D – DIVERSITA’
Questo termine è diventato comune e quasi di moda solo da qualche decennio, perché in precedenza esso esprimeva una lontananza e una vera e propria divergenza da quella che era la nostra (di chiunque) identità.
Etimologicamente diverso deriva da dis-verso, cioè che si volge (vertere) da un’altra parte e in tal senso la sua origine è la stessa di divergente, esprimendo un concetto molto più ampio rispetto all’opposto, cioè all’in-verso, perché questo si caratterizza per una netta contrapposizione (180°), mentre si può essere diversi in modi molto più numerosi (tra 1° e 179°).
Non appaia strano che la parola divertimento abbia la stessa origine di diverso, perché anch’essa indica il fare qualcosa che non è comune, normale, consueto.
Siamo così arrivati al punto di partenza: la diversità presuppone la normalità, la consuetudine, tutto ciò che per “norma” o “costume” ha un riconoscimento sociale. Oggi tutti per essere moderni si pavoneggiano dietro il mantra della diversità, senza interrogarsi su cosa questa parola abbia significato nel corso dei secoli e come solo nel mondo occidentale abbia potuto avere diritto di residenza. Come per altre cose, tutte quelle che analizzo in questo lavoro, è in Occidente che si scopre il valore assoluto di questa parola, senza accorgersi delle contraddizioni e degli equivoci che si celano dietro e nelle sue vicinanze.
La metafisica è stata l’alternativa laica e logica alla religione, con innegabili vantaggi rispetto ad essa; il primo fra tutti e di maggior conto è il fatto che il conflitto tra idealisti e naturalisti, stoici ed epicurei, agostiniani e aristotelici, kantiani, hegeliani ecc. quasi sempre si è compiuto con l’arma della penna e non con le armi vere e proprie. È cosa di non poco conto. Mentre altrove l’assolutismo religioso, in genere islamico, cerca di distruggere gli ebrei e vorrebbe cancellare anche i cristiani dalla faccia della terra, in Occidente siamo orfani della metafisica da più di un secolo, grazie a Nietzsche, ma, come tutti gli orfani, non si è stati capaci di farne a meno. Non abbiamo elaborato il lutto. Così ogni scoperta, che la riflessione inesauribile a cui siamo abituati svela, tende a diventare il nuovo valore assoluto, senza troppo soffermarsi proprio su ciò che la filosofia ha lasciato in eredità: il metodo, il logos, il ragionamento.
La religione, la metafisica, la scienza moderna sono fondate su principi che pretendono di essere universali: è l’espressione del carattere semplice della società. La riflessione in Occidente è stata capace di superare ostacoli e barriere, di creare strade e individuare nuovi orizzonti, garantendo a tutti migliori possibilità di riflessione e migliori condizioni di vita.
E così per primi ci siamo interrogati sul senso di ciò che si possa ritenere normale e diverso, offrendo attraverso soprattutto la letteratura una risposta parziale che non accettava più la categoria normale che si pone in antagonismo con ciò che è diverso. Dall’Io è un altro di Rimbaud al profondo scavo di Pirandello e delle sue maschere non ci si è più accontentati di ciò che per secoli avevamo ritenuto confacente alla norma, cioè normale. Il fatto che la letteratura, e l’arte in generale, abbiano messo in discussione queste categorie, non significa che non abbiano continuato a prosperare a livello popolare. Fino agli anni ’70 del secolo scorso l’omosessuale era un diverso e termini spregiativi venivano usati, dal più semplice “dell’altra sponda” al “finocchio” che tutti conosciamo. In compenso, rispetto a tanti altri paesi, islamici e non (es. Russia o India) l’omosessualità non era reato: era il modo occidentale di procedere per piccoli passi, anche tornando indietro ma sempre poi superando il punto di partenza. Il diverso per eccellenza era il pazzo, colui che, a parte il caso di difetti neurologici, si comportava in modo molto strano, talvolta curioso e bizzarro, talvolta disturbando e creando scompiglio.
Oltre la religione, oltre la metafisica si apriva uno spazio che era una vera e propria “terra incognita” che ben presto venne occupata in modo estremo, cioè dall’altra parte. Come sempre succede ai neofiti.
Alcuni esempi possono aiutarci a capire.
I “pazzi” venivano ospitati, e curati, in ospedali appositi che chiamavamo “manicomi”, dove si praticavano trattamenti che oggi consideriamo aberranti, ma che seguivano l’evolversi della ricerca medica. Avere a che fare con persone “diverse” non era facile e dunque erano frequenti i casi di maltrattamenti veri e propri, non giustificati ma neppure che rappresentavano la norma. Così fu deciso di abolirli, nella convinzione-presunzione che, avendo espresso dei dubbi su ciò che è normale, allora qualsiasi comportamento doveva essere considerato normale. Conseguenza priva di complessità fu la decisione di chiudere i manicomi. Come era prevedibile, non tutte le famiglie furono in grado di accogliere il ritorno a casa e il danno fu tale che si dovette fare marcia indietro, creando strutture che in qualche modo coprivano il vuoto assoluto che era stato creato. Nonostante ciò, ancora oggi esistono intellettuali che osannano quell’esperimento come una tappa decisiva per la “liberazione” dell’uomo.
Un caso simile ha riguardato i colpevoli di reati, anche gravi, cui venivano (e vengono) concessi diversi privilegi, riduzioni della pena, permessi premio, condanne sempre più ridotte: il tutto con la convinzione-presunzione che l’uomo è buono, ma è la società che lo rende cattivo (da Rousseau). La colpa era della società e così molti detenuti, una volta fuori, reiteravano il reato, compresi aggressioni e omicidi. La California oggi sta pagando questa presunzione, ma è un sistema che riguarda tutto l’Occidente: punire non è più concepibile, l’obbiettivo deve essere la riabilitazione. Anche in questo caso si è proceduto andando all’estremo opposto: poiché le carceri sono sempre state un luogo in cui non sempre le cose andavano come previsto dal protocollo si è preferito dar vita a un sistema meno punitivo.
Un altro caso lo abbiamo visto in questi anni negli Stati Uniti dove una campagna di criminalizzazione della polizia la presentava solo come un insieme di persone che uccidevano i malcapitati, soprattutto neri. Episodi gravi e deprecabili, ma che non meritavano tutta quell’attenzione che è stata loro dedicata. La conseguenza, ancora una volta estrema è stata la campagna “defund the police”, “togliere i fondi alla polizia”, che ha ottenuto anche una sua applicazione registrando il totale fallimento. In un ampio quartiere di Seattle, noto avamposto liberal, sono stati diminuiti i fondi alla polizia, che si è trovata con minori mezzi e un numero minore di agenti. Nel giro di qualche settimana i reati sono aumentati in modo vertiginoso, tanto che la Pubblica Amministrazione ha dovuto fare marcia indietro.
La diversità dell’omosessuale, del pazzo, del criminale in questo nuovo approccio ha comportato che a trovarsi dall’altra parte, quella dei diversi, fossero i medici e gli infermieri dei manicomi, le guardie carcerarie, i poliziotti e persino gli eterosessuali che diventano, secondo una lettura abbastanza presente, i protagonisti del regime patriarcale che è alla base di tutte le ingiustizie.
Il senso comune ha la meglio anche in questo caso, nonostante i proclami e gli anatemi provenienti da una cultura sedicente alta. E lo si trova nei video di Instagram o Tik Tok. Ad esempio, con la contraddizione di Robin Hood, che rubava ai ricchi per dare ai poveri, trasformando i ricchi in poveri a cui, secondo logica, Robin Hood avrebbe dovuto poi ridare i beni. E così via.
L’errore della diversità sbandierata come valore al di sopra di ogni valore comporta proprio questa ineliminabile contraddizione. Se la diversità è una categoria generale da impugnare come chiave di lettura e metro di giudizio essa perde ogni contenuto razionale o permette la giustificazione di tutto e tutti, anche degli eventi e delle persone che praticamente tutti valutiamo negativamente.
Non c’è dubbio che Hitler fosse diverso, anzi ancora per molti era un pazzo. Egli è l’esempio più significativo del concetto di diversità e l’elemento più importante per non fare della diversità un principio astratto, generale, astorico. E con Hitler naturalmente anche l’evento dell’Olocausto.
Può sembrare una forzatura, ma non lo è, nel momento in cui si pretende di riconoscere alla diversità un valore dominante; non è una forzatura, ma il semplice sviluppo logico di un principio messo a confronto con la realtà.
Se usciamo dall’ideologia ci accorgiamo che certe esigenze, certe richieste vengono stravolte e collocate agli estremi ottenendo un riconoscimento parziale, ma comunque distruttivo. L’ideologia si presenta come un insieme di stereotipi apparentemente privi di forza, ma in realtà, come mostrato in modo approfondito da Hanna Arendt, essa è capace di agire in modo potente. Come fanno tutte le idee. Con la differenza che presentandosi come formule assolute e immutabili risultano difficili da contestare e soprattutto risultano incapaci di aprirsi a un confronto. La conseguenza è che le posizioni ideologiche prosperano solo in ambiti semplici, da persone semplici che usano un metodo semplice. Il diritto dell’omosessuale a non essere criminalizzato non significa criminalizzare l’eterosessuale, anche se in passato è stato vittima di persone chiaramente eterosessuali.
L’ideologia fa tutt’uno con la morale ed entrambe sono lì col dito puntato a giudicare e condannare. Un approccio capace di valorizzare la diversità deve fare riferimento alla Storia come flussi evolutivi e alla Legge: la Storia permette di contestualizzare i fenomeni evitando anacronismi e moralismi, cioè generalizzazioni codificate e immutabili; la Legge è solo quella che si articola all’interno dello Stato di diritto, perché è l’unico che permette di dialogare con la società aperta provvedendo a correzioni e cambiamenti.
Come tutte le cose, anche i pensieri e gli atteggiamenti seguono un’evoluzione storica e geografica. La diversità è un concetto che in tempi lontani esprimeva la distanza dalla consuetudine e dai valori, tanto che essa rappresentava solo un dato di fatto, qualcosa che non poteva non essere vera. Come scrisse il poeta Guittone nel 1200: “Omo bono vede in de la cosa ciò ch’è in essa: onde siccome sano giudica e dolce il dolce e amaro l’amaro, e infermo giudica per contrario”. E così Dante, parlando dei Genovesi, li considera “uomini diversi” perché “pien d’ogni magagna”. Appariva talmente ovvio e netto quel concetto che esprimeva filosoficamente il carattere particolare delle cose: queste avrebbero trovato unità in qualcosa di superiore, l’idea o Dio.
Già i Greci chiamavano barbari coloro che parlavano una lingua non comprensibile, e dunque stranieri, accentuando, nella guerra contro i Persiani, il connotato ironico e di scherno.
La diversità intesa come ostilità è un fenomeno comune alla storia di tutti i popoli ed era una necessità perché la comunità, statuale o no, fosse forte e non presentasse crepe. L’identità presuppone la diversità. Per essere Noi occorre vedere i limiti, i confini che ci separano da chi Noi non è, cioè Loro: posso farti entrare in casa mia, ma a condizione che tu riconosca la mia proprietà.
Il contesto in cui operano le cose muta nel corso dei secoli facendosi sempre più complesso, dando vita a reti che presentano più nodi, cioè più soggetti coinvolti, mentre cresce anche il numero delle relazioni. Non è solo una questione numerica, perché le relazioni si fanno più intense e meno facili da decifrare: questo vale per le cose come per le parole. Così è successo anche per “diversità”. Ciò si è realizzato grazie ai cambiamenti avvenuti nelle società occidentali, sempre più aperte a livello sia istituzionale sia culturale: il dibattito non è mai mancato e questo ha favorito il sorgere di sempre nuove idee, spesso combattute anche duramente, ma poi accettate come la caratteristica essenziale per migliorare la condizione degli uomini.
Riconoscere la diversità è un valore solo se non si presenta in termini assoluti, ma si pone come relazione e solo così è possibile realizzare una migliore conoscenza, degli altri e di noi stessi. È un problema di responsabilità, perché la relazione stabilisce allo stesso tempo una vicinanza e una distanza: siamo vicini perché operiamo nello stesso ambiente, ma non siamo eguali e l’altro è sempre, inevitabilmente, diverso. Solo portando alla luce questa relazione posso dare valore anche a ciò che si presenta come diverso, che tale rimane. L’errore che il politicamente corretto commette sta nella sua intrinseca contraddizione: si esalta la diversità portata fino agli estremi senza riconoscere che l’identità è tale solo se si presenta diversa dalla diversità. La diversità presuppone il riconoscimento della distanza (minima o massima) dall’identità: si tratta di due nodi o hub di una rete che pretendono un riconoscimento, che non è scontato e che può trasformarsi in conflitto. Perché questa relazione non si trasformi in uno scontro occorre che entrambi abbiano un riferimento comune, che ne garantisca un dialogo costruttivo. Questo riferimento comune non può che essere il carattere storico delle relazioni e soprattutto la Legge intesa come Stato di Diritto, l’unica istituzione capace di favorire il dialogo e di procedere a cambiamenti, perché espressione di una società aperta.
P.S. Quando la diversità fece la sua comparsa qualche decennio fa essa si presentò come anticonformismo, una trasgressione capace di indicare nuovi orizzonti, ma lentamente è andata trasformandosi in qualcosa di conformista: il conformismo della trasgressione. Oggi il politicamente corretto si presenta come l’alternativa alla crisi della filosofia e della scienza, alla crisi dei valori assoluti e universali: fosse solo una serie di opinioni sarebbe una di più che si confronterebbe con le altre. Ciò che lo squalifica è il fatto di ergersi a valore, principio fondamentale che, incurante di osservazioni-contraddizioni-equivoci, prosegue con la bandiera del Bene che condanna tutto ciò che a esso non si conforma.