Parlare di “Università” all’interno di una riflessione sul “politicamente corretto” risulta essere una necessità sia per ciò che concerne la recente qualità degli studi sia per il tessuto ideologico che regolarmente ogni anno viene presentato da gruppi non indifferenti di studenti.

Pensando all’Università come a una scuola in cui si propongono e trasmettono conoscenze di vario genere sembra, nella ricostruzione degli storici, che oltre ai “tiasi” di Alceo e Saffo dobbiamo citare almeno il Liceo di Aristotele.

Una maggiore e più complessa organizzazione porterebbe a riconoscere nell’Università Indiana di Nalanda la più antica, risalendo al II sec. a.C.; nata come scuola buddista non si limitò ai temi religiosi e per questo vale la pena ricordarla. Il fenomeno fu isolato e rimase vittima delle invasioni mussulmane e di una in particolare che alla fine del XII sec. d.C. la rase al suolo trucidando tutti i monaci e distruggendo la ricchissima biblioteca.

Per questo motivo è lecito riconoscere all’Occidente cristiano la nascita e lo sviluppo delle Università a partire dall’anno Mille: non fu un fenomeno transitorio e anzi ebbe una rapida diffusione, favorendo il dibattito e il confronto, coinvolgendo intellettuali di alto livello. Il tessuto si fece sempre più ricco e coinvolse un numero sempre maggiore di regioni e di persone, studenti e professori.

Ma tutte queste cose si sanno e servono solo per avere un punto di riferimento.

Con la nascita degli stati nazionali fu posto il problema dell’istruzione a partire dalle basi, quella elementare, mentre le Università furono strutturate come punto apicale della conoscenza dove non ci si sarebbe limitati a trasmettere le conoscenze più attuali e più complesse, ma dove queste avrebbero dovuto trovare sempre nuovi sviluppi, grazie all’attività di ricerca.

La trasformazione da società di élite a società di massa ha corroso il sistema a tal punto da non poter più rinviare quel salto di qualità che ha portato alla situazione attuale. Come si sa, la fine degli anni ’60 del secolo scorso rappresenta il punto di svolta.

A differenza degli altri paesi occidentali il fenomeno, sebbene nato negli USA e in Francia, in Italia si sviluppò in forme radicali e continuative interrompendosi di fatto solo negli anni ’80, per poi riprendere di recente.

La società di massa aveva bisogno di realizzare alcuni cambiamenti non avendo più le caratteristiche tradizionali, di società contadina, perché le trasformazioni erano state innescate dal Boom Economico dei primi anni ’60. Mentre in USA e in Francia i moti nelle università svilupparono una componente libertaria (basta ricordare il fenomeno beat e gli slogan di Parigi) in Italia tutto ebbe tinte e sostanza puramente ideologiche. Non che in altri paesi tutto ciò non fosse presente, ma in Italia fu la caratteristica principale.

L’Italia, nonostante i successi in campo tecnico, non aveva una diffusa cultura scientifica e dopo la guerra il confronto fu tra due posizioni ideologiche, quella marxista e quella cristiana. Il peso del PCI aveva creato una corrente di pensiero che, con toni forti, si scagliava contro il sistema capitalistico, sia lo Stato sia l’economia: la sfiducia in quelle che venivano chiamate “istituzioni borghesi” aveva creato nei giovani uno spirito così detto rivoluzionario che si nutriva del diffuso antiamericanismo di lunga data (non solo per la guerra in Vietnam) e delle utopie tristemente concrete che si realizzavano a Cuba e soprattutto con la Rivoluzione culturale cinese. Le università furono occupate e il dibattito che vi si svolgeva non riguardava il futuro reale del paese, ma solo propositi ideologici: lo Stato borghese si abbatte e non si cambia, rivoluzione e non riforme, servire il popolo, operai-studenti uniti nella lotta, polizia fascista e così via. Le facoltà universitarie perdevano la loro identità, anche medicina, e la contestazione coinvolgeva la stessa istituzione universitaria, seguendo il messaggio maoista (ripreso poi da Pol Pot in Cambogia) che gli intellettuali erano al servizio della borghesia e dunque dovevano rigenerarsi: Mao li mandò a lavorare nei campi, l’economia crollò e la fame si diffuse, mentre in Italia si propose il più comodo “diciotto politico”, per evitare la discriminazione nei confronti dei figli del proletariato. La nascita di gruppetti extraparlamentari, delle Brigate Rosse e affini fu la inevitabile conseguenza di questo vuoto culturale: non fu solo una stagione di sangue durata più di un decennio, ma soprattutto rimase la condanna della meritocrazia come strumento di discriminazione.

Dopo le prime contestazioni che cominciarono a coinvolgere anche gli studenti delle scuole secondarie (15-19 anni), per cercare di calmare le acque fu deciso che tutti i diplomati potevano accedere all’Università, senza distinzione né valutazione né costi; fu anche riformato e semplificato l’esame di stato.

La società di massa doveva dar vita a una università di massa. Non potendo fare la rivoluzione, nonostante l’uccisione di Moro e i numerosi omicidi di dirigenti e imprenditori, ci si accontentò di un’Università sempre più tollerante, meno incisiva, meno oppressiva.

Dequalificazione dell’università. Ora è naturale che il passaggio da una scuola di élite a una scuola di massa comporti necessariamente una certa dequalificazione, ma il fenomeno caratterizzò tutta la scuola italiana. Negli altri paesi questo processo si realizzò naturalmente, ma si provvide anche a dei contrappesi che partivano dal presupposto che una società moderna aveva bisogno di persone con diversi gradi di competenza, riconoscibili principalmente dal merito, e che lo Stato non poteva sopportare all’infinito i costi di un’istruzione gratuita.

Dappertutto esiste una Università di massa, in genere statale, e un’università di élite, non sempre privata: le prestigiose università anglo-americane, le Grandes Ecoles francesi, le nuove università cinesi, olandesi, svedesi ecc. come riconosciuto dai ranking annuali degli Istituti di ricerca. La semplice laurea perdeva sempre più importanza e il successo o almeno una buona carriera si legavano a dottorati che non erano gratuiti. Un dottorato da 75.000 euro fatto in Francia o Svizzera era il miglior lasciapassare per le istituzioni mondiali di Ginevra o quelle Europee di Bruxelles e Strasburgo.

In Italia si continua a pensare che lo Stato deve provvedere all’istruzione in lungo e in largo; solo da pochi anni istituzioni private hanno potuto farsi avanti, mentre nei licei e negli istituti tecnici il “valore legale del titolo di studio” blocca ogni possibilità di crescita: i privati seri sono scoraggiati mentre si favoriscono le scuole private che sono diventate dei “diplomifici”.

In questo contesto nessuno vuol cedere il monopolio dell’istruzione che ha lo Stato, un monopolio che impedisce un serio confronto tra le idee e i diversi orizzonti culturali. Lo Stato dovrebbe essere arbitro e invece diventa il contendente a cui è permesso partire con molte lunghezze di vantaggio: i costi diventano sempre più proibitivi e così si deve permettere ai professionisti migliori di guadagnare grazie ad altre attività. Il risultato è evidente nelle verifiche europee che vedono l’Italia messa male in termini di competenze linguistiche e matematiche. Questi risultati (PISA) si riferiscono ai diplomi, ma hanno evidenti conseguenze a livello di laurea.

La cultura dell’impegno e del merito in Italia non ha avuto mai molto seguito; si poteva pensare che la globalizzazione e l’emergere nel mercato mondiale di nuove figure e nuovi popoli avrebbe stimolato la creatività e l’impegno italiani e invece si è andati controcorrente: la pretesa dello Stato di garantire “il successo formativo”, “il reddito di cittadinanza”, lo slogan “uno vale uno” hanno favorito deresponsabilizzazione e dequalificazione. Lo Stato si è affannato a tappare qualche buco, ma la situazione è la stessa di quando ho cominciato a insegnare: una enorme quantità di supplenti, edifici bisognosi di interventi, promozione quasi assicurata. Con alcune aggravanti: violenze nelle scuole durante le occupazioni rituali e contro docenti da parte di studenti e genitori; l’inclusione che pur importante nella scuola del XXI secolo ha preso il posto dell’acquisizione di competenze, spingendo molti laureati ad occuparsi del sostegno; una cultura che in nome della massa rimane semplicistica e ideologica.

A questa situazione si è risposto con la propaganda ideologica che in quanto tale evita di affrontare la reale situazione dell’istruzione, sempre secondo la solita logica che se la prende con lo Stato.

Mancano investimenti nell’edilizia, lo stipendio dei docenti è troppo basso, mancanza di rispetto degli studenti da parte dei professori, troppa attenzione ai voti, lo studio solo in funzione del lavoro e interesse delle imprese (leggi sempre capitalismo) nelle attività di alternanza.

E così arriviamo a quello che si ripete da qualche anno nelle Università, complice una stampa che preferisce i toni forti a una riflessione più attenta e meditata. È da qualche anno che non solo nelle piazze, ma anche a livello istituzionale avviene una serie di filippiche da parte dei rappresentanti studenteschi che preferiscono gli slogan allo studio dei problemi, quale si converrebbe a chi frequenta l’università.

Il massimo è stato raggiunto da una studentessa di Padova che ha parlato di pressioni inaudibili e che non si può morire di università: pressioni di genitori, società e professori che pretendono troppo in onore di una famigerata meritocrazia. Ne ha avuto anche per il diritto allo studio che non viene garantito e addirittura per la decisione del Senato di non approvare il Decreto Zan accusando lo Stato di essere transomofobico.

Altrove ci si è concentrati sulle pressioni che i docenti esercitano in modo forte sugli studenti che per questo vivono un malessere psicologico che li rende fragili e vulnerabili, ma anche sui costi dell’università soprattutto per quanto riguarda le abitazioni.

Il vittimismo è stato ancora una volta la cifra con cui gli studenti si sono presentati e a differenza dei loro predecessori sessantottini si sono limitati, sulla scia del politicamente corretto, a pretendere l’aiuto dello stato.

Non entrerò qui nel merito delle due questioni, di cui i giornali più seri hanno evidenziato tutti gli aspetti che si celano dietro.

Faccio notare come la pressione di cui si parla è una fantasia, non solo rispetto ad esempio a università straniere come quella cinese, ma anche rispetto alla realtà dei fatti: gli esami sono stati frammentati, gli appelli sono tanti nella stessa sessione, lo studente può rifiutare il voto anche se positivo. Interrogare genitori e nonni per sapere cosa fosse una vera pressione sullo studente.

La dequalificazione va avanti con il vittimismo e questo abbassa ulteriormente la qualità degli studi, mentre gli esponenti della protesta, come fu per molti dirigenti degli anni 60-70 e come è successo anche per le così dette “sardine” degli anni 2000, diventeranno dirigenti. Agli studenti normali, ancora una volta usati come massa di manovra, rimangono gli slogan e una realtà immutata, perché il lamento vittimista non affronta i problemi né propone soluzioni.

Per quanto riguarda i costi lo Stato italiano potrebbe fare di più certamente ma l’introduzione dell’ISEE porta a favorire i meno abbienti, per non parlare delle borse di studio, pubbliche e private, oltre ai prestiti studenteschi che ormai molte banche offrono.

Per quanto riguarda il costo della vita c’è da far notare che per venire incontro alle esigenze della popolazione studentesca sono state create decine e decine di università in tutte le sedi ed è chiaro che chi sceglie di trasferirsi se ne deve assumere le responsabilità.

Anche in questo campo, come in molti altri (esempio assicurazione sulla casa o sulla salute) si esige che ci pensi lo Stato, mentre altrove i genitori programmano il risparmio fin dalla nascita del figlio per permettergli studi adeguati.

Proveniamo da una cultura statalista che ha visto uniti i due massimi nemici del dopoguerra, comunisti e democristiani, una cultura che ha portato intere generazioni a rifiutare l’impegno e a pretendere diritti senza doveri, rinfacciando allo Stato le proprie debolezze. Questa cultura ha potuto sopravvivere per i 50 anni che vanno dalla fine della Seconda guerra mondiale al nuovo millennio, perché il sistema Italia era chiuso e non esisteva un reale confronto professionale: quanti iscritti a partiti e sindacati hanno fatto carriera? Quanti figli e nipoti hanno ereditato i posti di lavoro nelle aziende pubbliche (Ferrovie, Enel, Telefoni ecc.)?

Oggi però il mondo si è aperto e si deve fare i conti su scala planetaria: il lamento e il vittimismo sono la risposta di chi è orfano dei privilegi, ma per fortuna c’è anche una popolazione studentesca che si rimbocca le maniche, non rinuncia alla sfida, non si lamenta, studia e si impegna e magari fa anche del volontariato, senza rinunciare ai piaceri della propria adolescenza. È grazie a questa parte che il futuro non è buio, ma lascia ben sperare.

E io sono contento che mia figlia Beatrice abbia scelto di farne parte.

 

P.S. Trafiletto ironico su Il foglio 21.12.2023

“Alcuni studenti della Bicocca hanno trovato la loro vocazione: l’uncinetto. Perciò hanno ottenuto dall’ateneo un’aula in cui riunirsi a sferruzzare per tre ore ogni settimana, forti di ricerche scientifiche che dimostrano (c’è sempre una ricerca scientifica che dimostra qualsiasi cosa) come lavorare a maglia sia non solo rilassante ma anche benefico in termini di concentrazione e positività. In quest’aula dedicata, leggo, vengono infatti meno le distinzioni fra docenti e alunni; quindi, sono bandite l’ansia da prestazione e la competitività che caratterizzano i luoghi di alta formazione.

È indicativo che, un tempo, per pungolare un imbelle si diceva che potesse restare a casa a fare la calzetta. Ora, invece, ci siamo evoluti: per fare la calzetta si può andare all’università.”