1- APPROPRIAZIONE CULTURALE

Prima di sviluppare una riflessione critica Wikipedia fornisce la seguente definizione, da J.O. Young, J. Metcalfe e altri: L’appropriazione culturale rappresenta l’adozione o l’utilizzazione in maniera inappropriata o inconsapevole di elementi di una cultura da parte dei membri di una cultura dominante, il che costituisce nella maggioranza dei casi un irrispettoso mezzo di oppressione e spoliazione, nonché una forma di colonialismo. L’identità della cultura minoritaria si troverebbe così privata della sua proprietà intellettuale, oppure danneggiata nella sua immagine ormai ridotta ad una semplice caricatura razzista.”

La definizione ha risvolti interessanti perché getta una luce chiara su ciò che i suoi fautori intendono, una luce che nella sua violenza espressiva vorrebbe essere accecante e distruggere l’osservatore.

Innanzitutto, la distinzione tra cultura dominante e cultura minoritaria risulta, in un’epoca come la nostra, basata sulla globalizzazione, uno dei tanti concetti astratti che, invece di osservare la realtà nei suoi particolari e nella sua ricchezza, la riducono a immagini talmente generiche da risultare fumose. Poiché essa nasce da una forma di vittimismo il suo obbiettivo è solo quello di criminalizzare l’antagonista con cui si convive ma che si vorrebbe eliminare.

Il riferimento a due tipi di culture è schematico e riduzionista, avendo come centro da colpire ciò che è “occidentale, bianco, maschile”: lo schematismo e il riduzionismo sono evidenti dal momento che si evita di parlare del dominio che tutti i popoli hanno esercitato nei confronti di altri popoli, indipendentemente dal colore della pelle, dalla collocazione geografica e dal genere.

Cinesi, nativi americani, precolombiani, africani, arabi in genere non vengono presi in considerazione dal momento che l’obbiettivo è la cultura occidentale.

È un po’ come con il partito comunista che si rappresentava come “il partito della classe operaia” disinteressandosi di tutti gli operai cattolici, repubblicani, socialisti o comunque non-comunisti: è questo il bello dell’astrazione, perché cancella la realtà che non gli piace, nascondendo il vero carattere, molto poco astratto, di una volontà di potenza smisurata.

La cultura dominante è stata sempre difficile da individuare, a meno che non si risponda col semplicismo marxista per cui “la cultura dominante è la cultura della classe dominante”, che accontenta i membri e i fedeli del partito, ma non la gente comune. Nella storia del movimento comunista è sempre stato difficile il passare dalla teoria alla pratica: il conflitto era tra borghesia e proletariato e si sono fatti salti mortali per ricondurre tra il proletariato (inteso proprio in senso marxista) molti soggetti sociali (sottoproletari, braccianti, contadini, artigiani), spesso da convincere con le buone o con le cattive, più spesso con il loro annientamento (vedi kulaki in URSS, intellettuali in Cina e Cambogia).

Questa difficoltà nasce proprio dalla pretesa di far aderire il variegato mondo reale alle idee astratte e a concetti altisonanti ma semplicistici.

La Storia mostra come i popoli che hanno dominato più a lungo e più ampiamente non si sono mai limitati a imporre ciò che li caratterizzavano, ma hanno spesso fatto proprio ciò che veniva dall’esterno. I Romani, ad esempio, si sono fatti contaminare dalla cultura Etrusca e poi da quella Greca e infine da quella Cristiana, di chiara origine orientale; i Goti (i Barbari) mentre sottomettevano Roma ne acquisivano gran parte della cultura; gli Italiani del Rinascimento hanno accolto il pensiero greco proposto da chi fuggiva da Costantinopoli conquistata dai Turchi; gli Arabi dei primi secoli si sono confrontati con la filosofia greca; gli Inglesi hanno accolto prima la cultura francese e poi aspetti dei popoli colonizzati. Chi è rimasto chiuso nel proprio universo come il Celeste Impero della Cina è stato costretto a soccombere proprio per la mancanza di confronto e la convinzione che il Mondo coincidesse con la Cina stessa.

Non c’è dubbio che i progressi si siano verificati laddove ci si è aperti, poco o tanto, a ciò che proveniva dai popoli sottomessi e proprio oggi verifichiamo che alcuni popoli dominati sono riusciti a competere con i loro dominatori di un tempo perché ne hanno riconosciuto il valore appropriandosi di quanto la così detta “cultura dominante” sapeva offrire. Non c’entra dunque il dominatore e il dominato né l’etnia o il luogo o il genere, ma il carattere aperto o chiuso di una determinata società: Roma per quanto imperialista, gerarchica, maschilista fu una società aperta dove il pensiero mostrava molteplici sfaccettature, diversità e divergenze, contrapposizioni anche forti e conflitti di ogni genere. Per questo seppe influenzare i popoli che la sostituirono. E questo è il discorso della “cultura occidentale” che si vorrebbe combattere e distruggere, ma che ha saputo, proprio per la sua apertura, offrire possibilità di crescita e di affermazione a chi ha saputo approfittarne, rinunciando al vittimismo recriminatorio.

 

Prendiamo l’informatica. Essa è la materializzazione di uno sviluppo tecnologico tutto occidentale di cui alcuni si sono avvalsi per avviare un percorso proprio: l’India e la Cina, ad esempio, oggi sono in questo campo validi competitori dello stesso Occidente.

A livello di colore della pelle, basta pensare a Obama che è diventato Presidente degli Stati Uniti appropriandosi, da uomo di “cultura minoritaria”, di tutto ciò che la “cultura dominante” offriva, fornendo speranza a milioni di donne e uomini di colore, avvocati, politici, giornalisti, scrittori, professori.

A livello di genere, solo società aperte come quella occidentale hanno offerto delle prospettive legate al merito e non a clan familiari, come è successo ad esempio in Oriente, in India, a Sri Lanka, in Pakistan, in Birmania. Laddove la società si presenta aperta, anche per l’universo femminile si aprono strade non occasionali nelle attività sociali più prestigiose. È curioso che i sostenitori dell’appropriazione culturale “politicamente corretta” si scaglino contro l’Occidente mentre è proprio lontano dall’Occidente che alle donne è negata ogni speranza.

L’appropriazione culturale, intesa in senso letterale e senza deformazioni ideologiche, è sempre stata uno dei mezzi più importanti per l’evoluzione culturale e i progressi dell’umanità: arricchire il proprio spessore nutrendosi di ciò che proviene da chi appartiene a un universo diverso è sempre stato il terreno vincente per tutti, favorendo i flussi in entrambe le direzioni, da dominante a minoritario, da minoritario a dominante. Anche in questo campo è curioso che i sostenitori dell’appropriazione culturale “politicamente corretta” siano in genere coloro che esaltano la diversità come valore proprio per combattere il razzismo. La diversità riconduce all’individuo e non può essere strumento di esaltazione comunitaria. Ma di questo parlerò in modo più approfondito in un capitolo apposito.

L’appropriazione culturale viene condannata perché avviene in maniera inappropriata o inconsapevole da parte dei membri di una cultura dominante e si presenta come un irrispettoso mezzo di oppressione e spoliazione, nonché una forma di colonialismo.

L’uso di aggettivi come inappropriato, irrispettoso mostra il carattere ideologico e moralistico del fenomeno. Immaginare una cultura come dominante, soprattutto perché l’argomento tende a concentrarsi non sui valori fondativi di una società, ma su aspetti artistici, dello spettacolo, della cucina e simili, risulta nel mondo globalizzato estremamente difficile e porta poco lontano. Vestirsi da “nativo americano” a una festa non va bene, mentre da cowboy sì? Oppure anche questo non va bene per la condanna dei cowboy? Solo un nativo può vestirsi da nativo? Perché a protestare sono solo nativi e persone di colore, mentre cinesi e indiani non hanno nulla da dire in proposito e tanto meno da rimproverare? Il carattere moralistico è svelato dall’uso di parole come “inappropriato” e “irrispettoso”, termini tanto generici e truffaldini, dal momento che presuppongono che esista una norma che definisce ciò che è appropriato e ciò che è rispettoso, attaccando di fatto libertà di pensiero e di espressione, per non parlare della critica, dell’ironia e della satira.

Un principio morale non può diventare legge; esso ha valore per l’ampiezza del riconoscimento che gli viene dato e dovrebbe servire da guida e in genere è fornito da persone di alta levatura. Chi definisce oggi quel principio? Chi ha l’autorità per parlare di mancanza di proprietà e rispetto? Nessuno. Così per far pesare quel principio morale si alza la voce, si minaccia e soprattutto ci si erge a sostenitori di comunità più ampie senza averle neanche interpellate. Hitler parlava a nome del popolo tedesco, Stalin del proletariato mondiale, Mao dei cinesi, i Partiti comunisti degli operai, e così i leader di questo nuovo movimento parlano a nome dei nativi americani, dei black people, delle donne. L’obbiettivo non è difficile da scoprire: risarcimenti in denaro, quote al di là del merito, prestigio per i leader.

Ariosto ironizzava su Orlando, Paladino cristiano, e attraverso la sua descrizione portava alla luce aspetti e caratteri tipici di ogni essere umano. La cultural misappropriation vuole imporre, attraverso norme pretestuose, codici di comportamento che limitano e tendono ad annullare la libertà individuale. Cambiano i contenuti, ma è ciò che caratterizzava i regimi dittatoriali come il nazismo (la cultura degenerata) e il comunismo (il realismo socialista) che vengono riproposti in una società aperta che è cresciuta proprio grazie a questa possibilità espressiva individuale. Il ritorno alla censura per garantire comportamenti politicamente corretti che si spera di ottenere con minacce, licenziamenti e pubblica gogna: una forma meno cruenta (non sono mancati comunque dei suicidi) rispetto alle fatwe imposte, e spesso portate a termine, dagli imam nei confronti di persone non conformi.

Una riflessione merita anche la frase finale.

Se il problema di una indebita appropriazione culturale ha a che fare con i diritti d’autore (la proprietà intellettuale) allora esistono leggi che ne garantiscono la fruizione, ma sembra che la questione vada ben oltre.

Se si tratta di danneggiamento dell’immagine anche in questo caso esistono leggi che proteggono la persona danneggiata, ma anche qui sembra che la questione vada ben oltre. Infatti, mentre sopra si è parlato di colonialismo la definizione termina con l’accusa di razzismo.

Anche in questo caso i termini sono solo minacce culturali che vorrebbero ridurre al silenzio, imporre una censura, autoriconoscersi come legittimi rappresentanti di una comunità, dimenticando ancora una volta come è solo l’appropriazione culturale il fenomeno che ha permesso una crescita in tutti i sensi di cultura e società. Nell’Italia dei 100 campanili l’ironia e la presa in giro sono pane quotidiano e nessun pisano accusa di razzismo i livornesi: se si hanno argomenti si risponde sul piano che si preferisce, quello dei valori, quello genericamente culturale, quello della vita quotidiana e dei comportamenti individuali. Comportamenti e azioni, non idee ed espressioni. Evidentemente i sostenitori critici dell’appropriazione culturale non hanno molti argomenti né sul piano dei valori né a livello culturale né per quanto riguarda le attitudini ad esempio familiari. Si tratta solo di “vittimismo”, per il cui approfondimento rimando al capitolo specifico.

Su questo piano succedono cose curiose. La parola “nigger” non può essere usata dai bianchi americani, ma solo da black people, perché avrebbe due significati diversi. Fin qui si potrebbe anche non obiettare; ma cosa dire del fatto che nei paesi di lingua neo-latina non si può più dire “negro”, parola che non è mai stata in generale dispregiativa. Ad esempio, leader africani hanno dato vita a un movimento letterario, culturale e politico rivendicando “la negritude”, che Senghor, futuro Presidente del Senegal, aveva definito come “la somma dei valori culturali del mondo nero come sono espressi nella vita, nelle istituzioni e nelle opere degli uomini neri”.

Ancora una volta perché i cinesi non si sono ribellati all’uso diffuso in arte del termine “cineseria” anche se poi è stato spostato a livello popolare come “piccoli oggetti di non grande valore”? E come dimenticare l’influenza avuta nelle opere di molti artisti da parte della cultura africana, ad esempio in Picasso?

Nessuna persona minimamente sensata e colta può negare che nella storia dell’umanità siano esistite forme di colonialismo e di razzismo, ma la storia dell’umanità è un caotico e non lineare evolversi di forze molto più spesso contrapposte che concordi.

A proposito di colonialismo se chiedessimo all’uomo della strada qualche esempio, saprebbe sicuramente citare il colonialismo inglese e quello francese degli ultimi due secoli, ma difficilmente parlerebbe di altri popoli seppur ancor oggi importanti come gli Arabi, i Persiani, i Russi, i Cinesi.

Alla luce del moralismo e dell’anacronismo del politicamente corretto colonialismo è diventata una parola brutta, eppure si parla di colonizzazione greca, ad esempio in Sicilia e nell’Italia Meridionale, difficile da demonizzare. La parola indica la presenza stabile di un popolo o di uno Stato in luoghi lontani dalla madre patria, con evidenti imposizioni che però variano, in modo spesso anche notevole.

Credere che il colonialismo sia un fenomeno moderno ed esclusivamente occidentale è il modo peggiore per studiare la storia dell’uomo.

La vita degli uomini è sempre stata difficile; dai primi popoli nomadi dediti a caccia e raccolta fino al consolidamento di Stati (etimologicamente, “che stanno, che si sono fermati”) si è combattuto per la sopravvivenza e poi per il potere: a tutte le latitudini, da parte di gente di tutti i colori e lingue. La guerra è stata l’attività più frequente nella storia dell’uomo, tanto che la parola pace si definisce in funzione della guerra (sua assenza). Il colonialismo è una forma ambigua che caratterizza le relazioni tra gli uomini: un esempio che trovo significativo è il termine che i Latini usavano per designare coloro che venivano da altri territori: hostis.  Hostis era il viaggiatore che venendo da lontano aveva bisogno di aiuto: da qui la parola ospite, ospitalità, ospedale. Questo era un significato, ma ce n’era anche un altro, molto ben diverso, per il quale era chiaro che dietro lo straniero si poteva nascondere un nemico. Hostis ha anche questo significato, di nemico, da cui derivano parole come ostile, ostilità.

Nella storia dell’uomo ci sono eventi di vera e propria spoliazione che hanno riguardato un po’ tutti, dai Romani che distrussero Cartagine, agli Arabi che operarono la prima tratta degli schiavi, ai capi africani che facevano da intermediari, al Belgio nel Congo. Il colonialismo sotto accusa, quello che riguarda l’Occidente, non fu solo opera di sottomissione, irrinunciabile quando si usciva dai propri confini (pensate all’espansione araba e alla sottomissione dei Berberi), ma lasciarono anche aspetti che potevano germogliare. Cosa sarebbe l’India di oggi senza la diffusione della lingua inglese e del sistema ferroviario? Come era lo Zimbabwe quando si chiamava Rhodesia e cosa è diventato da quando sono stati espulsi i bianchi? L’aspetto principale però non è il bene che ha fatto il colonialismo, ma il fatto che le potenze coloniali occidentali sono le prime ad aver lavorato per la decolonizzazione, a partire dai 14 punti di Wilson del 1918.

Il colonialismo è uno dei fenomeni storici più diffusi dalla comparsa dell’uomo sulla Terra e ogni evento va studiato in un contesto storico e geografico complessivo, al di fuori di giudizi moralistici che offuscano la mente. Oggi, e da molti decenni, i paesi occidentali hanno rinunciato a ogni forma di colonialismo, cosa che altri non hanno fatto: i Russi, i Cinesi, gli Iraniani ad esempio.

Usare l’espressione “colonialismo” per demonizzare l’Occidente è quanto di più falso (e ridicolo) si possa dire: solo in Occidente qualsiasi forma di cultura trova la possibilità di espressione.

Lo stesso discorso vale in sostanza anche per il “razzismo”, dove però occorre distinguere tra ciò che appartiene al pensiero e ciò che riguarda le azioni. Nel momento in cui un popolo, attraverso lo Stato di cui è espressione, decide di estendere il proprio potere è inevitabile che il conflitto si avvalga anche di forme di disprezzo: è ciò che ci insegna la Storia, di tutti i Continenti e di tutte le epoche. Tanto per restare negli ultimi 100 anni possiamo citare forme di razzismo russo nei confronti degli ucraini e dei baltici, quello cinese attuale nei confronti degli uiguri, quello birmano (buddista) verso i bengalesi (musulmani), il reciproco razzismo tra pachistani (islamici) e indiani (induisti), dei palestinesi verso gli ebrei, del razzismo bantu verso gli zulu (entrambi neri) in Sud Africa. Potremmo continuare in ogni parte del mondo. Anche all’interno degli Stati si possono presentare forme simili: gli abitanti del Nordeste del Brasile, in gran parte di origine africana, sono derisi dai più “progrediti” del Sud perché considerati di limitata intelligenza.

Eppure, il politicamente corretto si concentra sul razzismo dei bianchi americani verso i neri e i nativi o dei bianchi australiani verso gli aborigeni. Cosa è se non vittimismo, visto che non sembrano essere coinvolti né cinesi né indiani e neanche i latini (nonostante il tasso di criminalità)? Certo anche in Italia si può parlare di sentimenti razzisti di una piccola parte della popolazione, soprattutto perché la convivenza con chi proviene da altre zone del mondo richiede un salto culturale, ma episodi di aggressioni motivate da forme di razzismo sono quasi inesistenti, da non paragonare alle spedizioni birmane contro i profughi provenienti dal Bangla Desh, o gli attacchi dei bantu sudafricani agli immigrati dallo Zimbabwe e dalla Nigeria. Il punto è che nei paesi occidentali la libertà ha permesso una maggiore conoscenza di chi viene da fuori, al di là di voler aiutare, e questo ha favorito l’integrazione e fatto sì che il fenomeno sia notevolmente ridotto.

Parlare dunque di razzismo per i fenomeni di appropriazione culturale si rivela un non-sense, perché proprio grazie alla libertà che vige nei paesi occidentali etnie diverse possono riunirsi, esprimersi, e ottenere interesse e riconoscimento da parte delle popolazioni locali (vedi l’arte, il cinema e la cucina etnici).

P.S. In Oregon a Portland un bianco aprì un ristorante di cucina messicana; accusato di indebita appropriazione culturale, fu minacciato e costretto a chiudere. Mi sono chiesto: i clienti dovevano essere solo messicani? e poiché la cucina era dello Yucatan a un tapatio di Guadalajara sarebbe stato permesso gestirlo e frequentarlo?