C 2- COMUNITA’ –

Può sembrare strano che una parola semplice e comune possa rientrare all’interno del “politicamente corretto”, in fondo siamo tutti i membri di una comunità, più o meno ampia, più o meno interessante: come diceva Aristotele, “l’uomo è un animale sociale”. Posso ridurre la mia comunità all’ambiente familiare o allargarla ad amici e in ambito professionale, sportivo, di hobby, insomma viviamo tutti inseriti dentro  una comunità che può starci stretta o essere una zona di conforto. Sembrerebbe dunque che non esista nulla, nessuna parola, più neutra di questa.

Eppure, è diventata il discrimine di un comportamento etico che viene trasformato in giudizio morale.

Da sempre c’è stata una differenza anche conflittuale tra chi sosteneva il primato della società e chi invece riconosceva che l’individuo doveva essere il punto di riferimento. I primi erano in genere i cattolici e i comunisti, i secondi i liberali, accusati, anzi tacciati di “egoismo”. Dibattito che non coinvolgeva la gente comune che, anche quando esaltava la solidarietà e l’altruismo, prima di tutto pensava al bene proprio e della propria famiglia.

Naturalmente tutto è stato trasformato dall’avvento di una società dove la massa era in qualche modo depositaria di una certa cultura. Da allora il dibattito si è trasformato in un conflitto reso ancora più pesante dal fatto che comunisti e cattolici, seppur politicamente divisi, sono andati sempre più avvicinandosi in una forma di generico anticapitalismo. Crollato il comunismo e privato il cattolicesimo di ogni afflato spirituale, è rimasto il terreno comune del “primato del sociale” con tutti i suoi derivati come solidarietà, altruismo, fratellanza, partecipazione, vicinanza agli ultimi, ai poveri, agli sfruttati ecc.

Purtroppo, questi elementi appartengono a un ambito che non è né politico né sociale, ma esclusivamente morale e in parte etico; ciò vuol dire che al di là di comportamenti individuali, discutibili o esaltabili, quei valori non sono in grado di innescare cambiamenti e tanto meno miglioramenti della vita sociale.

Se un imprenditore partisse da quei presupposti, cesserebbe la sua attività e “gli sfruttati” non avrebbero una fonte di reddito. L’esperienza di San Francesco non può essere un riferimento sociale, ma una scelta solo individuale.

Lo si è visto come è stato criminalizzato il merito e come questo fatto abbia indebolito la società: dal sei politico in poi fino all’attuale attribuzione di colpe al sistema scolastico per la presenza dei voti.

Su questo terreno di coltura, reso virulento dal matrimonio tra cultura di massa e Sessantotto, si è proceduto in modo sistematico nella valorizzazione del concetto di “comunità”.

Prendiamo in considerazione il tema delle quote, rosa o etniche, che ha richiesto negli USA un intervento della Corte Suprema perché esso era andato troppo oltre privilegiando gruppi a scapito di individui meritevoli, creando una realtà di privilegiati solo perché donne e neri, senza tener conto che ad essere danneggiati erano anche studenti di altre etnie, come i diversi gruppi orientali.

Sulla scia della così detta “affirmative action” americana si sono mossi anche altri paesi e ad esempio in Brasile si sono create quote “nere” per l’accesso all’Università. La cosa assurda, proprio per le caratteristiche del paese, è che la mescolanza etnica in Brasile è tale che risulta difficile identificare un black al 100%. Lo stesso vale negli USA, vero e proprio melting pot: norme a favore di ispanici sono risultate assurde, ma confermate, dal momento che tra gli ispanici ci sono anche gli eredi dei conquistadores e delle classi dominanti.

Ciò che va messo in discussione è proprio il concetto di comunità così come è andato consolidandosi nei paesi liberaldemocratici, sostituendosi a quello che era stato l’approdo della storia dell’umanità, il concetto di individuo.

Questo è il punto su cui riflettere.

Non si tratta di demonizzare un atteggiamento positivo nei confronti degli altri, anzi dell’altro, del diverso da noi, ma di contestare il valore positivo del concetto di comunità quando esso va a intaccare le dinamiche sociali, in termini di riconoscimento e giustizia.

La storia dell’uomo ha fatto passi enormi nell’affermazione del valore della persona. Si è partiti dalle comunità tribali, si è passati a comunità censuarie (patrizi e plebei), si è arrivati a gerarchie comunitarie nobili, a comunità religiose, a comunità sociali (schiavi e padroni): alla fine del percorso si è riconosciuto il valore dell’individuo, di ogni singolo individuo. I sistemi politici hanno riconosciuto attraverso il voto il suo ruolo determinante, la religione cristiana attraverso il concetto di persona ha fatto della salvezza-condanna un problema individuale, la legge parla di responsabilità sempre individuale.

Il tentativo di valorizzare l’aspetto comunitario, così diffuso e frequente oggi, è un modo per tornare indietro a qualcosa di già visto e che allora aveva le sue giustificazioni.

Non si tratta solo di un errore, teorico e storico, ma di qualcosa che invece di favorire una pacifica convivenza risulta essere una fonte di conflitti e di scontri.

Ragionare in termini di comunità significa procedere ad una astrazione dalla realtà, salvare una parte per combattere l’altra.

Le guerre di religione, oggi riproposte all’interno dell’Islam, hanno mostrato come il “comunitarismo” sia fonte di distruzione e non di costruzione. Le comunità cristiane hanno smesso di combattersi tra di loro da alcuni secoli (pace di Westfalia 1648) proprio perché hanno eretto alla base della costruzione della società i diritti individuali. Altrove ciò non succede: nell’Islam si è combattuto pochi anni fa e ancora oggi tra sciiti e sunniti, nei paesi islamici la guerra al cristiano e all’ebreo è fatto reale, mentre alcune formazioni militari e l’Iran vogliono la distruzione di Israele; in India lo scontro tra la comunità induista e quella islamica è ricorrente e sembra allargarsi.

Non c’è solo il comunitarismo religioso ma anche quello etnico, come dimostra l’aggressione russa all’Ucraina, i conflitti tra etnie in Africa, lo scontro tra Pakistan e India e altrove: in Occidente paesi che si sono per secoli confrontati in guerre sanguinose, come la Francia e la Germania, ormai convivono pacificamente e i confini sono di fatto annullati.

Questo a livello di macrocosmo. Lo stesso avviene a livello di microcosmo.

Le pretese della comunità nera negli Stati Uniti sono l’esempio più significativo e mettono in luce una delle caratteristiche distruttive del comunitarismo, la mancanza di responsabilità verso se stessi, una deresponsabilizzazione diffusa, il vittimismo come agente vitale. Mentre parte della comunità che comunque rappresenta solo il 12% della popolazione, si è integrata accedendo a posti di responsabilità e di grande riconoscimento professionale, il lamento vittimista continua ad essere la cifra marcante. Le famiglie nere, quasi sempre nelle mani delle donne con tanti figli già poco più che adolescenti, restano fuori dalla riflessione: il confronto con altre comunità, come quella indiana, cinese o coreana chiarisce bene quanto possa essere fatto, ma non viene fatto.

Lo stesso vale per il vittimismo femminile e di altri soggetti che hanno scelto la strada della omogeneizzazione comunitaria, pur con grandi contraddizioni: di ciò parlerò in capitoli specifici.

Può sembrare azzardato stabilire un legame tra comunità etniche o religiose e comunità di genere o simili; penso invece che ciò che le accomuna, il loro riconoscersi come comunità e non come insieme di individui, li ponga in una posizione solo apparentemente di forza (il numero), ma di reale debolezza (la storia).

Come il comunismo è fallito nella pretesa di essere la bandiera della comunità proletaria, così queste nuove tendenze non hanno prospettiva, perché pretendono di parlare a nome di tutte-tutti, quando invece il riconoscimento individuale ha fatto breccia ed è la base delle società democratiche.

La valorizzazione comunitaria, l’esaltazione del sociale, lo strepitio della solidarietà sono il rifugio morale e moralistico di coloro (e sono tanti) che hanno perso la bussola di fronte alle enormi trasformazioni dell’ultimo secolo. I lanternini hanno preso il posto dei lanternoni, come scrive Pirandello; ma non ci si vuole arrendere agli effetti di quelle trasformazioni e, non potendo incidere concretamente sulla realtà, si ricorre all’astrattezza della morale, alla dichiarazione di ciò che è Bene e ciò che è Male. Non ci si accorge in questo modo che una figura completamente nuova ha sostituito la dimensione comunitaria e questa figura è l’individuo, con il risultato che si assiste impotenti a fenomeni non nuovi ma diventati estremamente diffusi. Lo si vede nella confusione che regna nella scuola, nelle famiglie, nello sport, dove al richiamo sociale si contrappone sempre di più la pretesa di protagonismo dell’individuo.

Ciò non vuol dire che tutte le manifestazioni individuali che rendono ricca la cronaca siano positive, anzi spesso sono controproducenti, ma finché non si sarà preso atto di questa trasformazione sarà sempre più difficile incanalare quelle energie in una direzione positiva e costruttiva.