I INTERSEZIONALITA’

La parola “intersezionalità” sicuramente non è molto conosciuta e probabilmente chi ne ha sentito parlare avrà difficoltà a spiegarne il senso. Nonostante il successo in campo sociologico, il termine non si è diffuso in maniera così ampia come invece è avvenuto con altre parole di punta come woke o LGBT ecc. In realtà questo è il frutto non solo di una parola che anche fonicamente si presenta complicata, ma anche del fatto che il concetto che si vuole esprimere risulta estremamente confuso e di non facile appiglio.

La teoria sostiene che varie categorie biologiche, sociali e culturali come il genere, l’etnia, la classe sociale, la disabilità, l’orientamento sessuale, la religione, la casta, l’età, la nazionalità, la specie e altri nodi interagiscono a molteplici livelli, non escluso che possano convivere alcuni o tutti.

La prima conseguenza teorica riguarda il fatto che occorre vedere ognuno di quegli elementi di una persona come interconnesso in modo forte a tutti gli altri elementi per poter comprendere completamente la sua identità.

Il passo successivo sposta l’attenzione, in modo arbitrario, sul tema dell’oppressione e in questo senso vuole evidenziare il fatto che tutte le forme di intolleranza che riscontriamo nella società non operano in modo separato, ma sono interconnesse, da cui l’origine del termine: interconnessione cioè “intersezione”.

Ciò che è concettualmente significativo in tutto ciò e che tiene insieme i vari aspetti della teoria è il rifiuto di considerare l’esperienza personale come formativa di un’identità, formazione che si caratterizza per una dimensione comunitaria (vedi il capitolo: “Comunità”).

L’intersezionalità si propone come terreno di amalgama e superamento delle divisioni che le varie comunità “oppresse” di fatto hanno creato, valorizzando come elemento principale il terreno di cui si occupano e per cui sono nate. La convivenza intersezionale risulta non facile e particolarmente complicata come di fatto avviene per tutte le categorie comunitarie sorte a partire da un problema specifico. Il tentativo di procedere a un concetto unificante, come tutti quelli verificatisi nella storia del pensiero, ha bisogno di procedere per astrazioni, dando vita a un fenomeno che, di astrazione in astrazione, identifica l’elemento che accomuna tutte le componenti. In questo senso la teoria dell’intersezionalità crede di aver trovato il nodo unificante nel concetto di oppressione; la Storia non conta più, esistono solo sfruttatori-oppressori e sfruttati-oppressi: donne, gay, nativi americani, chicanos, afroamericani. Diversamente dalle rivoluzioni così dette proletarie che si sono trasformate in bagni di sangue, il movimento pretende dei risarcimenti, in che forma non è chiaro, ma tanto basta per fare proseliti e affermare il proprio potere. Il movimento non si accorge che così operando torna a ciò che era caratteristica del passato, il conflitto comunitario, che era stato superato dai diritti degli individui e dal riconoscimento del merito. Non solo ma la teoria si presenta abbastanza pasticciata nel senso che non è altro che una rivisitazione dell’idea marxista della società divisa in classi e, laddove il marxismo riduceva la lotta a due comunità fondamentali, qui si mettono insieme diversi soggetti senza stabilire un nesso tra i vari componenti.

Ed è a questo punto che nascono i primi problemi.

Vediamo.

La teoria nella sua presentazione elementare può anche essere condivisa nel senso che essa ci parla della complessità dell’individuo, delle sue moltissime anime, delle sfaccettature prismatiche che lo caratterizzano e dei suoi molti colori. In questo senso si collocherebbe in una lunga tradizione che va da “L’IO è un altro” di Rimbaud a “Uno, nessuno, centomila” di Pirandello o, se vogliamo, a gran parte delle rivelazioni della psicoanalisi.

Il problema è che la teoria non si ferma qui e pretende di parlare a nome di tutti gli oppressi, categoria generica, vaga e del tutto astratta. Gli oppressi chi sono? Quale caratteristica li accomuna rendendoli tali? Già per i marxisti era difficile collocare una grande quantità di persone nel campo degli sfruttati, più o meno vicini al proletariato, e i risultati si sono visti nella pratica: per far tornare i conti si procedeva all’eliminazione di tutte quelle categorie che solo per comodità venivano fatte rientrare nella borghesia. Un contadino che possedeva una sola mucca venne considerato un ricco borghese, rientrando nella categoria dei Kulaki, con la conseguenza di essere annientato o eliminato.

Come vedremo nel prossimo capitolo per quanto riguarda genere e sesso le cose non sono così semplici.

Prendiamo il problema etnico che evoca subito l’accusa di razzismo. Chi sono gli oppressi? Gli afroamericani e i latini, mentre filippini, indiani, cinesi in quale categoria rientrano, tra gli oppressori o tra gli oppressi (e in questo caso perché non se ne parla?). Non solo ma è facile contrapporre la donna afroamericana abbandonata dal marito con 3 figli a 18 anni rispetto alla donna bianca che ha un lavoro fisso dalle 8 alle 17: la seconda vive certo in migliori condizioni, ma è lecito chiedersi se opprime la donna nera e in che modo? E questa giovane afroamericana è oppressa e sfruttata maggiormente da un imprenditore bianco o dal marito di colore?

Mi fermo qui con la casistica, ma è bene chiarire che non è possibile attribuire un punteggio alle singole condizioni, colore della pelle, genere, approccio sessuale, occupazione, religione e tutto il resto. Non è possibile proprio per le situazioni di grande complessità che ormai hanno dato luogo alla composizione sociale in tutto il mondo.

Obama, i giudici, gli imprenditori, gli avvocati, i medici tutti di colore che vivono a uno standard di vita molto alto hanno diritto comunque a un, seppur piccolo, risarcimento? E per concludere, chi ha diritto di stabilire tali ridotte compensazioni o le eventuali esclusioni? e in base a quale ricerca o studio scientifico non generico e improvvisato opererebbero? E quale tradizione giuridica ne potrebbe giustificare l’impianto e le articolazioni legali?

E cosa pensare dei diversi che hanno lavorato duro per emergere? Esistono donne (anche afroamericane e gay) di estrazione benestante, con istruzione privata, laureate in Prestigiose Università: la loro quota sarà a spese di chi? E poi i diversi sono tanti: i profughi, i portatori di handicap, i depressi, i brutti, i grassi, i bipolari ecc.

È naturale che con queste premesse la società si sia fatta più conflittuale.

In questo contesto colui che deciderà sulle diverse comunità e sulle scelte individuali potrà essere solo un Grande Fratello, che, come Robespierre, deciderà per la ghigliottina, la riconversione, l’assoluzione.

È una prospettiva orribile, ma in realtà l’obbiettivo dei suoi sostenitori non è così “elevato”, bensì è solo questione di un po’ più di potere e di soldi.

Non dovrebbe sfuggire il carattere totalitario della teoria “intersezionale” non solo per il suo approccio comunitario in una realtà storica e geografica in cui, grazie alla diffusione delle liberaldemocrazie, molte persone, sull’ordine dei milioni, vivono meglio e più a lungo, e si tratta di persone di etnie, generi e religioni che in passato godevano di ben poche possibilità. La liberaldemocrazia, lo Stato di Diritto, la Società aperta sono, storicamente, le uniche in grado di vedere i propri limiti e, seppur faticosamente, mediare tra le diverse istanze procedendo a continui miglioramenti. Ciò che appare preoccupante non è la teoria in sé che pure presenta tante e tanto grandi contraddizioni, ma il tentativo di metterla in pratica, come è successo in alcune Società e Università, dove si è avviato un processo di riconversione che ha sottoposto i dipendenti a un lavaggio del cervello, basato sulla pretesa di sradicare “pregiudizi inconsci”. Per fortuna dopo le prime esperienze due dei tre intellettuali che avevano proposto una pratica conseguente si sono ritirati denunciando il fatto che i programmi proposti non erano in grado di essere sviluppati con “sufficiente accuratezza”.

Il carattere totalitario, caratteristica essenziale del politicamente corretto, qui risulta ancora più evidente. Come nei processi comunisti nelle varie epoche non si accusano le persone di un reato specifico di cui si riconosce la responsabilità, ma si attaccano presunti atteggiamenti e pensieri. Allora era il carattere “controrivoluzionario” e “borghese” del prescelto, di cui non si contestavano azioni concrete; ora basta l’accusa di “patriarcato, bianco, maschio” per condannare chi non è d’accordo con la teoria. E se chi non è d’accordo è “donna, afroamericana, lesbica” non conta nulla, vuol dire che è divenuta un utile idiota al servizio del nemico.

E per fortuna che la Storia doveva essere “magistra vitae”, maestra di vita.

 

APPENDICE

FRANCISCO TORO scrittore americano-venezuelano su

Persuasion, NOVEMBRE 15 2023

Ripenso sempre a un momento del 2001. George W. Bush aveva appena scelto Colin Powell come suo Segretario di Stato, e i notiziari erano pieni di discussioni sull’evento allora storico: il primo Segretario di Stato nero. I giornalisti della redazione di Caracas, dove lavoravo all’epoca, lo trovarono semplicemente bizzarro. “Di che diavolo stanno parlando, quel ragazzo non è nero“, ha detto la mia collega Ligia. “E’ a malapena un café-con-leche“, ha continuato, usando il venezuelanismo per le persone di razza mista variamente bruna. «Beh, vedi», tentai di dire, «la sua famiglia è afro-caraibica, quindi secondo il modo in cui gli americani pensano a questo genere di cose, questo lo rende nero».

“No no, aspetta”, intervenne un altro collega, “non ha senso. Guarda il ragazzo, la sua pelle non è nera! In quale mondo possibile dovrebbe essere nero se la sua pelle non è nera?”

In Nord America, la razza è di solito presentata in termini di aut aut, mentre i venezuelani la considerano molto più come uno spettro, una scala cromatica lungo la quale le persone cadono l’una rispetto all’altra. Questo è il motivo per cui le etichette razziali sono spesso dipendenti dal contesto e relative: “catire” (approssimativamente “blondie”) è semplicemente ciò che si chiama la persona con la pelle più chiara in un determinato ambiente, mentre “negro” è il modo in cui si chiama chiunque abbia la pelle più scura. C’è anche un detto popolare in Venezuela che si traduce letteralmente come “biondo significa solo il meno nero del villaggio“. E un sacco di venezuelani che gli americani definirebbero immediatamente neri portano il soprannome di “el catire” o “la catira”, perché la loro pelle è un paio di toni più chiara di quella delle altre persone della loro comunità.

E se è vero che alcuni tipi di musica e danza sono codificati come “neri” in Venezuela, vi prendono parte persone provenienti da tutto lo spettro razziale. Se li spingete a identificarsi in termini etnici, la stragrande maggioranza dei venezuelani si definirà “misto”, e non a torto.

Possiamo immaginare un futuro in cui il 30 o il 50% degli americani si consideri misto? Questi numeri forse non sono così fuori portata come potrebbe sembrare: la quota di bambini di razza mista è quasi triplicata dal 5,6% al 15,1% tra il 2010 e il 2020. C’è ancora così tanto spazio per far crescere quel numero.

Il giorno in cui si pensa che il meticcio sia normale e che la razza unica diventi anomala è il giorno in cui l’America sarà sulla buona strada per superare il suo stallo razziale polarizzato. Perché, come ogni venezuelano sa nelle ossa, una volta che tutti sono considerati misti, la razza si risolve in base al colore della pelle.

E il colore della pelle è solo superficiale.