Maestro è per tutti l’insegnante delle scuole elementari, mentre al livello superiore si colloca il professore. Eppure, l’etimologia e la storia mostrano come il termine pretenda molto più rispetto di quello che gli viene concesso.

Maestro è termine moderno derivato da magister, la cui radice è mag- da cui magnus = grande e magis = di più, ma anche magistero e magistrato; dunque, maestro è colui che si colloca in un posto più alto, per decidere, per insegnare e anche per governare.

Nel Medioevo, al tempo delle Corporazioni delle Arti e dei Mestieri, era chiamato maestro colui che per conoscenza ed esperienza era il depositario del mestiere che esercitava. Ancora oggi rimane traccia di questo suo passato glorioso, ad esempio, nel Maestro del Lavoro, nel Maestro di Arti Marziali, nella musica, negli scacchi, mentre in campo artigianale si confonde con parola affine, mastro.

Come la parola è andata sempre più perdendo la consistenza originaria così la figura stessa del maestro si è progressivamente fatta più evanescente, sfumando fino quasi a scomparire o, come nel significato comune, a ridursi a modeste funzioni.

Il posto del maestro è stato preso dal leader, colui che guida (to lead); il maestro educa, ex-ducere, conduce fuori, mentre il leader conduce dietro di sé i suoi seguaci.

Con l’avvento della società di massa e della cultura di massa Dio è morto e i leader hanno sostituito i maestri. Lo vediamo in tutti i campi della vita sociale.

Non esiste più un filosofo che fornisca quel quadro di riferimento capace di arricchire le persone e questo è evidente nel modestissimo livello culturale della classe dirigente, non solo italiana.

Non esiste un artista che sappia indirizzare i giovani verso un orizzonte che non sia scopiazzatura o accatastamento; lo vediamo in campo musicale dove i testi delle canzoni, quando escono dalla banalità del quotidiano, recuperano concetti che risalgono, nel migliore dei casi, ai poeti maledetti francesi del XIX secolo.

Il luogo dove maggiormente si esprime questo impoverimento e che risulta di straordinaria evidenza per il contrasto con il passato è la scuola, soprattutto i Licei e l’Università. Il professore è sempre stato un maestro e per questo veniva non solo rispettato ma soprattutto era un punto di riferimento per la capacità di unire la cultura alla vita, intesa naturalmente non come quotidiane abitudini ma come senso, cioè come significato e direzione. Oggi è l’affermazione di “uno vale uno” e di negazione del merito, per cui, grazie anche a Internet, ogni studente pretende di essere al di sopra dei suoi docenti; non è solo una questione culturale, ma di prospettiva, perché l’innegabile energia giovanile diventa il punto di riferimento. Di fronte a tutto ciò i professori, come i genitori, hanno accettato non la sfida ma l’egemonia giovanile: e così il professore amato è il compagno di sbronze, quello che si riconosce nelle emozioni e rinuncia a porsi come punto di riferimento di coscienza e dunque di senso. Il professore stesso si è perduto, anche perché questa tendenza è nata e si è sviluppata con lui quando era studente: è tutta la società che per sopravvivere ha preferito accettare le condizioni dei “barbari”, masticando acquisizioni culturali profonde e riproponendole a pezzettini occasionali senza un’idea, una visione, un quadro di riferimento, degli orizzonti. La nostra Costituzione è la migliore del mondo ma la società liberaldemocratica in cui viviamo va combattuta; si è contro il merito ma a migliaia inseguono legittimamente i propri sogni vincendo (per merito?) a XFactor; il “carpe diem” diventa il motto su cui i giovani pensano di costruire la propria persona ma il “carpe diem” è proprio la principale caratteristica adolescenziale.

Si comincia con il ritenere giusto qualcosa e poi si passa a dichiarare questo qualcosa non più semplicemente giusto, ma un diritto, qualcosa che ci deve essere dato. Ed ecco “i diritti acquisiti”, “il diritto a scegliere la propria sessualità”, “il diritto a una alimentazione naturale”, “il diritto alle 35 ore”, “il diritto al benessere”, “il diritto alla casa” e, tanto per non dilungarmi, “il diritto al successo formativo” (DPR 275/99: la scuola deve garantire il successo formativo”). Questo diritto, dal momento che è messo nero su bianco nella Gazzetta Ufficiale, diventa un “dovere” per l’Istituzione che forma, cioè la scuola; la conseguenza è che da allora in poi genitori e studenti hanno dato la colpa ai docenti e alla scuola se i ragazzi non ottenevano la promozione (certificazione del successo formativo), perché non era stato fatto quanto dovevano per aiutarli a raggiungere la promozione: e così la scuola ha perso la bussola, gli studenti studiano poco, tanto in genere poi vengono promossi e, se non lo sono, si sa contro chi puntare il dito.

Agli studenti che aggrediscono i professori (fenomeno in aumento), ai genitori che colpiscono i professori si contrappone la classe che fa la festa alla professoressa che va in pensione oppure gli ex-studenti che vanno a trovare la loro vecchia maestra e cose simili; questo come immagine dei media. Nella realtà quotidiana è il fenomeno dell’inclusività ad essere dominante, non quello della formazione: l’impegno maggiore viene profuso nell’elaborazione di piani personalizzati per tutti coloro che hanno delle difficoltà, fisiche o cognitive, mentre le strategie educative e formative vengono date per scontato. Il fenomeno risulta essere talmente intrusivo che contamina anche chi non ha bisogno di inclusività, per cu,i nonostante per legge il voto minimo sia 1 (uno), molti docenti partono da 3 o 4, così per principio, mentre chi non vuole trasgredire evita di dare il terribile 1 (uno) con la scusa dei genitori separati, della famiglia numerosa, di un incidente o una malattia avuti da piccoli, dell’attività sportiva, dell’aiuto all’azienda familiare e tanto altro. È chiaro che in questo modo, col supporto giuridico dell’Istituzione, il merito è fatto a pezzi. L’inclusività non può essere il fattore trainante, ma deve operare all’interno e subordinatamente alla strategia educativa e formativa.

Ma torniamo al discorso principale.

Oggi ci si preoccupa in tutto l’Occidente per la diffusione di un fenomeno relativamente nuovo, almeno nelle forme attuali, il populismo. Esso è la manifestazione in campo politico di quanto ho espresso in precedenza, il rifiuto di considerare alcune persone come maestri che ti aiutano a crescere e la più facile attitudine a seguire un leader, cosa che non richiede un particolare sforzo. Naturalmente questo fenomeno in passato ha dato vita a sistemi dittatoriali con figure come Stalin, Hitler, Mussolini, Mao, oggi per fortuna questo fenomeno si compie in un quadro istituzionale liberaldemocratico con uno Stato di diritto e una società aperta. Il rischio rimane ma esistono forti difese.

In campo sociale il fenomeno populista si manifesta con quei movimenti che sfruttano la diffusione della rete, il web, per imporsi come potere alternativo a quello istituzionale.

Nel campo del tempo libero i risultati dati dal numero dei follower non cambiano molto la situazione, dando a ogni “seguace” l’illusione di essere una persona importante, anche se ogni artista si può permettere di esplicitare pubblicamente le sue fantasie ideologiche trasformandolo in opinionista o, peggio, in “uomo di cultura” (vedi Fedez e Dargen che, come giudici di XFactor, sproloquiano sulla Palestina).

Nel campo della vita civile invece i danni sono tutt’altro che trascurabili, proprio perché hanno trovato nel “politicamente corretto” il terreno di coltura di entità che minano i riferimenti liberaldemocratici: mi riferisco in particolare ai “no vax”, al “#metoo”, al “woke”, al “#BalanceTonPorc”, ai sedicenti movimenti ecologisti radicali e simili. È uno degli argomenti principali di queste mie riflessioni, alcuni già svolti altri lo saranno nei prossimi capitoli.

La realtà è la realtà e non la si trasforma sognando ideali o ritorni impossibili. Non si tratta di demonizzare figli e genitori, studenti e professori, canzoni e film, feste e festival, trasmissioni e convinzioni. Come scriveva Kierkegaard, naturale è il passaggio dalla passione giovanile alla responsabilità adulta, mentre si può andare oltre (lui la chiamava lo scandalo dell’esperienza religiosa). La realtà che non ha senso criminalizzare, come talvolta qualche intellettuale invece fa inorridito, è il frutto della Storia, non necessario, ma è ciò che è successo. Occorre capire, e Nietzsche e Pirandello e tanti altri ce lo hanno spiegato, occorre capire che tutto ciò è legato (non necessariamente) all’affermazione della Società aperta e dello Stato di diritto, di cui la cultura di massa è, questa sì, una necessaria conseguenza.

Nessuno può negare i vantaggi che la diffusione della liberaldemocrazia e dello Stato di diritto ha creato; il più grande è la libertà che può essere riassunta nel motto “E’ preferibile contare le teste piuttosto che tagliarle” e per far ciò non è solo il voto ad avere importanza, ma tutto ciò che lo permette: la libertà di pensiero, la libertà di organizzazione, la libertà di manifestazione. Come l’esperienza dei paesi comunisti e dei paesi islamici ha dimostrato può esserci anche il voto, ma senza la libertà c’è solo l’oppressione delle masse. Ed è qui che si trova il nodo della questione.

Una società aperta non può rinunciare a questi suoi fondamenti, ma, così facendo, apre la porta anche a chi la vuole distruggere: i dirigenti dei gruppi terroristi islamici hanno studiato in occidente, dove hanno costruito una rete ampia di affiliati; così anche i leader comunisti di Vietnam e Cambogia.

In una società di massa anche culturalmente le parole hanno effetto su tutti e la tendenza all’omogeneizzazione è spesso inevitabile, solo che l’aspetto decisivo non riguarda l’estetica (vestiti uguali, stessa musica e simili) come qualche intellettuale crede. L’omogeneizzazione reale avviene intorno agli slogan, ai messaggi semplici, all’individuazione del nemico di turno, tutte cose che chiunque sappia leggere e scrivere può fare proprie.

Per fortuna cresce anche la parte curiosa, critica, scettica che non si accontenta degli slogan, si pone domande, non evita dubbi e vuole approfondire: certo tutti partiamo con degli orientamenti, ma i primi si limitano a riconfermarli, mentre i secondi li trasformano in continuazione arricchendosi in un processo inesausto e inesauribile.

Ed è qui che riemerge l’importanza del maestro.

Nella massificazione culturale della società non c’è più il grande maestro riconosciuto, ma la parte curiosa, critica, scettica si sceglie i suoi propri punti di riferimento: l’importanza si sposta dal maestro alla persona e alla sua volontà di mettersi continuamente in discussione.

Ed è qui che spunta fuori il nome di F. Nietzsche e del suo Così parlò Zarathustra, la cui importanza non sta tanto nel contenuto delle idee espresse, quanto nel metodo indicato. L’importanza di un maestro, l’attenzione e la devozione del discepolo, la sua centralità nel superare se stesso: andare oltre lo spirito attuale per costruirsi più ricco e più complesso, andare oltre, essere Übermensch, oltre uomo, superuomo, uomo che supera se stesso.

Ogni uomo deve superare se stesso. E per farlo il maestro rimane fondamentale, ma ciò che è decisivo diventa ognuno di noi.

Purtroppo, i due sono legati: eliminare il maestro impedisce la costruzione della nostra persona. Ed è questa una delle caratteristiche attuali di cui dovremmo preoccuparci. Oggi più che mai abbiamo bisogno di maestri e non di leader, di persone che si costruiscono e non di follower.

È un problema di responsabilità, nel senso profondo di rispondere a se stessi, di stabilire un nesso tra noi, il maestro a cui decidiamo di fare riferimento e che dobbiamo non solo rispettare, ma soprattutto accogliere, perché dalle sue parole nascano le nostre parole, quelle parole che costruiscono e conformano la nostra persona e il senso del nostro vivere.

 

P.S. In quest’epoca di cultura di massa e seguendo i “dialoghi” che si svolgono sui social, anche nei forum più impegnati, occorre prendere atto del fatto che la costruzione della propria persona (esigenza sempre più forte) si trasforma in affermazione della propria persona. Ne consegue che anche chi ha svolto o svolge la funzione del maestro viene spesso combattuto per puro compiacimento e questo riguarda sia le persone fisiche sia i testi di autori anche famosi. Si evita il dialogo e si preferisce combattere perché troppo spesso l’obbiettivo non è quello di metabolizzare l’esperienza attraverso la riflessione di chi ci fornisce delle indicazioni, ma quello di prendere posizione e innalzare la bandiera di conquista. Si tratta però di pisciatine e non di territori dello spirito realmente conquistati su cui procedere a costruzioni e rinnovamenti. Che sia un filosofo o uno scienziato o un nostro amico o conoscente non è importante, si evita il confronto e si preferisce partire alla carica. Per converso, e Facebook è pieno di ciò, si cerca sul web una frase, anche di poche righe, senza verificare l’autenticità dell’autore e ignorando il testo da cui è tratta; se ne fa una bella cornice e si rimane estasiati, di noi stessi.

La risposta normale a chi vuole approfondire (l’autore, il testo, il contesto) è: “non importa, è ciò che penso io”. Il delitto è così compiuto: l’autore (talvolta anche Premio Nobel) diventa debitore dell’autore del Post.

Così va il mondo. Morte al Maestro, Gloria al Maestro.