distinzione tra forma e contenuto; viene così meno la necessità di ragionare, valutare, giudicare, pensare, esprimersi in termini di estetica. E così il “mi piace” che continuiamo e continueremo a dire ha bisogno di una ridefinizione, pur sapendo che non può essere questione di un attimo quella di rinunciare al piacere di dire “mi piace”.

Anche qui siamo nel magma della complessità.

Se la fine del carattere oggettivo della realtà comporta la fine della separazione tra forma e contenuto, cessa l’esigenza di una riflessione di tipo estetico.

Che fare?

La morte di Dio e il crollo dei valori, cioè di tutto ciò che si presenta e pretende un carattere universale, è sotto gli occhi di tutti. La poesia e l’arte sono sempre stati considerati come qualcosa di accessorio per cui si fa fatica a prenderle sul serio, che in senso etimologico vuol dire proprio severo-grave-di peso. Ma la gravitas e la severitas di filosofia e scienza non possono essere messe in discussione ed è proprio qui che sta scomparendo la pretesa di dar vita a regole, leggi universali cioè valori che formano (e non semplicemente orientano) il nostro cammino.

In campo scientifico ci si rende conto sempre di più che il determinismo non è più praticabile e che dunque l’universo della ricerca deve aprirsi alla dimensione della possibilità e non più a quella della certezza.

In campo filosofico il discorso appare più sfumato perché siamo nel centro della riflessione e della critica e dunque il contraddittorio appare come elemento naturale e non di crisi. Eppure anche a livello filosofico si sono verificati dei grossi e significativi mutamenti che fanno pensare che non ci troviamo di fronte al classico e consueto dibattito.

Intanto da più di un secolo la filosofia anglosassone, così detta analitica, ha abbandonato ogni tipo di ricerca metafisica coniugandosi con la scienza per quanto concerne lo sviluppo della conoscenza. La filosofia continentale ha difficoltà a proseguire lo sforzo che fu dei classici di dar vita a un sistema onnicomprensivo capace di spiegare la realtà e vede una stagnazione in quella che è stata per secoli l’anima della filosofia, la metafisica per l’appunto. Dobbiamo ad Heidegger l’ultimo grande tentativo di procedere alla costruzione di un qualche sistema di pensiero che riuscisse a collocare e spiegare ogni aspetto della realtà in modo tale che particolare e generale sapessero riconoscersi e giungersi. “Essere e tempo” ha cercato di dipanare la matassa, ma ha dimostrato l’impossibilità di ex-plicare l’insieme formato da contingente e assoluto. Dopo Heidegger si sono avuti contributi importanti ma settoriali e specifici dove si sono avute contaminazioni con altre discipline che nel frattempo stavano imponendosi come ad esempio la psicoanalisi e la sociologia. Ciò non toglie che si siano avute riflessioni che sono andate allargandosi mano a mano che la società si faceva sempre più complessa e così si sono percorsi nuovi sentieri che hanno privilegiato la critica della società e delle sue istituzioni e ultimamente la componente etica. Tra tutti i grandi sistemi quello che sembra inossidabile è il marxismo che pure viene in continuazione revisionato e adattato ai mutamenti in corso. In generale però la ricerca di un sistema complessivo alla maniera tradizionale non ha prodotto risultati con cui confrontarsi, per cui anche in campo filosofico stiamo assistendo a quella parcellizzazione degli interessi che la accomuna a tutte le altre discipline, in particolare le arti.

In mancanza di un sistema di valori nuovo anche l’estetica si frantuma e perde la possibilità di riconoscimento e identificazione. Si è sempre detto che “Non è bello ciò che è bello, ma è bello ciò che piace”, ma questo era un refrain che ha sempre attraversato i secoli e che lasciava indifferenti gli intellettuali, la cui riflessione e le cui elaborazioni procedevano seguendo la corrente del pensiero e producendo risultati che avrebbero poi preso forma di slogan o proverbio a livello popolare.

Di fronte alla cultura di massa, all’uomo massa e alla crisi dei valori la prima e immediata risposta è stata la totale frammentazione del giudizio, per cui ogni individuo è in grado di esprimere un giudizio su qualsiasi cosa; non solo è in grado ma deve farlo se non vuole essere nullificato: oggi può farlo grazie alle nuove forme di comunicazione di massa, i cosiddetti social. Questa risposta è rivendicata come affermazione di libertà e difetta proprio di un retroterra culturale, come se l’individuo fosse in ogni momento un produttore autonomo di idee, un Dio che crea le cose e dà loro un nome. In realtà esiste sempre un retroterra culturale, cioè un pensiero generale, che giustifica certe affermazioni e certi giudizi. Nel caso in questione si tratta di quello che chiamiamo “relativismo culturale” che si è diffuso naturalmente a livello accademico quando ci si è accorti che la fine dei valori, la morte di Dio, non era una bella frase, ma una realtà molto concreta. E’ l’avventura del pensiero post-moderno nelle sue diverse articolazioni (dal decostruzionismo a Foucault al pensiero debole): dalla realtà del tutto alla realtà dei particolari per cui la diversità diventa concetto ricorrente.

Il relativismo culturale non è però la risposta necessaria anche se la più facile e diffusa perché avvertita a livello popolare come liberazione della propria soggettività, critica del potere (sempre altro da sé), critica della società (sempre frutto di poteri forti e complotti dall’alto, con esclusione della propria persona): insomma il relativismo culturale giustifica il pensiero e le azioni dei singoli immaginandoli soggetti rivoluzionari che facendo bene a se stessi fanno bene all’umanità.

Il discorso ci porterebbe lontano, verso quel relativismo storico oggi molto di moda, ma che è a latere del discorso sull’estetica.

Veniamo invece alla possibilità di cui parlo. Essa presuppone un retroterra culturale che alla fine della possibilità di leggi universali non contrappone il Caso, ma parla di orizzonti. Come fa la scienza (Prigogine parla di freccia del tempo e del fatto che la Natura crea), come fa la filosofia ermeneutica (da Gadamer) o della complessità (da Morin a Ceruti) e come ha anticipato la letteratura.

Dobbiamo dunque tornare a Baudelaire il quale oltre ad aver parlato di una realtà non classificabile in termini oggettivi ha scritto una poesia che parla di bellezza (Inno alla bellezza). Può darsi che in lui si trattasse di puro estetismo, ma gli ultimi versi della poesia parlano d’altro:

Que tu viennes du ciel ou de l’enfer, qu’importe,
Ô Beauté! monstre énorme, effrayant, ingénu!
Si ton oeil, ton souris, ton pied, m’ouvrent la porte
D’un Infini que j’aime et n’ai jamais connu?

De Satan ou de Dieu, qu’importe? Ange ou Sirène,
Qu’importe, si tu rends, — fée aux yeux de velours,
Rythme, parfum, lueur, ô mon unique reine! —
L’univers moins hideux et les instants moins lourds?

La bellezza (così detta) apre le porte dell’infinito e rende gli istanti meno orrendi e pesanti. Difficile credere che il riferimento sia puramente estetico e, se anche lo fosse all’origine, di fatto va ben oltre e va ben oltre anche con il riferimento a Dio e Satana, al Cielo e all’Inferno che ci portano oltre la dimensione morale, connettendosi con quanto di lì a poco sarà espresso da uno dei concetti fondamentali del pensiero di Nietzsche, Al di là del bene e del male.

La riflessione estetica, intesa come canoni di giudizio sul bello, svanisce nel momento in cui manca un sistema culturale che ne sostenga l’azione; rimane come chiacchiera individuale utile a un posizionamento che stabilisce connessioni e forma schieramenti. Nulla di più.

L’espressione “mi piace”, uscita dal campo di gioco dell’estetica, si apre a ben altri e interessanti orizzonti. Dietro quella frase c’è la staticità della tradizionale visione estetica oppure lo sforzo conoscitivo per cercare di comprendere come l’oggetto qualificato con piacere o dis-piacere ci parli di noi: questo sforzo si applica alla nostra esistenza e non è necessariamente esaustivo e può darsi anche che si presenti come muro o porta chiusa. Non è importante il risultato, ma il metodo e la comprensione della sua necessità. Da un altro canto quella frase, che proviene dall’universo dell’estetica, può essere trasformata in qualcosa di nuovo e introdurre il concetto di creazione.

All’interno della nuova idea di creazione dell’arte, proviamo a unire Baudelaire con un poeta moderno come Octavio Paz, per il quale “il testo esige la morte del poeta che scrive e la nascita del poeta che legge”. Già in Inno alla bellezza questa parola usciva dal valore che di norma gli viene attribuito e per anni l’ho tradotta con “felicità”, parola che sposta il significato da una dimensione statica a qualcosa di dinamico.

…il tuo occhio, il tuo sorriso, il tuo piede mi aprono la porta di un Infinito che amo e non ho mai conosciuto.

…. Rendi l’universo meno orribile e gli istanti meno pesanti?

 Baudelaire può certo pensare che l’osservazione di un quadro, la lettura di versi giudicati pregevoli possano aprire le porte dell’infinito e rendere la vita meno triste, ma non ha senso limitarsi a questo dopo aver detto che

La natura è un tempio in cui pilastri viventi

A volte lasciano uscire parole confuse;

L’uomo vi passa attraverso foreste di simboli

Che lo osservano con sguardo familiare.

Come lunghi echi che si con-fondono da lontano

In una tenebrosa e profonda unità,

Vasta come la notte e come la luce,

I profumi, i colori e i suoni si rispondono.”

 

Non si tratta di semplice impegno letterario, ma di qualcosa che gronda realtà viventi che coinvolgono i sensi dell’uomo, quei sensi che ci permettono di gustare profumi, vedere colori, ascoltare suoni e produrre tutti questi in una relazione reciproca, in una con-rispondenza che è la vita stessa e non tanto una sua parte, per giunta letteraria o artistica.

Tutta la poesia di Baudelaire va in questa direzione, storica e non ideologica; storica nel senso che quando parla di Spleen non vuol fare un discorso generico sull’angoscia, ma esprimere attraverso le parole di quei versi la trasformazione della propria persona (concreta e reale) realizzata attraverso lo sforzo di produrre quelle parole. E’ in tal senso un super-uomo nel  senso nietzscheano di oltre(super)-Baudelaire, un Baudelaire diverso, nuovo rispetto al Baudelaire che aveva iniziato quella poesia. Merito delle parole.

E quando ha detto che la bellezza è un “mostro enorme, spaventoso, ingenuo” non si è limitato a un identikit ma ha invitato il lettore a con-frontarsi con queste espressioni: enorme non è solo grande; spaventoso crea paura ma la paura ha infinite forme e tonalità; ingenuo non è solo naïf.

E’ qui che il lettore è chiamato a dare il suo contributo a partire dalla persona che è, anzi che si è formata e con-formata.

Ecco dunque che le parole di Octavio Paz permettono di dare il senso di questo processo e portano alla luce, dis-chiudono, dis-viluppano ex-plicitano quello che in Baudelaire era im-plicito, ma che Rimbaud aveva colto in pieno:

“Quindi il poeta è proprio un ladro di fuoco. È responsabile dell’umanità, anche degli animali; dovrà sentire e far sentire, ascoltare le sue invenzioni; se ciò che riporta da laggiù ha forma, dà forma; se è senza forma, dà l’assenza di forma. Trovare una lingua…questa lingua sarà dell’anima per l’anima, … pensiero che aggancia il pensiero che tira. Il poeta definirebbe la quantità dell’ignoto che si risveglia nel suo tempo nell’anima universale: darebbe di più – rispetto alla formula del suo pensiero e alla presa d’atto del suo progresso verso il Progresso! L’enormità che diventa norma assorbita da tutti: sarebbe davvero un moltiplicatore di progresso.”

Non è dunque una gara o un dibattito tra artisti. E’ un percorso che dà senso alla ricerca del poeta, ma che coinvolge ogni uomo. Le trasformazioni di cui ho parlato lungamente fanno sì che quel coinvolgimento, che nella seconda metà del 1800 riguardava solo il poeta, oggi metta in campo la vita di ognuno.

Il giudizio che fu estetico ora assume valori completamente diversi: sviluppa la conoscenza e soprattutto la creazione della propria persona. E questo non riguarda più solo l’intellettuale di professione, ma ognuno di noi, perché ognuno di noi è oggi produttore di fenomeni “artistici”; non è un caso che Paz parlasse di “poeta che legge” perché chi legge è l’individuo-massa non più solo il critico o qualunque artista ed è lui che usa la parola altrui per scavare dentro se stesso, togliendo e mettendo, distruggendo e costruendo, fino a che questo processo non ha permesso di cambiare la nostra persona, creare una nuova con-formazione, cioè un individuo nuovo (anche poco o pochissimo nuovo). E’ per questo che Baudelaire parlava di aprire le porte dell’Infinito, perché questo processo distruttivo-costruttivo non ha limiti né individuali né, come ricorda Rimbaud ne La lettera del veggente, storico-sociali.

Non più estetica, ma conoscenza-creazione-responsabilità.

 

 

POST SCRIPTUM

 

Per comprendere meglio come la poesia (e l’arte in generale) possano avere una funzione creativa e non estetica si può vedere:

 

  • LA POESIA COSTRUISCE L’IO
  • CORSO DI LETTERATURA NON DETERMINISTICA

Per comprendere invece come la parola possa svolgere una funzione creativa e non di semplice nome delle cose si può vedere:

 

  • PAROLE E IL LABIRINTO DELLA VITA