L – LGBTQI++++

Ciò che era nato come semplice riferimento a una comunità di persone che avevano bisogno di un maggiore riconoscimento è andato gonfiandosi sempre più. In origine erano solo L(esbiche) e G(ay), poi piano piano si sono aggiunti i B(isessuali), i T(ransgender), i Queer) e successivamente anche gli I(ntersessuali), gli A(sessuali) e alla fine per evitare discriminazioni è stato deciso di aggiungere un (+) per tutti coloro che non sono coperti dalle lettere precedenti; curiosamente una discriminazione si verifica lo stesso perché coloro che rientrano nei (+) non vengono riconosciuti come i primi. Per questo si può trovare anche una sigla più lunga e più vera: LGBTQQIP2SAA [lesbian, gay, bisexual, transgender, queer, questioning, intersex, pansexual, two-spirit (2S), androgynous, and asexual]. Da notare lo spostamento gerarchico degli “asessuali” che nella prima sigla occupano il 7° posto mentre in quella più ampia l’11°. La lista è destinata ad aumentare visto che ogni tanto compare qualche nuova istanza, come coloro che fanno l’amore con la Natura (alberi e terra soprattutto) o quelli che sposano se stessi (da non confondere con chi si dedica alla masturbazione).

Ma tant’è. La società in cui viviamo è una società aperta.

Naturalmente, non è in discussione l’esistenza e l’accettazione di persone che si identificano in quelle sigle e dunque è, almeno per quanto mi riguarda, ininfluente il giudizio, tanto meno morale, che spesso accompagna quelle figure. Sono cresciuto in una società e in un periodo in cui si parlava di “altra sponda”, luogo che veniva comunque rispettato se a frequentarlo erano stilisti o artisti. Per l’uomo comune era inevitabile il disprezzo e il disgusto. Nonostante ciò, non ho avuto problemi a riconoscere la libertà di scelta o la condizione naturale che nel corso degli ultimi anni trovava un sempre maggiore riconoscimento a tutti i livelli.

Ancora una volta il rifiuto del “politicamente corretto” non è legato all’esigenza di fondo, il rispetto e la libertà, ma a come esso va oltre imponendo una visione intollerante e autoritaria. Il problema dunque, ancora una volta, sta nel trasformare individui con speciali e specifiche caratteristiche in una “comunità” che si impone secondo i principi dei suoi leader che si autodefiniscono come portatori di interessi di tutta la comunità. Questo aspetto aveva un senso quando il clima sociale esprimeva forti resistenze e grandi pregiudizi, contro cui si sono impegnati gruppi di omosessuali come il F.U.O.R.I. (Fronte Unitario Omosessuale Rivoluzionario Italiano) e gruppi di così dette femministe. Non è un caso che quei precursori oggi siano in prima fila contro le posizioni totalitarie del “politicamente corretto”, proprio perché questo ha cambiato rotta passando da una doverosa battaglia culturale, e politica, naturale confronto-scontro con gli avversari tipico di un sistema liberaldemocratico, al tentativo di imporre la propria visione, demonizzando e criminalizzando l’avversario trasformato in nemico. Da un impegno per maggiori spazi di libertà si è passati a una guerra contro il sistema, la società patriarcale dei maschi bianchi etero.

Da quella parte si continua a vivere come se ci si trovasse ad operare in un sistema chiuso, autoritario, non democratico, senza libertà di opinione, riunione, organizzazione.

L’unità di una società è possibile solo se le diverse istanze e sensibilità trovano una loro composizione nelle leggi che sono il frutto della volontà popolare: ciò si verifica solo all’interno di uno Stato di Diritto in una società aperta. I Partiti non sono comunità né lo sono i gruppi parlamentari, mentre la trasformazione in comunità crea continue fratture e divisioni che rendono difficile la convivenza civile.

La pretesa della comunità gay, ad esempio, di esprimere ciò che è bene per tutti i gay rientra nel classico schema fallimentare che cerca di imporre come verità per tutti i suoi membri ciò che è invece il punto di vista di una minoranza. Come il PCI non rappresentava la classe operaia né Hamas rappresenta i palestinesi, così la Comunità LGBTQI+ non rappresenta tutti quelli a nome dei quali parla.

Ci sono gay che non vogliono fare coming out, alcuni certo per paura ma molti per convenienza, ci sono gay che non vogliono convivere e tanto meno sposarsi o ancora avere figli, ci sono gay sposati felicemente che vivono serenamente, segretamente e no, le loro storie con altri gay, ci sono gay che esercitano violenza sul compagno e ci sono stati anche degli omicidi nella comunità gay; insomma, il mondo dei gay, come quello degli etero, è molto molto sfaccettato.

Non ripetiamo l’errore degli anni ’50 quando vigeva, a partire dal cinema, lo slogan “Poveri ma belli”, per cui la bassa condizione economica comportava automaticamente una superiorità morale. I poveri non sono né belli né brutti sono solo poveri. E così i gay non sono né superiori né inferiori, per quello che sono. Esigono rispetto e nulla deve impedire loro di vivere dignitosamente come tutti.

All’interno della comunità gay impegnata si scontrano due gruppi.

Per il primo i gay sono proprio come chiunque altro, a parte quell’unico elemento che li caratterizza; per il secondo invece quell’elemento li rende del tutto diversi dal resto della società. In questo secondo gruppo rientrano i “queer”. Il termine aveva un significato dispregiativo nel mondo anglosassone finché non fu sbattuto in faccia al pubblico e rivendicato per la profonda diversità. Cosa sia un queer è tuttora difficile da stabilire con esattezza: dalla dichiarazione iniziale di riunire tutti coloro che non si riconoscono in etichette si è passati a qualcosa di più profondo che va ben oltre il riconoscimento dei diritti, ma investe l’intera società proponendosi in termini di alternativa complessiva. Ancora il rifiuto del sistema.

“Il pensiero queer stimola l’autoriflessione e mette in discussione i preconcetti che nutriamo su genere e sessualità, verso una consapevolezza e accettazione maggiore del sé, un dialogo più intimo e un rapporto più stretto con la propria interiorità. Non si tratta solo di promuovere la sperimentazione della sessualità o di indagare l’espressione di genere, ma di una vera e propria modalità d’azione, che ci spinga ad andare oltre le convenzioni sociali per abbracciare le nostre complessità divergenti. Sia che ci si rispecchi in esse o meno, è importante ricordare che siamo liberə di essere ciò che sentiamo di essere, e che le etichette che ci imponiamo, sebbene possano avere utilità per affermarci e conoscerci, rimangono pur sempre costruzioni sociali, e in quanto tali non rifletteranno mai del tutto fedelmente la realtà”. (I. Di marco, Vicepresidente Circolo Mieli di Roma). I queer intendono abbattere quel sistema, necessariamente gerarchico e dunque necessariamente discriminatorio, di cui i gay vogliono entrare a far parte a pieno titolo.

Rispetto alla realtà italiana in Inghilterra e negli USA la presenza queer e il suo impegno radicale risale ad alcuni decenni e presenta uno spettro abbastanza ampio. Marce che vorrebbero ricordare le marce per i diritti civili, ma diversamente da quelle mettono in discussione la società in cui vivono, manifestazioni in cui pacati e seri sostenitori dei diritti omosessuali vengono seguiti da esibizionisti variegati e multiestetici al grido di “orgoglio anale”, “orgoglio vaginale”. Differenze non secondarie tra i sostenitori dell’orgasmo vaginale e i più radicali che parlano di esclusivo orgasmo clitorideo. “Chi punta a una visione queer dei gay tende a presentare il fatto di essere omosessuale come un’occupazione a tempo pieno. Chi è gay tende a non apprezzarlo” (D. Murray, La pazzia delle folle, pag. 65). Il senso di tutto questo sta nella pretesa di un riconoscimento di superiorità che non è solo implicito nell’atteggiamento, ma viene esibito attraverso studi un po’ improvvisati e poco credibili.

Nel 2010 la Presidente del Lesbian and Gay Christian Movement sostenne sulla BBC che le coppie omosessuali erano molto più adatte al ruolo genitoriale delle coppie etero.

Uno studio dell’Università di Melbourne del 2014 sosteneva che i figli delle coppie omosessuali erano più sani e più felici dei bambini allevati da coppie eterosessuali.

Nel 2018 alcuni ricercatori di un Istituto della Scuola di Legge dell’UCLA (Università California-Los Angeles) presentarono i risultati di uno studio fatto per 12 anni su 515 coppie del Vermont: il risultato era che le coppie gay maschili presentavano maggiori possibilità di restare insieme rispetto alle coppie lesbiche ed etero.

Le contraddizioni e le gerarchie all’interno di ogni gruppo sono notevoli, perché il gruppo si fonda su un’identità completamente astratta: il mondo dell’oppressione è molto più variegato di quello che il politicamente corretto vorrebbe farci credere. Esemplare la richiesta alla Cornell University di prestare maggiore attenzione agli americani neri che vantano più di due generazioni, a scapito degli studenti di prima generazione venuti dall’Africa o dai Caraibi.

Il trionfo del relativismo mostra i suoi evidenti limiti, perché non si rende conto che la possibilità di vivere la propria vita nel modo che si desidera è il frutto di una società che lo ha permesso, quella società di cui i vari Gruppi si lamentano del tutto: nel mondo ci sono 73 paesi in cui è illegale essere gay e 8 in cui è prevista la pena di morte; in molti paesi dell’Africa e del Medio Oriente sono negati diritti basilari delle donne; violenze razziali molto pesanti si sono registrate un po’ ovunque in Africa e Asia; in nessuna parte del mondo i diritti dei trans sono garantiti come in Occidente.

Eppure, si continua a lottare come se non si fosse ottenuto nulla e al contrario le barriere che la società di cui tutti fanno parte sembrano ogni giorno più grandi e invalicabili. Per evitare di assumersi ognuno le proprie responsabilità si deve creare l’immagine di un “Sistema” talmente astratto e generico che dovrebbe essere chiaro a tutti che il Sistema è solo il prodotto della fantasia. Ma fa comodo a chi vive di slogan e di schemi. Prima era il capitalismo ora è il patriarcato, ma quello bianco perché fuori dall’Occidente ne succede di tutti i colori.

Il risultato di queste radicalizzazioni è la creazione di sempre maggiori conflitti, tra diverse identità e all’interno delle stesse, e risulta controproducente perché impedisce di affrontare gli argomenti più importanti.

L’esempio più evidente emerge da una femminista storica: “L’ideologia femminista non ha mai trattato onestamente il ruolo della madre nella vita umana. La raffigurazione che offre della storia come oppressione maschile e vittimizzazione femminile è una grossolana distorsione dei fatti” (Camille Paglia, Free women. Free men. 2018).

Il punto è che si tratta di battaglie ideologiche, che, come tali, non mirano a risolvere problemi, ma a imporre un’idea e una visione, per poi procedere secondo i rapporti di potere creati. Chi conosce la storia del Comunismo sa bene come funziona una politica basata sull’Ideologia: il discorso ideologico serve solo a giustificare azioni da cui trae vantaggio un ristretto gruppo di persone.

Si semina il dubbio, la divisione, l’animosità e la paura…Fare dubitare la gente di tutto. E poi presentarsi come i detentori delle risposte: il grandioso, onnicomprensivo, interconnesso insieme di risposte che collocherà tutti in un posto perfetto, ma i cui dettagli verranno forniti in seguito” (id. pag. 362).

Un altro presupposto ideologico sta nel vittimismo, immaginato come se la sofferenza rendesse le persone migliori. I fatti in tutti i campi smentiscono questa asserzione: è sempre una questione di potere. Non è un caso che la frase più pregnante e significativa su questo aspetto l’abbia scritta una femminista storica su Reason: “Victimism is powerful” ovvero “il vittimismo è potere”.

Guai però a criticare affermazioni non proprio gentili come quella che Laurie Penny emise nel febbraio 2018 su twitter: “Gli uomini rifiuti umani: questa frase l’adoro perché dà l’idea dello spreco…La mascolinità tossica spreca così tanto potenziale umano”. Di fronte alle critiche prese la parte della vittima dichiarando di essere stata bullizzata.

Feroce anche l’attacco contro le femministe che hanno difficoltà a considerare donne i maschi che hanno proceduto al cambiamento.

Ormai è tutta una serie di slogan che più che aprire un dibattito, come si conviene a una società democratica, sono vere e proprie ingiurie, accuse, minacce che cercano di intimorire e criminalizzare chi non è d’accordo. Diffidare dagli slogan facili, ma vani: patriarcato, mascolinità tossica, privilegio maschile, mansplaining. Essi pretendono di fare processi nelle piazze e sui social, mostrando nei fatti un vuoto culturale stratosferico e un’arretratezza giuridica che abbiamo visto in moltissimi casi di “presunta violenza” smentiti e vanificati nelle aule dei tribunali.

Viviamo nella stessa società e dobbiamo dialogare, altrimenti resta solo la strada della violenza. “Sarebbe ridicolo partire dal presupposto che genere, sessualità e colore della pelle non significhino nulla. Però supporre che vogliano dire tutto sarebbe fatale” (id. pag. 374).

 

APPENDICE 1

Testimonianza di un omosessuale vittima dell’ideologia LGBTQIA+

“Il mio viaggio fuori dall’omofobia interiorizzata. E’ nella liberazione individuale, non di gruppo”.

STEPHEN BRADFORD LONG*-10 NOVEMBRE  su Persuasion.

Un giorno, quando ero studente in un campus cristiano conservatore, mi sono ritrovato a correre nell’ufficio del terapeuta del college trattenendo le lacrime…

Quel giorno stavo singhiozzando nell’ufficio del terapeuta perché il peso della mia attrazione per altri uomini era diventato così divorante da rovinarmi la vita. Ogni momento di veglia era dedicato a “capire” come vivere alla luce di questo fardello, come affrontare il mio futuro e la mia famiglia e come navigare nella mia devota fede cristiana… A partire dalla mia prima adolescenza, ho dovuto impegnare enormi quantità di energia e cognizione per gestire la mia attrazione per gli uomini. Da questo dipendeva il mio posto nella società e la salvezza eterna.

Questo disturbo ossessivo compulsivo ha accompagnato ogni fase del mio viaggio da giovane gay.

Quando ero adolescente, nel profondo dell’armadio, tutta la mia energia veniva impiegata per non sembrare “troppo gay”, per non essere scoperto e per cercare disperatamente di far funzionare le relazioni romantiche con le ragazze.

Poi, nella tarda adolescenza, ho tentato di cambiare il mio orientamento attraverso gli strumenti di tortura psichica forniti dal movimento cristiano degli ex gay. Ho pregato, ho frequentato gruppi di sostegno e ho subito esorcismi.

Quando ho raggiunto i vent’anni, ho realizzato la menzogna della terapia ex-gay e che non avrei mai cambiato il mio orientamento …

Fu solo quando avevo circa venticinque anni che giunsi finalmente a una visione teologica affermativa dell’omosessualità, ed entrai in un’altra fase di ossessione: andai a letto con innumerevoli uomini e dovetti recuperare il tempo perso nel disprezzo di me stesso. Sono andato agli eventi del Gay Pride, ho ballato nei club e ho trascorso una quantità eccessiva di tempo a leggere e scrivere sui diritti dei gay… Questo periodo è stato certamente divertente, ed è stato migliore di quelli precedenti, ma è stato caratterizzato dallo stesso identico livello di ossessività che ha guidato le mie precedenti incursioni nella pratica degli ex gay e nel celibato cristiano conservatore.

L’inevitabile risultato dell’omofobia interiorizzata durante la mia adolescenza e i miei vent’anni è stato che non ho mai avuto un attimo di tregua dal pensarci …

La mia vita personale, professionale e accademica è stata irrimediabilmente danneggiata da questi anni di fissazione. … Provo un’enorme amarezza per tutto ciò che è andato perduto a causa dell’omofobia.

È ora, che ho circa trentacinque anni, che provo non solo pace con chi sono, ma gioia. Mi piace la persona che sono diventata. Questa gioia, però, è di natura individualista. Non si trova nella solidarietà con le altre persone LGBT; sta nell’avere finalmente accesso alle stesse libertà condivise da tutti gli altri. Significa avere una collaborazione amorevole e decennale con un uomo gentile, compassionevole e saggio. Significa avere una vasta rete di amicizie costruita su interessi e valori reciproci. Sta nel poter perseguire la vita, la libertà e la felicità in sicurezza. Molti dei miei colleghi queer probabilmente sosterranno che questo atteggiamento dimostra una qualche forma residua di omofobia interiorizzata, ma non sono d’accordo: sono finalmente libero dal disturbo ossessivo compulsivo dell’oppressione identitaria omofobica.

Libertà dal pregiudizio, per me, significa avere la libertà di pensare finalmente ad altro. Significa semplicemente potersi svegliare la mattina, prendere una tazza di caffè e baciare il proprio partner prima di andare al lavoro e condurre una vita produttiva.

È questa concezione della libertà – la libertà dalla fissazione dell’identità – che mi mette in contrasto con il resto della cultura queer.

Nel suo libro The Identity Trap, Yascha Mounk sostiene che l’attuale ossessione culturale per l’identità è una trappola – ciò che lui chiama “sintesi dell’identità” – che promette liberazione e realizzazione, ma alla fine delude.

La sintesi identitaria è una trappola politica, che rende più difficile sostenere società diverse i cui cittadini si fidano e si rispettano a vicenda. È anche una trappola personale, che fa promesse fuorvianti su come ottenere il senso di appartenenza e il riconoscimento sociale …

Sono una di quelle persone per le quali la promessa di riconoscimento è illusoria. Non provo gioia nell’impegno con la cultura LGBT. Mi sento solo stanco alla prospettiva di pensare alla mia stranezza più di quanto abbia già fatto. Voglio invece concentrarmi finalmente sul vasto mondo oltre i confini di una categoria identitaria che non ho scelto. Voglio esplorare cosa significa essere umani e individui.

La cultura queer contemporanea, con la sua ossessione per le categorie identitarie e l’iconografia, è in diretta opposizione al mio progetto di liberazione. Gli arcobaleni sono ovunque, le identità LGBT stanno diventando sempre più esoteriche, ossessive e discrete, e anche le persone eterosessuali si stanno unendo al divertimento queer. Ma questo non mi sembra un progresso. Il progresso, per me, è poter finalmente scrivere romanzi fantasy, poter finalmente vivere la mia vita in pace, poter finalmente avere buone amicizie, correre lunghe distanze o guardare i film che amo. Progresso significa essere altrettanto umani – e altrettanto individuali – come chiunque altro. La moderna cultura queer, con la sua perseveranza sulle categorie identitarie, sembra un’inversione della cultura ex-gay. È altrettanto ossessionata, solo attraverso lo specchio.

I miei fratelli LGBT sono invitati a divertirsi. Non mi intrometterò. Possono saltellare, sfilare e sventolare le loro bandiere. … I diritti dei gay non sono nulla senza l’autodeterminazione.

*Stephen Bradford Long è il conduttore e scrittore di Sacred Tension, dove questo saggio è stato originariamente pubblicato.

APPENDICE 2

Lucetta Scaraffia, storica: “Il capolavoro ideologico dei sostenitori del gender è stato quello di accreditarsi come alleati del femminismo, di spacciarsi per tali, in modo da cancellare ogni traccia del loro vero obiettivo, che è quello di negare l’esistenza delle donne, delle donne reali in carne e ossa, delle donne in quanto tali. Se le donne non esistono allora non sono più le odiate rivali che stanno superando gli uomini in tanti campi del sapere e della vita sociale, non sono più loro a dire che possono fare a meno degli uomini. Esse sono concettualmente neutralizzate, virtualmente nullificate: e dunque non rappresentano più alcun pericolo per l’autostima maschile” (Il Foglio, 22.11.2023)