2- BURQA E DINTORNI
Il Burqa non è altro che uno dei tanti veli che l’Islam impone alle proprie donne ed è quello che meglio di altri esprime la volontà di nascondere e far scomparire la figura femminile. Il termine generico per sottolineare la necessità di coprire il volto femminile è “velo islamico”, altri termini che possiamo trovare sono “chador, hijiab, niqab, burqini”. La caratteristica del burqa nelle sue varie versioni è che permette soltanto di vedere e respirare in un cappuccio che di fatto rende irriconoscibile la persona che lo indossa, che potrebbe anche essere un uomo. In genere viene accompagnato da una specie di saio che trasforma la persona umana in un manichino o un insaccato.
In Francia, in Belgio e nel Canton Ticino esso è stato proibito per ragioni di ordine pubblico diventate sempre più pressanti dopo i numerosi attentati terroristici. In Italia esiste da sempre una legislazione che, pur non citando espressamente i veli islamici, prevede il divieto di girare con il volto coperto perché l’alterazione dell’aspetto rende difficoltosa l’identificazione del soggetto.
Il divieto del volto coperto è così previsto quando un soggetto circoli o si trovi in un luogo pubblico, aperto al pubblico o partecipa a una manifestazione che si svolge in questi luoghi. L’uso del casco protettivo o di altri strumenti di protezione del volto è ammesso solo quando è previsto per la pratica di un certo sport e nei casi in cui sussiste un giustificato motivo (pensiamo al motociclista tenuto per legge a indossare il casco).
E veniamo ora a come il politicamente corretto ha eroso nel corso degli ultimi tre decenni questo spazio di libertà e sicurezza. Parlerò poi di come dal velo si è passati al tentativo di giustificare altre pratiche.
Si cominciò all’inizio cercando di minimizzare il fenomeno citando l’esempio delle suore, cercando di far credere che si trattasse di persecuzione antiislamica che si sarebbe nel corso degli anni consolidata sotto forma di “islamofobia”; eppure, le suore non hanno il volto coperto e solo un tessuto non dissimile dai cappucci di molti abiti.
Si passò poi a relativizzare l’argomento, giustificandone l’uso in termini di tradizione culturale specifica che, essendo un paese democratico, dovevamo rispettare proprio per la diversità. Questo argomento, della legittimazione culturale, è quello che, in questo come in altri campi, viene ancora oggi usato molto, perché dietro c’è una ampia ideologia che ha rifiutato di fatto i valori di una liberaldemocrazia approdando a un relativismo culturale sempre più ampio: “è la loro cultura, dobbiamo rispettarla”. Per come la diffusione di questo elemento sia andata in profondità devo raccontare un episodio. Nella Piazza del Comune di una importante città toscana io e un amico vedemmo due donne col burqa, completamente non riconoscibili; ci rivolgemmo a un poliziotto che stazionava lì vicino e questi disse che non poteva farci nulla perché “è la loro cultura”. Finché queste opinioni restano tra amici, fanno parte delle numerose affermazioni a ruota libera senza alcuna pretesa, ma quando a farle è un pubblico ufficiale allora ciò vuol dire che tali valutazioni sono penetrate in profondità, così che le norme rischiano di essere un optional.
Andiamo avanti.
La fase successiva, legata alla precedente, riguarda la libera scelta. Si cominciò infatti a sostenere che le donne islamiche che indossano i vari tipi di velo lo fanno per libera scelta; ci furono alcune interviste che lo spiegavano, ma è chiaro, anche solo dalla cronaca, che la sottomissione al maschio è non solo una pratica comune nelle famiglie islamiche, ma è legittimata dalla teoria religiosa, per cui possono parlare solo coloro che non mettono in discussione quel sistema. Chi si ribella, anche solo vestendo diversamente o scegliendo liberamente un fidanzato, fa una brutta fine. Per fortuna ci sono anche testimonianze coraggiose, tra cui quelle di Ayaan Arsi Ali, autrice di NON SOTTOMESSA (Ed. Einaudi, 2005): un quadro vissuto dall’interno che mostra come non sia la libertà, ma la paura e la sottomissione a vincere anche in una questione così semplice come l’abbigliamento.
Il libro presenta situazioni drammatiche vissute dalle donne nelle comunità musulmane sia nei paesi d’origine sia nei paesi occidentali dove emigrano: si tratta di storie che la scrittrice ha vissuto in prima persona sia sulla propria pelle sia in seguito al racconto delle persone con cui per il suo impegno civile è entrata in contatto. Talvolta se ne legge sui giornali e inorridiamo, talvolta (anche se raramente) se ne vede le movenze in qualche film coraggioso, ma il vantaggio del libro è che qui ci si rende conto di quanto queste storie siano comuni, tristemente comuni. Non serve a nulla minimizzare. Il libro però non è solo un libro di cronaca, giornalistico, e la denuncia non traspare solo dalla fotografia delle situazioni presentate, perché Hirsi Ali spiega il legame tra i numerosi avvenimenti riportati e il retroterra culturale in cui sono inseriti e di cui sono espressione. Questo retroterra culturale è strettamente legato alla religione, una religione che, come abbiamo visto in un’altra recensione, viene presentata come universale senza tener conto delle sue radici storiche che risalgono al VII secolo d.C. Essendo vissuta come universale essa risulta intangibile e non discutibile. Il messaggio è chiaro e ben costruito: il solo voler discutere il Corano implica l’essere blasfemi e offendere il Profeta, persona che, come recitato in continuazione, non può essere dispiaciuta.
La scrittrice vorrebbe che si discutesse liberamente, ma quando ha cominciato ad esprimere i suoi dubbi è stata subito esclusa dalla comunità in cui viveva e addirittura ha ricevuto minacce di morte, perfettamente credibili dopo l’assassinio del regista (Theo Van Gogh) con cui aveva lavorato. È per questo motivo che il suo appello è rivolto alle donne musulmane e allo stesso tempo a chi ha voce nel mondo libero ed è proprio rispetto a questo che ha difficoltà a comprendere l’atteggiamento “politicamente corretto” di molte persone, intellettuali e politici, che minimizzano, giustificano: in questo modo lasciano le donne nelle mani dei loro carnefici e impediscono che la libertà di espressione sia patrimonio anche di chi crede nell’Islam.
Il riconoscimento dei diritti della persona e in particolare della donna è ampiamente condiviso. Esistono però associazioni che si ergono a difensori di pratiche non accettabili con la scusa della diversità culturale. Alla fine del 2019 l’Associazione degli studi Giuridici sull’Immigrazione, gli Avvocati per Niente Onlus, l’Associazione Volontaria di Assistenza sociosanitaria e per i diritti dei Cittadini stranieri, Rom e sinti e la Fondazione Guido Piccini per i Diritti dell’Uomo Onlus avevano portato in tribunale la Regione Lombardia dopo l’approvazione della delibera del 2015 che vietava, per ragioni di sicurezza, l’ingresso alle donne con il burqa in luoghi pubblici.
La Corte d’Appello per fortuna ha ritenuto corretta la delibera della Regione Lombardia
confermando quanto già stabilito con sentenza il 20 aprile 2017 in primo grado dal Tribunale di Milano e cioè “il divieto di ingresso a volto coperto posto nella delibera appare giustificato e ragionevole alla luce della esigenza di identificare coloro che accedono nelle strutture indicate, poiché si tratta di luoghi pubblici, con elevato numero di persone che quotidianamente vi accedono per usufruire di servizi; pertanto è del tutto ragionevole e giustificato consentire la possibilità di identificare i predetti fruitori dei servizi“.
Di recente in una sentenza il Giudice ha assolto il marito musulmano dall’accusa di violenze ripetute nei confronti della moglie, bengalese anche lei. Le parole messe nero su bianco dal PM le attribuivano una sorta di colpa, poiché la donna, nata e cresciuta nel nostro Paese, aveva “inizialmente accettato” i valori di cui l’uomo “si era fatto fieramente latore”, per poi giudicarli “intollerabili perché cresciuta in Italia e con la consapevolezza dei diritti che le appartengono”. L’ex marito, invece, secondo il PM Antonio Bassolino, non intendeva “annichilire e svilire la coniuge per conseguire la supremazia sulla medesima”, ma era anch’egli vittima del contesto culturale in cui è stato allevato, dove è ben radicata la disparità tra uomo e donna.
Sebbene l’assoluzione sia avvenuta per altri motivi, è veramente sconcertante leggere quanto riportato dal PM, evidente frutto di una cultura giustificazionista che è penetrata in profondità.
Il fenomeno del Burqa ha svelato molte altre ipocrisie del politicamente corretto, come ad esempio quella delle mutilazioni genitali femminili e della poligamia.
Clitoridectomia e infibulazione (cucitura delle labbra), pratica purtroppo ancora diffusa nel mondo islamico, fu fin dall’inizio giustificata sempre “culturalmente”, come tradizione di un popolo che dovevamo rispettare. Si cominciò dicendo che era una tradizione dei popoli nomadi e non musulmana, come se il fatto che l’origine non fosse islamica ne diminuisse la responsabilità. Poi si cercò di sottostimare il fenomeno per non disturbare la coscienza musulmana, ma, solo dopo le numerose testimonianze e da pochi anni, si è cominciato a considerare quelle pratiche come qualcosa da condannare e impedire.
Per quanto riguarda la poligamia essa è dichiarata come legittima dai testi sacri e come tale ampiamente diffusa tra la popolazione musulmana. I disastri del politicamente corretto emergono nel nascondere il fenomeno nei paesi occidentali, soprattutto in Europa, dove è vietata. Avendo vissuto in Francia è nota la presenza nelle famiglie, soprattutto arabe, di due o tre donne adulte che vengono presentate come “zie”, ma che in realtà sono vere e proprie spose. Il politicamente corretto finge di non vedere e invece di indagare seriamente accetta la situazione per non disturbare la comunità musulmana, che nel frattempo ha creato, ottenendo un lasciapassare, l’epiteto di “islamofobia”: non semplice paura, ma odio per chi osa discutere o criticare comportamenti nella comunità musulmana.
Non c’è bisogno però di ricorrere ai casi più facilmente criticabili come l’infibulazione e la clitoridectomia, che sono vere e proprie deturpazioni del corpo femminile, vera e propria violenza fisica, perché dietro il Burqa c’è una cultura che riconosce la potestà del padre, del marito, del fratello. In Italia abbiamo visto episodi di violenza della famiglia nei confronti delle proprie figlie, il cui unico torto era quello di amare un occidentale.
Un ultimo aspetto, che avrò modo di riprendere, riguarda la critica feroce al “patriarcato” in Occidente proprio mentre in Iran si uccidevano centinaia di donne perché senza velo.
In realtà il dramma a cui ci sottopone il “politicamente corretto” è questa ipocrisia che impedisce di guardare in faccia le realtà che meriterebbero maggiore attenzione, invece di sparare a zero contro quella cultura, la nostra cultura, che, seppur faticosamente, ha dato finalmente un senso e una dignità alla vita di metà del genere umano.