COSA ABBIAMO IMPARATO:

lontano e vicino, passato e presente, loro e noi, continuità e rottura

 

LE 10 LEZIONI CHE POSSIAMO IMPARARE DALLA STORIA DEL VIETNAM

 

  • 1) I “nativi”

Abbiamo visto che anche per il Vietnam è impossibile stabilire un diritto assoluto di una particolare etnia su un determinato territorio, soprattutto se il territorio di riferimento corrisponde a uno Stato contemporaneo. È vero anche per il Vietnam, come è vero per altri luoghi asiatici, per quasi tutti i paesi africani (con particolare riferimento al Sud Africa dove i Bantu oggi dominanti provenivano dal Golfo di Guinea) e per i continenti americani.

Ciò dipende in parte dal carattere nomade delle prime popolazioni (anche in Europa), ma anche dal fatto che la Storia ha cambiato le carte in tavola nel corso di migliaia di anni e il processo non è mai stato lineare, con colpi e contraccolpi di vario genere. Gli eredi degli antichi Egizi non sono certo gli Arabi che costituiscono la maggioranza, bensì i Copti che oggi sono oggetto di persecuzione in quanto cristiani e che hanno provveduto a ulteriori rimescolamenti. Appare evidente che il riferimento che viene fatto spesso ai diritti dei “nativi” è solo una pretesa per strappare benefici; e non è un caso che questo si sia realizzato nei paesi occidentali liberaldemocratici, dove è garantita la libertà di parola, mentre nella maggioranza degli altri Stati, inclusa la sterminata Cina, le minoranze etniche risultano “silenziose”.

  • 2) Il comunitarismo”

In un libro del 1973 di J.Keay (Into India) e in un altro di N.C. Chauduri (India) gli autori facevano notare come i problemi più grossi all’interno di quel paese derivassero dal “comunitarismo”, di casta o di religione, che riduceva le potenzialità intrinseche di un sistema democratico, dove invece il diritto è degli individui. Abbiamo visto come in Vietnam esistano 54 etnie e di come il Governo attuale ne vada fiero: ciò nonostante, abbiamo visto anche come la repressione abbia colpito la nutrita comunità cinese e lo abbia fatto in nome di un altro tipo di comunitarismo, quello ideologico cioè comunista. Di fronte a un comunitarismo ideologico non esiste possibilità di riscatto e di affermazione e questa è la storia dei regimi comunisti in tutte le parti del mondo, compreso il Vietnam.

  • 3) “Anticolonialismo”

Storicamente il concetto di colonia è sempre stato un concetto positivo. Attraverso la colonia si ingrandiva il valore della metropoli (letteralmente città madre) diffondendone le caratteristiche specifiche: questo valeva per i Fenici, i Greci, i Romani, gli Arabi, i Cinesi e praticamente è stato il destino di tutte le comunità nel momento in cui sono diventate stanziali e hanno dato vita a uno Stato. Talvolta il processo era pacifico, altre volte portava a scontri e poteva essere anche distruttivo. Si è cominciato a darne un significato negativo solo in Occidente, grazie alla libertà di parola e a quelle radici cristiane che hanno diffuso anche il seme della concordia. È stato naturale che dopo le prime voci abbastanza isolate il rifiuto di colonizzare si sia diffuso e non è un caso che i primi ad alzare la voce siano stati gli ex-colonizzati americani che non avevano partecipato alla spartizione che aveva interessato altri Paesi europei: ho ricordato i famosi Punti di Wilson dopo la Prima Guerra Mondiale.

Va ricordato in tal senso che tutti gli intellettuali, e futuri leader politici delle Comunità colonizzate, divenuti anticolonialisti, avevano studiato in Europa: lo abbiamo visto anche per il Vietnam e la Cambogia.

 

  • 4) Il “popolo” e la maschera del Gruppo dirigente

Da quando l’Illuminismo nel 1700 si era fatto portavoce di nuova luce attraverso il Dispotismo Illuminato, la parola popolo cominciò a diventare centrale nel linguaggio comune, soprattutto politico. “Tutto per il popolo niente attraverso il popolo”. Nel 1800 fu fatto un passo avanti e alle numerose rivolte del 1848 fu dato il nome di “primavera dei popoli”, in cui identità nazionale e riforme liberali procedevano di pari passo. Solo con il progredire delle liberaldemocrazie, il termine “popolo” passava da una interpretazione astratta a una identificazione concreta con l’insieme delle persone sottoposte al potere di uno Stato.

Nei paesi liberaldemocratici la voce del popolo trovò espressione nella libertà di parola e riunione fino al voto, sempre più allargato.

Negli altri paesi la parola rimase astratta e divenne ostaggio di gruppi dirigenti senza scrupoli che si attribuivano il titolo di essere “la voce del popolo” e soprattutto nell’ambito comunista questa identificazione fu data per scontata: la Rivoluzione russa non fu una rivoluzione di popolo, ma un colpo di Stato; la rivoluzione cinese coinvolse un gruppo ristretto di militanti. Così i regimi dittatoriali di ispirazione comunista si fregiarono del titolo di “Repubblica Popolare”: l’identificazione del Partito Comunista, del Comitato Centrale, del Leader Maximo con il popolo veniva veicolato anche nei paesi liberaldemocratici grazie a partiti e intellettuali di riferimento marxista.

È successo anche in Vietnam dove un gruppo che agiva in nome del popolo portò avanti una guerra grazie soprattutto alla sua fede, determinazione, rigida organizzazione, pratica del Terrore. Non è un caso che ad ogni forma di dibattito venivano tarpate le ali e “il popolo” poco alfabetizzato subiva la volontà di potenza delle classi dirigenti, che temeva, e l’unico rapporto positivo poteva essere solo di tipo religioso: da qui il fatto comune a tutti i regimi comunisti, la creazione del culto della personalità. Lenin, Stalin, Mao Tse-tung, Kim Il-sung, Pol Pot, Fidel Castro. E in Vietnam Ho Chi-min.

Dunque, nulla di nuovo. La differenza tra l’Illuminismo e il Comunismo, per quanto riguarda il popolo, era che nel primo caso, grazie alla liberaldemocrazia, esisteva un’apertura verso il popolo, mentre nel secondo il popolo doveva rimanere “massa di manovra”. Non è un caso che paesi comunisti come Cina e Vietnam hanno permesso lo sviluppo del capitalismo, mentre sono rimasti chiusi in termini di libertà.

  • 5) L’ “ideologia”

Troppo spesso la parola ideologia viene trattata come un termine neutro e scambiata per “modo di pensare”; dopo gli studi di Hanna Arendt l’ideologia è diventata un protagonista del XX secolo, essendo stata l’anima delle due più importanti dittature del 1900: il comunismo e il nazismo. È vero che il Terrore che ha devastato l’URSS, la Cina e tutti gli altri Paesi comunisti è stato il frutto di una precisa determinazione e di un cinismo senza eguali, ma è vero anche che questa forza, anzi questa potenza, contro gli esseri umani nasce da una fede incrollabile, quasi religiosa. Non è sbagliato dire che comunismo e nazismo sono il frutto di una “religione laica” che pretende di imporre il “vero Dio” all’Umanità. Rimandando alla lettura della Arendt per quanto riguarda la fede nazista (*), affrontiamo qui ciò che ha spinto un gruppo di intellettuali nutriti dal pensiero occidentale a incamminarsi verso quell’esperienza disastrosa. Invece di farsi contaminare dal pensiero liberale o dall’economia industriale, hanno preferito scegliere il pensiero tedesco che Marx aveva trasformato in programma politico. Una fede può essere incrollabile solo se si presenta come qualcosa di universale e assoluto, perché non ha senso lottare e morire per qualcosa di particolare, effimero, privo della possibilità di coinvolgere tutta l’umanità e per sempre. Il socialismo “scientifico” poneva le basi di questa fede, perché dichiarava di aver scoperto le “leggi universali” della società: il capitalismo doveva cadere ed essere sostituito dalla dittatura del proletariato prima di arrivare al comunismo. La Storia indicava il cammino: in fondo alla strada c’era il Sol dell’Avvenire e non percorrerla significava non tanto stare dalla parte dei borghesi, ma stare contro la Storia. La Storia come Dio, a cui obbedire; il Partito comunista come il clero, unico interprete della volontà di Dio, pardon della Storia.

La “guerra totale” dichiarata da Ho Chi-min alla fine degli anni ’40 e ripresa da Le Duan era giustificabile solo all’interno di una prospettiva di lungo periodo, il cui primo passo era estendere il comunismo al Vietnam. Come Lenin aveva insegnato, contano solo i rapporti di forza e lo stesso Mao, grande ispiratore dei comunisti vietnamiti, lo aveva detto esplicitamente: “La rivoluzione non è un pranzo di gala”. Non solo, ma la democrazia borghese, il Parlamento, la libertà di stampa, gli accordi sono solo invenzioni borghesi da usare se necessario e da non rispettare se serve.

Armati dunque della potenza che i Comandamenti marxisti e leninisti avevano diffuso, con l’aiuto economico e militare dei due grandi Stati comunisti, l’URSS e la Cina, Ho Chi-min e gli altri procedettero senza riluttanza e senza porsi alcuna domanda, compiendo tutto ciò che ritenevano necessario, perché operavano al “Servizio della Storia”.

(*L’ideologia nazista sostituì la Storia con la Natura, di cui pretese di essere l’interprete).

  • 6) “Anticapitalismo” e  “Antiglobalizzazione”

Secondo un vecchio principio diffuso soprattutto in epoca cristiana la ricchezza è fonte di peccato, per cui le persone hanno sempre oscillato tra le indicazioni della Chiesa e il naturale desiderio di migliorare le proprie condizioni. Ma fin qui nulla di male: possiamo riconoscere due aspetti della storia umana, quello materiale e quello spirituale, soprattutto in epoca di scarsità di beni. È naturale che chi vive condizioni di povertà voglia aspirare a stare meglio, ma in genere si accettava la propria condizione e sorte. Ogni tanto scoppiavano rivolte devastanti (jacqueries) che distruggevano le residenze dei nobili, si appropriavano dei loro beni e poi tutto tornava come prima.

Il problema nasce quando si comincia a diffondere la fantasia di Robin Hood, cioè l’idea che i poveri siano tali per colpa dei ricchi, per cui togliendo ai ricchi e dando ai poveri il mondo sarebbe felice. L’esperienza comunista già nella Russia sovietica aveva dimostrato che togliere ai ricchi (i capitalisti, i kulaki) dà vita a una povertà generalizzata, con un’eccezione, quella dei militanti di partito che possono accedere a uno stile di vita alto e sempre più alto, a mano a mano che ci si avvicina alla Segreteria del Partito. Però rimane la fantasia e l’illusione. Che ciò possa conquistare comunità poco istruite è comprensibile, ma molto meno lo è nei paesi liberaldemocratici e capitalisti dove il benessere è diffuso.

Lo stesso vale per la tendenza, radicata in certi ambienti di sinistra, a criticare la globalizzazione da cui il Vietnam ha tratto indubbi, enormi vantaggi.

In Vietnam non c’è stata nessuna eccezione e la regola è confermata: il capitalismo non è il problema, ma la soluzione.

 

  • 7) “Antiamericanismo”

Una variante dell’anticapitalismo è l’atteggiamento antiamericano. In una società i ricchi sono i colpevoli, nel mondo è sempre colpa degli americani. In Vietnam si sono coinvolti in prima persona e sono stati sconfitti; hanno pensato di poter ripetere ciò che avevano fatto durante la Prima, la Seconda Guerra Mondiale e la Guerra di Corea, venendo in aiuto del Vietnam e cercando di frenare l’avanzata comunista. Non hanno capito che combattere una guerra tradizionale è cosa diversa dal contrastare la guerriglia, dove esistono combattenti senza uniforme nascosti nei villaggi tra la gente comune e i cui capi seguono una logica senza regole riconosciute. Per di più la propaganda antiamericana era molto spinta anche in Europa, in genere per la presenza di forti partiti comunisti e in Francia anche perché gli USA sono subentrati alla Francia (e all’Inghilterra) nel dominio del mondo (interessante il libro del filosofo francese Revel: L’ossessione antiamericana). C’è da aggiungere che eravamo durante la Guerra Fredda in cui i due blocchi erano contrapposti e il mondo era diviso, con la differenza che in Occidente la libertà di espressione era in genere garantita, mentre nei paesi comunisti, compreso il Vietnam del Nord, non esisteva voce al di fuori del partito. Per chi osava comunque esprimersi erano pronti gulag e campi simili.

 

  • 8) La “ragione” e il “diritto”

Un altro aspetto su cui anche l’esperienza del Vietnam ci obbliga a riflettere riguarda il concetto di ragione e di diritto. Queste parole un tempo avevano uno statuto epistemologico ben preciso, di carattere filosofico e giuridico, poi, macinate dalla cultura di massa, sono state trasformate in qualcosa di vago e generico facilmente orientabile in diverse direzioni. E così la ragione viene usata per cercare chi ha ragione e chi ha torto in un qualsiasi contenzioso; così pure avviene per il diritto, che diventa “io ne ho diritto”: in entrambi i casi la ragione e il diritto fluttuano nell’aria senza basarsi su qualche fondamento solido. L’espressione sempre più diffusa a quei tempi e ancora oggi rimane la seguente: nella guerra del Vietnam la ragione e il diritto erano dalla parte dei vietnamiti perché era la loro terra. Nei dieci capitoli precedenti abbiamo visto come l’uso comune dei termini ragione e diritto porta a oscillazioni estreme: per i comunisti vietnamiti ragione e diritto appartenevano a loro perché loro rappresentavano il popolo vietnamita; per la classe dirigente americana invece l’aiuto a uno stato amico, la necessità di fermare l’espansione comunista, la proposta di libere elezioni giustificavano il loro intervento.

Ragione e diritto escono dal giudizio individuale solo se ne ripercorriamo la storia. Esiste una tradizione del Diritto che risale ai Romani (ius) e che è andata sviluppandosi nel corso dei secoli attraverso numerosi passaggi (Magna Charta, Bill of rights…) fino al riconoscimento dei diritti individuali: è così che il Diritto si fa diritto.

L’evoluzione del concetto di Ragione nasce con i Greci (logos) e si sviluppa via via fino all’Illuminismo quando ne diventa la parola chiave, mentre anche la Scienza se ne serve per poter dar vita a questa grande conquista, che è alla base di ogni Stato che si definisce liberal-democratico.

Da questo punto di vista la ragione e il diritto forse non sono dalla parte degli USA, ma di certo non appartengono al Vietnam comunista. Dal secondo dopoguerra nel Nord fino alla costituzione della Repubblica socialista nel 1975 il Vietnam comunista non risponde a nessuna delle caratteristiche storiche di ragione e diritto. Si tratta di un regime in cui, come nei suoi riferimenti precedenti, non esiste la divisione dei poteri, per cui il diritto, ovvero la giustizia, è esercitato dal potere esecutivo (il Partito comunista), mentre il potere legislativo è costituito da organi per i quali non c’è stata libertà di espressione e dunque di confronto. Tutto parte dal Partito Comunista e lì ritorna. Non esiste nessuno dei diritti individuali che garantiscono, ove più ove meno, la partecipazione e il contributo delle singole persone.

 

  • 9) “Bene vs. Male”

Fino a qualche decennio fa il Bene e il Male erano valori chiave ed esprimevano concetti chiari e definiti, anche se poi ogni forza in campo esprimeva giustificazioni diverse per legittimare il proprio operato. Di fatto però nessuno nascondeva il proprio diritto ad esercitare la forza contro il nemico: ogni Stato si presentava in modo monolitico e il dissenso interno non era ammesso. Con lo sviluppo delle liberaldemocrazie, con le libertà e con il bilanciamento dei poteri che sono loro proprie, il quadro di riferimento è in parte cambiato. Da un lato gli intellettuali dall’altro alcuni politici (es. il Presidente USA Wilson) pensano a un mondo non più dominato dai rapporti di forza ma dalla concordia. Se questa prospettiva appare principalmente un’aspirazione, ciò non toglie che ottenga anche risultati importanti, il più significativo dei quali è il fatto che per tutto il 1900, nonostante il passato sanguinoso, i Paesi liberaldemocratici non si combattono più, ma si trovano uniti nella guerra contro forze interessate al dominio. Qualcuno dirà che non è merito loro, perché hanno sostituito il dominio territoriale col dominio economico, cosa anche vera, ma ciò non impedisce di preferire la concorrenza anche spietata al conflitto militare. In fondo “è meglio contare le teste piuttosto che tagliarle”.

La possibilità di critica all’interno dei Paesi democratici fa la differenza e la fa nel bene e nel male: da un lato i cittadini cedono allo Stato l’uso della forza, dall’altro possono criticarne le scelte, influenzarle, fino a condannarle. È la debolezza ma anche la forza dei Paesi democratici. Mentre in URSS, nei Paesi dell’Est Europa, in Cina, in Corea del Nord, in Vietnam esiste solo lo Stato monolitico, in Europa e in America esiste anche il ruolo dei cittadini che possono manifestare il proprio dissenso in tantissime forme. Con lo sviluppo della cultura di massa il Bene e il Male diventano solo generiche e comuni espressioni di tipo moralistico: la guerra prima, seppur dolorosa, era sostanzialmente condivisa da tutti i contendenti, ora invece diventa il male, dove ciò che conta sono le bombe, il numero dei morti, le distruzioni, il sangue versato. Non serve far notare che i conflitti appartengono alla Storia, che la situazione è migliorata nell’ultimo secolo, che le guerre vedono principalmente coinvolti paesi non democratici; non serve neppure far notare che la parola originaria non è pace ma guerra, perché la definizione di pace è non-guerra. Ormai conta solo trasformare ciò che appartiene alla storia, cioè l’esistenza di aggressori ed aggrediti che in genere scelgono di difendersi, in un lamento moralistico.

La Storia ha un difetto o, meglio, un pregio: smentisce regolarmente coloro che la vogliono storpiare facendone ciò che non è. Tutta la guerra del Vietnam, allora e nelle ricostruzioni giornalistiche e cinematografiche successive, è stata presentata come il Bene degli eroici vietnamiti contro il Male degli americani. Tutte le azioni vietnamite almeno discutibili non compaiono perché non c’è libera informazione, diversamente dagli americani che hanno al seguito la stampa e i fotografi. Come se l’esperienza nazista e sovietica non avesse insegnato niente, in Occidente ci si schiera con i Vietcong per partito preso e si prende per oro colato la propaganda comunista. In questo senso la Guerra del Vietnam ha svolto un ruolo decisivo nella trasformazione dello studio della storia dal tentativo di un’analisi approfondita nel giudizio semplicistico di tipo morale.

Per fortuna la Storia impone sempre le sue leggi, prima o poi: ancora una volta i sostenitori dei Vietcong hanno dovuto ricredersi anche se continua la vecchia narrazione; l’attuale situazione “americana” del Vietnam, oltre al numero impressionante di vietnamiti che si sono rifugiati in America, ha emesso la sentenza definitiva.

Ciò non significa, come è stato fatto e si continua a fare, che ciò che è stato fatto dagli americani fosse, a tutti i livelli, positivo: è giusto criticare tutto ciò che si ritiene discutibile, ma occorre farlo all’interno di quelle che sono le dinamiche storiche. E mentre in Occidente, ad esempio, il giudizio su Nixon presenta molte sfaccettature, alcune positive e altre estremamente negative, in Vietnam Ho Chi-min rimane una figura intoccabile.

 

  • 10) Il ruolo dell’osservatore

Mentre la scienza moderna pretendeva di osservare oggettivamente i fenomeni, la scienza della complessità, a partire dalla fisica quantistica, ha mostrato come decisivo nella ricerca scientifica sia il ruolo dell’osservatore. Non esiste una realtà oggettiva e non solo l’osservatore è parte integrante dell’esperimento, ma lo influenza direttamente.

A livello storico questo nuovo approccio della scienza comincia ad avere i suoi effetti nel campo dello studio e della ricerca. Ciò significa che non esiste una riproduzione fedele degli eventi storici, soprattutto nelle loro dinamiche evolutive, ma che lo studioso deve chiarire quale è il suo punto di vista con cui ha affrontato la ricerca e quale è il metodo che ha applicato nel suo procedere.

Tutto ciò non succede nei libri di storia e tanto meno nelle lezioni dei docenti della materia. Si continua così a presentare la propria lezione come oggettiva, facendo spesso ricorso al moralismo per attirare l’attenzione sulle proprie tesi. Si procede linearmente come se la storia fosse un’autostrada, evitando di fare ricorso ad alcuni riferimenti propri della scienza della complessità: ad esempio (1) La rete, l’interconnessione, la complessità. (2) Il conoscere per differenze. (3) Il carattere complesso della società. (4) Il carattere complesso della cultura. (5) L’evoluzione per continuità-rottura. (6) Il procedere storico per flussi e non per causa-effetto.

Il quadro di riferimento di queste riflessioni non è di tipo morale, non so cosa siano il Bene e il Male in forme assolute e so, dalla scienza della complessità, che dobbiamo ragionare in termini di flussi e di rete. Queste dinamiche devono essere naturalmente evolutive perché non esistono valori assoluti (cristiani, marxisti o altro) a cui ricondurre il caotico incedere della e nella Storia. Ciò non significa allora che siamo in balia del Caso, perché, sempre come insegna la Scienza della Complessità, né determinismo né casualità. Bensì Orizzonti. E l’orizzonte che orienta l’agire e il pensiero è quello della liberaldemocrazia, struttura economica e politica in cui siamo inseriti insieme a un numero sempre maggiore di persone: non sappiamo quale futuro ci aspetta, ma sappiamo bene quale è la realtà sulle cui basi costruire quel futuro.

 

BREVI NOTE DI METODO

In dieci paragrafi ho ricostruito la storia dell’attuale Vietnam attraverso i momenti più significativi che l’hanno caratterizzata. La storia oggi non è solo una lista di eventi, né una materia secondaria, e cerca di stabilire connessioni con altre discipline in una visione complessa. Cadono dunque molti degli approcci che l’hanno caratterizzata e che continuano a caratterizzarla.

Il primo tra tutti riguarda la visione di una Storia finalistica, cioè un divenire che si può prevedere, perché esiste una dialettica che a grandi linee permette di superare il passato e il presente: è stata la fantasia del marxismo e di tutto lo storicismo.

Un secondo approccio riguarda il peso che ha nel percorso l’ideologia, intesa non come semplice pensiero, ma nei termini articolati e profondi con cui l’ha affrontata Hanna Arendt.

Un terzo aspetto ha portato a vedere nelle forme economiche l’elemento decisivo dell’evoluzione storica; evidente lascito del marxismo questo approccio si è esteso anche ad altre interpretazioni.

Esistono poi le storie settoriali che hanno avuto un peso crescente negli ultimi decenni: la storia femminile, la storia delle etnie, la storia nazionale, la storia degli oppressi, la storia orale.

 

I limiti degli approcci tradizionali consistono in alcuni elementi:

1)Si tratta sempre di una storia lineare, basata sul rapporto causa-effetto, che cerca di ricondurre la molteplicità degli eventi dentro una precisa corrente e, quando non vi riesce, deve optare per distinguere tra cause principali e cause secondarie. Si perde dunque quella visione reticolare che è stata evidenziata dalla Scienza della Complessità.

2)La linearità comporta il carattere di schematismo e approssimazione, evitando il riconoscimento di fenomeni emergenti che impongono un salto all’evoluzione. Essendo una derivazione della scienza moderna la storia si presenta come una disciplina capace di prevedere gli eventi.

3)Considerare sempre gli errori, gli sbagli, le sconfitte come qualcosa di secondario che non influisce sulla dinamica storica, secondo il luogo comune per cui “l’eccezione conferma la regola.

4)Non prendere in considerazione il punto di vista dello studioso, perché si ritiene possibile la rappresentazione di una storia oggettiva, cioè una storia ben inserita in limiti che ne permettono una conoscenza completa.

Questi aspetti interessano maggiormente gli storici di professione, nel senso che manca nel campo delle scienze umane, e dunque anche nelle scienze storiche, una riflessione sui grandi mutamenti epistemologici avvenuti nel campo di quelle che una volta erano chiamate “scienze dure”.

 

L’UOMO DELLA CULTURA DI MASSA E IL SUO APPROCCIO ALLA STORIA

Essi però si riflettono anche sulle valutazioni che ogni comune individuo è portato a fare, oggi molto di più di un tempo, data l’esistenza di una cultura di massa e di tecnologie sempre più sviluppate.

Alcune conseguenze sono:

1)L’anacronismo, ovvero il valutare la storia passata con criteri di valore contemporanei, evitando dunque la contestualizzazione dei fenomeni e degli eventi: l’effetto più disastroso è dato dalla così detta cancel culture.

2)Il moralismo, che è una derivazione del precedente, con cui va di pari passo. Avendo la società occidentale sviluppato libertà, democrazia e diritti individuali, che ci hanno conformati, invece di vederli come una lenta marcia evolutiva, si prendono come Comandamenti con cui giudicare la Storia secondo i valori di Bene e Male. Naturalmente con questo approccio ben poco si salva della Storia Umana.

3)Il falso storico. Agli antipodi dello storicismo si inventa una società naturale, quella primitiva, priva dei peccati della società moderna, andando contro gli studi storici e antropologici più approfonditi.

4)Il complottismo. Ricostruendo la storia in modo semplicistico e avendo deciso cosa sia il Bene, è evidente che il presente venga affrontato con l’arma del Giustiziere, in una Guerra Santa sempre più estesa. Poiché il Bene non si realizza ci devono essere i colpevoli: le Multinazionali (delle armi, del petrolio, della finanza, dell’informazione…), il Patriarcato, i Poteri forti (?), gli Stati Uniti.

 

Per un approfondimento dei temi qui sviluppati propongo alcuni miei lavori, dentro i quali è possibile trovare anche una ricca bibliografia:

Dodici lezioni di Storia. Flussi. Milano, 2020.

[https://www.emiliosisi.it/wp-content/uploads/2020/09/12-LEZIONI-DI-STORIA.FLUSSI.pdf)

Dentro la rete: la Storia e il pensiero complesso. Firenze, 2004. [https://www.emiliosisi.it/wp-content/uploads/2020/09/STORIA-COMPLESSA.pdf]