E 1 ETICA

Ci fu un tempo, fino a qualche decennio fa, che la parola etica apparteneva ad addetti ai lavori, intellettuali in genere e filosofi in particolare. Poi ha rotto gli argini ed è diventato uno dei mantra della cultura contemporanea e dunque del politicamente corretto. Ho sentito usare questo termine da un commesso del supermercato a cui avevo chiesto la disponibilità di un prodotto; ne troviamo traccia sulle home pages di quasi tutte le aziende ed è ormai il fiore all’occhiello di ogni persona “normale”.

Ci fu un tempo, fino a qualche decennio fa, che la parola dominante in questo ambito, quello del buono e del cattivo, del positivo e del negativo, era morale; Berlinguer e il PCI addirittura fecero della “questione morale” il tema decisivo per il benessere degli italiani.

È curioso che da un punto di vista etimologico le due parole non presentino sostanziali differenze, solo una differente origine geo-linguistica: etica deriva da ethos che in greco ha il significato base di costume, mentre morale deriva dal latino mos-moris che ha lo stesso significato.

Non è mia intenzione, perché non è questo il luogo, sviluppare una riflessione teorica sul mondo che si cela dietro quelle parole; credo che in questo senso il punto di partenza attuale con cui confrontarsi siano le opere di Nietzsche, in particolare “Genealogia della morale” e “Al di là del bene e del male”.

In generale le due parole si distinguono perché morale assume il valore di qualcosa di più ampio che coinvolge valori assoluti che rappresentano il punto di riferimento di epoche, culture e persone. Etica coinvolge invece aspetti più pratici e di comportamento che coinvolgono direttamente le singole persone nelle scelte quotidiane e nella responsabilità di quelle scelte. La morale tende a fornire un quadro di riferimento che mette a nudo la persona in quanto tale e dunque non si perde dietro singoli e specifici comportamenti. Diversamente l’etica ci obbliga a una riflessione continua che riguarda la nostra quotidianità.

Questa quasi sommaria separazione tra una visione più generale (la morale) e una più particolare (l’etica) trova fondamento da quando la parola diventa di uso frequente tra gli intellettuali italiani.

Giamboni (1200) scrive: “l’etica c’insegna a governare noi…a fare virtuose opere”.

La Legenda aurea (1502) scrive ancora più chiaramente: “La filosofia pratica si divide in etica, economia e politica”.

La stessa distinzione è ripresa da B. Varchi (1500) che ne evidenzia il carattere attivo, cioè pratico.

Baldelli (1600): “La proprietà dell’etica è di trattare della vita e dei costumi”.

La stessa caratterizzazione prosegue nel 1700 (Alfieri e Cuoco), nell’800 (Rosmini) e nel 1900 (Croce).

Naturalmente la storia del pensiero, anche religioso, ha fornito definizioni e risposte variegate che possono anche avere maggior valore di quanto da me espresso, ma qui voglio portare alla luce un cambiamento, su cui è difficile non convenire, avvenuto negli ultimi decenni.

Questo mutamento ha fatto spostare l’ago della bussola dalla morale verso l’etica.

In passato la morale era universale e al tempo stesso semplice. La stragrande maggioranza delle persone faceva riferimento ai grandi filoni senza porsi troppe domande e in Italia questi filoni erano quello cattolico e quello comunista. Contrapposti fermamente in campo politico, a livello di costume lo erano più a parole che nei fatti, perché la morale cattolica si era ben radicata e influenzava nel suo conservatorismo anche le persone di fede opposta.

Insomma, anche i comunisti si sposavano in chiesa.

Con la diffusione di una cultura di massa grazie alla scuola per tutti, alla televisione e ai consumi le cose hanno cominciato a cambiare. Sia la versione cattolica sia quella comunista erano basate sulla Fede e dunque su una visione astratta e generale della vita e della realtà, risultando sempre meno attrattive perché lontane dalla vita quotidiana di ognuno. Il presente e il concreto hanno sempre più svolto un ruolo determinante nella vita delle persone, tanto che un motto latino, ovviamente stravolto, è divenuto una parola d’ordine decisiva: non più il Paradiso né il Socialismo, ma il “carpe diem”, “cogli l’attimo”.

È a questo punto che la morale non riesce più a fornire non solo risposte, ma neppure indicazioni e orizzonti, perché troppo generale e incapace di aderire alle quasi infinite pieghe del corpo sociale. Il Bene e il Male, il Giusto e lo Sbagliato intesi come valori indiscutibili su cui fondare la propria esistenza, la propria famiglia e il proprio lavoro escono di scena e ogni piega della società, cioè ognuno, si crea i propri valori: è buono e giusto ciò che mi fa star bene, è cattivo e sbagliato tutto ciò che impedisce la mia felicità. Si tratta di una forma di individualismo che molti attribuiscono al capitalismo, ma che in realtà è il frutto di una trasformazione sociale che libera le energie di ogni individuo. Ciò non è né un bene né un male, ma un semplice dato di fatto che ognuno contribuisce a caratterizzare con le proprie scelte: naturalmente anche in questo caso come per la diversità non si crea nulla se non forme estremizzate di comportamenti che coprono un vuoto. Come la crisi della scienza universale ha comportato il ricorso a un relativismo culturale, così da una morale dei valori si è passati a un’etica dei comportamenti: da una vita buona secondo sani principi a “surf for life, life for surf” e “uno vale uno”.

Incapaci di dialogare con il passato e con la cultura, ci si butta su tutta una serie di attività che cessano di essere hobby per diventare una ragione di vita. È vero che i valori assoluti sono morti e che il ruolo dell’individuo assume un significato determinante, ma questi ha bisogno di una cornice più ampia all’interno della quale inserirsi e a cui fare riferimento. Occorre un collante che dia il senso della comunità a ogni persona, e se anche non si presenta così stringente come la morale di un tempo deve comunque rappresentare qualcosa di più ampio per poter unire le persone.

In un’epoca in cui non si crede più a valori universali ma si sente ugualmente il bisogno di aggrapparsi a qualcosa di più grande della semplice esperienza individuale emerge un insieme magmatico che cerca di tenere in piedi questo universo molto frammentato. Esso è rappresentato dal “politicamente corretto” nel quale, come stiamo vedendo, si collocano svariati segmenti che a loro volta spesso pretendono di svolgere la funzione di guida. Si avvicinano, si uniscono, si separano, ma in tutti c’è la pretesa, che il “politicamente corretto” cerca di interpretare, di diventare il sostituto dei vecchi valori universali. Per poter svolgere questa funzione occorre dar vita a continue battaglie, identificare il nemico, criminalizzarlo (o almeno demonizzarlo) per poter creare la felicità in Terra.

P.S. Ho scritto all’inizio che della parola “etica” troviamo traccia sulle home pages di quasi tutte le aziende ed è ormai il fiore all’occhiello di ogni persona “normale”.

Ciò che un tempo era chiamata “etica d’impresa” oggi è diventato La responsabilità sociale d’impresa (o CSR, dall’inglese Corporate Social Responsibility)” così definito: “è, nel gergo economico e finanziario, l’ambito riguardante le implicazioni di natura etica all’interno della visione strategica d’impresa: è una manifestazione della volontà delle grandi, piccole e medie imprese di gestire efficacemente le problematiche d’impatto sociale ed etico al loro interno e nelle zone di attività.”(da Wikipedia).

 Se andiamo sul sito di Stellantis il gruppo multinazionale a cui appartiene anche la FIAT vediamo come una parte importante è occupata dalla voce “Responsabilità” che si articola nei seguenti punti a loro volta ulteriormente articolati:

Il fatto che il “politicamente corretto” abbia fatto breccia nelle grandi industrie dovrebbe preoccupare, mentre sembra che molti siano i clienti soddisfatti per questa impostazione del tutto ideologica e moralistica.

L’errore consiste nel presupporre che esista una verità che tutti devono accettare e che questa verità obblighi a comportamenti conseguenti, laddove il limite ai comportamenti è stabilito solo dalla Legge che lo Stato approva. Lo Stato deve riconoscere delle verità, non crearle. I soggetti che operano dentro un determinato territorio, imprese organizzazioni o individui, devono essere liberi di muoversi, naturalmente nel rispetto di quelle leggi. La confusione tra principi morali (o etici) e diritto è l’errore macroscopico dal quale è messo in guardia ogni studente di Storia, Scienze politiche, Giurisprudenza: altrimenti si parla di Stato Etico, caratteristica degli Stati dittatoriali.

La funzione di un imprenditore è quella di creare prodotti che il mercato ritenga utili e a buon prezzo, se non lo fa viene punito e deve dichiarare fallimento.

Ci si presenta sul mercato dichiarandosi ispirati da determinate missions, si esibiscono codici etici, elaborati da propri comitati etici, si preparano bilanci sociali, ispirati da concetti quali “sviluppo sostenibile”, e, per finire, non possono mancare i “bollini blu” delle certificazioni etiche.

Ci sono dibattiti, indicazioni da parte di organi importanti come l’OCSE e l’UE su tutti i temi all’ordine del giorno, ma dibattito vuol dire anche diverse valutazioni: un’impresa si fa bella perché si impegna in un codice etico che in quanto tale non è universale e per questo risponde a ideologie in voga nel territorio, mentre il suo compito sarebbe quello, nel rispetto della legge, di produrre beni sempre migliori rispetto a quelli dei concorrenti e a prezzi più bassi.

Tempo fa ci fu una grande campagna di stampa contro “l’olio di palma” e molti produttori alimentari cominciarono a esaltare il proprio codice etico dichiarando il non utilizzo di questo olio; probabilmente ottennero risultati nel breve periodo, ma poi cominciarono a sorgere dei dubbi e quei codici etici si mostrarono per quello che erano, “specchietti per le allodole”. Un’impresa, la Ferrero, non ha mai ceduto al ricatto ideologico e ha continuato a produrre la Nutella dichiarando la presenza di olio di palma. Non ha mai registrato un calo di vendite, anzi la sua espansione è stata notevole in tutto il mondo.

Cosa vuol dire inserire nel codice etico di un’impresa l’espressione “sviluppo sostenibile”? Non esiste una teoria “scientifica” dello sviluppo sostenibile e nessuno Stato può imporre il modo con cui un’impresa contribuisce allo sviluppo. Lo Stato faccia le leggi e ne pretenda il rispetto; lasci agli individui la responsabilità di gestire la propria attività e la propria vita.

Per fortuna nei sistemi democratici se si proibisce l’uso di una sostanza o di un farmaco avviene solo dopo anni di studi: è allora che persone e imprese, eticamente, devono rinunciare a procurarsi quei prodotti.

Con ciò si capisce che il Codice Etico sempre più in voga non è altro che una forma di marketing, rispettabile come ogni pubblicità che cerca di conquistare spazi di mercato, ma solo marketing e pubblicità.

Lasciamo stare il Pianeta, per favore.

Lo stesso vale per i prodotti così detti a “Km zero”, altro specchietto per le allodole praticamente impossibile se non per prodotti residuali e la cui influenza incide per meno dell’1%. Spesso anche i vegetali in vendita nei mercatini provengono da luoghi lontani e quelli offerti dal contadino vicino casa usano risorse di vario genere (dai semi, all’energia, agli antiparassitari, ai concimanti) che non sono prodotti in loco. Non avveniva 50 anni fa e tanto meno avviene oggi.

L’ultimo specchietto è presente anche a Firenze e si chiama “Banca etica”: dice di operare per “il cambiamento positivo per le persone e il pianeta”, presenta foto di manifestazioni con cartelli che dicono “il capitalismo uccide” e simili. Per il resto opera come una banca capitalista, che aspira al profitto, gestisce titoli e naturalmente dipende dal mercato finanziario globale. E’ talmente etica che vuole la pace nel mondo e la felicità per tutti.