Questa parola è molto più interessante di quanto in un primo momento si possa credere.

L’etimologia ci apre porte che non ci aspetteremmo.

Cominciamo con l’etimologia classica che trova un collegamento tra “violenza” e “vis, forza”, ma anche” vi-ncere” e un sanscrito “wi-“che ritroviamo in “war, guerra”.

Non c’è dubbio, e tutti lo riconoscono, che esista un rapporto diretto tra “vis-forza” e “violenza”: è il seguito che risulta interessante.

A me piace infatti la lettura più recente che si ritrova ad esempio ne “La sessualità maschile” (1989) di Ida Magli, antropologa femminista nota a cavallo del secolo.

Violenza deriva naturalmente da “vis” che vale “forza, potenza, vigore” elementi indispensabili per fare del male, offendere, distruggere (da un’altra radice). Da qui Ida Magli apre un’altra strada che porta a “vir, cioè uomo”, con il seguito di “virile”, “virulenza”, anche “virtù” (sebbene altri ritengano virtù derivare da vis); caratteristica dell’uomo inteso come maschio è infatti questa potenza che lo porta alla lotta, alla guerra, alla sopraffazione, necessaria per la vittoria. Tra l’altro Ida Magli aggiunge anche un altro aspetto interessante: il pene come la spada, la penetrazione come caratteristica comune, da un lato la vagina, dall’altro il corpo. Continuando in questo paragone possiamo pensare all’etimologia di imbecille, cioè in-baculus, colui che è senza il bastone, alter ego del pene.

Trovo questa seconda rete di significati molto più utile della prima e diffido i recenti sostenitori “è tutta colpa del patriarcato” a usare Ida Magli per i loro propositi ideologici, perché tutte le opere della studiosa (e sono molte) vanno nella direzione opposta: nessun moralismo, nessun anacronismo, analisi storica e geografica, contestualizzazione.

Detto questo entriamo nel fenomeno oggetto di questo capitolo.

 

Punto di partenza è uno studio di S. Pinker sulla violenza e su come nel corso dei secoli si sia assistito a una sua diminuzione, non a caso il titolo del libro è “Il declino della violenza”, Ed. Mondadori,2013.

 

Il politicamente corretto ci ha abituati a una visione pessimista e talvolta catastrofica per poter affermare il proprio moralismo, emergendo come salvatore dell’umanità, e infatti se non c’è il Male non può esserci il trionfo del Bene. Da un lato la distruzione dell’ambiente e la decrescita felice, dall’altro l’aumento della violenza e “come si stava bene una volta”. Si tratta di affermazioni di principio senza seri studi alle spalle e che giocano sul fattore emotivo legato ad alcuni eventi di cronaca recenti, reali ma senza significato dal momento che vengono isolati e privati di ogni forma di contestualizzazione.

Lo studio di Pinker è invece uno studio che va in profondità stabilendo legami con la storia e i luoghi del mondo, mostrando i diversi aspetti che caratterizzano le forme di violenza. Basterebbe un po’ di senso comune per capire che le condizioni di vita sono nettamente migliorate nel corso della Storia, ma il libro di Pinker va molto oltre trattandosi di uno studio serio e approfondito, dotato di cifre e statistiche che mostrano il declino della violenza.

Non si possono negare i fatti, anche statistici, della storia evolutiva degli esseri umani, fatti che Pinker propone attraverso le proprie ricerche accademiche, ma anche grazie al gigantesco lavoro di altri studiosi.

La violenza è onnipresente nella storia e preistoria della nostra specie” e dunque non serve demonizzarla: si tratta di studiarla e vedere come è evoluta fino ai giorni nostri. Gli studi mostrano che essa è andata diminuendo.

È calato il numero delle guerre, sono calati i morti in ogni guerra, è diminuita la violenza razziale, è diminuita la violenza di genere, è diminuita la violenza familiare. Diminuire non significa scomparire né che situazioni anche gravi e pesanti non possano esistere e ripetersi. Si tratta prima di tutto di verificare l’affermazione e poi cercare di capire perché. Sul “declino della violenza” non possono esserci dubbi, sul perché esso si verifichi possiamo fornire diverse spiegazioni.

E veniamo ai motivi che Pinker individua come decisivi nel declino della violenza, un declino storicamente e geograficamente determinato, frutto di grandi trasformazioni nelle relazioni sociali globali.

Esiste una linea che, nonostante numerosi arresti e deviazioni, è possibile identificare come evolutiva.

Si parte con la creazione dello Stato che unifica e comprende le esigenze collettive, spostando ad esempio la dinamica vendicativa dal piano della famiglia e della tribù a quello individuale o interstatale. Il diritto e lo Stato di diritto permettono in linea teorica, ma anche sempre più nella pratica, che gli individui che compongono la società si sentano maggiormente garantiti, depotenziando molte forme di violenza. C’è poi l’economia di mercato e il commercio che sostituiscono all’unico arricchimento precedente, basato sulla conquista, il libero scambio, lo scambio tra eguali: nel primo caso la quantità di beni, sempre la stessa, poteva solo passare di mano arricchendo qualcuno e impoverendo qualche altro, mentre nel secondo caso l’aumento della ricchezza, dato dalla concorrenza, permette la crescita collettiva. Infine, la globalizzazione ha permesso a Stati storicamente poveri di migliorare le proprie condizioni di vita: come dimostrano i progressi dell’Asia, dell’America Latina e anche dell’Africa, seppure in minore dimensione.

Questo processo non è stato lineare, ha trovato ostacoli e ancora ne trova, ma è stato comunque accompagnato da una costante riflessione culturale che, seppur talvolta contraddittoria, è servita e continua a servire da basamento solido che sempre più rende difficile cancellare i progressi realizzati.

Gli Stati Democratici sono cresciuti in misura esponenziale; tutti riconoscono la legittimazione popolare; il potere assoluto, religioso o meno, è sempre più messo in discussione; i diritti degli individui sono considerati fondamentali dappertutto e come caratteristica della ragione umana. Non sono solo la tortura e la schiavitù ad essere condannati, ma vengono sempre più affermati i diritti degli individui, non solo delle minoranze, ma anche delle donne e di tutti coloro che solo pochi decenni fa erano considerati non normali.

È vero che spesso e in molti luoghi si continua “alla vecchia maniera”, ma sempre più si alzano voci contro, grazie a una nuova acquisita coscienza e alla possibilità di comunicazione che la globalizzazione informatica permette.

Il libro in questione fornisce un quadro di riferimento ampiamente documentato che permette di guardare al futuro con maggiore ottimismo, senza dimenticare che per l’essere umano nulla è mai definitivo. L’ottimismo non nasce né da principi morali o religiosi né da considerazioni sulla natura umana né da considerazioni psicologiche e volontaristiche, bensì dal concreto e storico evolvere del genere umano.

Il libro è anche un antidoto al pressappochismo che regna nel campo dell’informazione e che ha portato a legittimare ciò che passa per la testa di ognuno, demonizzando studio e competenze. Un libro non di evasione, ma di invasione. Nelle nostre coscienze.

La violenza è onnipresente nella storia e preistoria della nostra specie”.

Il politicamente corretto nega la Storia affascinato dal moralismo e dal miraggio di un Bene che, se vale come orientamento, non può sostituire nella vita di ogni giorno la concretezza degli eventi. La luce del Bene rende ciechi e impedisce di vedere lo stato delle relazioni sia positive sia negative: ideologia e morale hanno sempre nascosto quella che è la volontà di potenza materiale degli uomini, capace di dar vita a un percorso inesauribile di miglioramenti, ma anche di manifestarsi attraverso violenze inaudite.

 

Gli antichi crearono il mito di Abele ucciso dal fratello Caino per metterci in guardia di fronte agli impulsi profondamente umani che costituiscono il nostro essere.

La Francia e l’Inghilterra si sono combattute per molto tempo, addirittura per Cento anni continui, ma grazie al comune dispiegarsi di istituzioni liberaldemocratiche da quasi due secoli operano collaborando nello scenario internazionale.

La Francia e il mondo germanico si sono scontrati per un millennio in guerre sanguinose e senza esclusione di colpi, ma da 70 anni nel comune sentire di un’Europa liberaldemocratica hanno addirittura cancellato le frontiere.

 

Non c’è dubbio che fuori da questa prospettiva democratica la violenza non riesce a fermarsi, come dimostra il conflitto inesauribile all’interno dei paesi islamici, dove il rifiuto di separare politica e religione ha portato e continua a portare a un interminabile scontro mortale tra sciiti che sono maggioranza in Iran e sunniti che sono maggioranza nel resto dell’area.

Dalla guerra tra Iran sciita e Irak sunnita che tra il 1980 e il 1988 provocò più di un milione di morti, la situazione non si è mai ammorbidita e negli ultimi anni si è visto il sostegno dell’Iran agli sciiti della regione come Hezbollah in Libano e Houthi in Yemen dove è esploso un nuovo conflitto militare di carattere religioso.

E la storia si ripete: nei paesi di ispirazione occidentale i conflitti sono localizzati, mentre nell’ampio universo islamico la mancata separazione tra politica e religione comporta l’estensione della violenza militare: lo si vede in Medio Oriente tra sciiti e sunniti, tutti contro Israele, Organizzazioni terroristiche che prendono di mira la popolazione cristiana come Isis, Stato Islamico, Jihad, Al Shabab in Somalia, Boko Haram in Nigeria, con estensione anche ad altre aree africane, Abu Sayaf e simili nelle Filippine, cristiane al 90%.

In tutto il mondo la violenza non è mai mancata e ha coinvolto sia gli individui sia le società (etniche, religiose, nazionali).

Poiché la volontà di potenza materiale è un elemento costitutivo dell’essere umano, una volta che essa è stata arginata a livello di società, le rimane un ampio spazio di manovra a livello di relazioni individuali e di gruppo. In questo senso l’attenzione agli omicidi frutto di relazioni affettive disfunzionali risulta comprensibile, perché la guerra tra Stati appare comunque lontana.

Anche in questo caso però l’incapacità di un’analisi storica che rifiuti il moralismo e l’anacronismo spiana la strada al politicamente corretto che ripropone i suoi schemi superficiali attraverso novità frutto di fantasia e non di realtà storica.

Nascono così le categorie ideologiche di “Patriarcato” (maschio e bianco) e di “femminicidio”. Di entrambi i casi ho parlato diffusamente nei capitoli precedenti, ma vale soffermarsi ancora un po’ seppur brevemente.

Il ruolo della donna nella società, esploso ormai da un secolo e sempre più diffuso e vivace, rende la categoria di Patriarcato del tutto priva di senso oltre che di valore. Più facile è identificarsi nell’altra categoria quella del femminicidio, perché gli episodi di cronaca e lo spazio che occupa nei media ne afferma l’evidenza. Anche in questo caso però l’ideologia, come la morale, per il suo carattere privo di sfumature riesce solo ad abbagliare impedendo di vedere la complessità del fenomeno. La statistica è uno strumento utile per entrare in contatto con la realtà, ma si ferma qui, perché l’analisi richiede strumenti adeguati di tipo culturale. La storia umana ha affermato il ruolo del maschio praticamente a molti livelli e non serve dire che questo sia un male, ma capire come, nonostante il predominio maschile, il peso della donna in generale è notevolmente cresciuto, si è sviluppato e ramificato. Ma essendo la donna un essere umano le cui caratteristiche non sono dissimili da quelle del maschio, nel momento in cui esce dalla minorità e occupa uno spazio che finora era riservato al maschio, tenderà ad agire come il maschio. Lo si vede non solo nelle legittime aspirazioni al comando (politico ed economico) che non si nutre solo di cooperazione, ma anche nel campo della violenza personale.

Il femminicidio è statisticamente il fenomeno principale, ma risultano in aumento anche i maschicidi mentre cominciano ad apparire nella scena anche i gaycidi. La qualcosa non deve apparire strana dal momento che coinvolge esseri umani evoluti nel corso delle ere staccandosi dalla massa animale.

Poiché non intendo qui esaurire le questioni ma solo individuare dei percorsi lascerò a chi volesse seguire questa impostazione la lettura di almeno un libro che chiarisce non solo statisticamente il fenomeno. Il libro è stato scritto da una donna, Barbara Benedettelli, è intitolato: 50 sfumature di violenza. Femminicidio e maschicidio in Italia (Ed. Cairo, 2017). Di esso si può trovare una mia ampia recensione nel mio sito al seguente link:

https://emiliosisi.it/2022/04/01/barbara-benedettelli-50-sfumature-di-violenza-femminicidio-e-maschicidio-in-italia/

Finalmente anche in Italia un libro coraggioso che affronta un tema d’attualità senza nascondersi dietro i luoghi comuni tardo-femministi, luoghi comuni che, per il loro semplicismo, sono riusciti a diventare patrimonio sia di molti maschi piacioni sia di molte donne che hanno spostato su questo piano quanto gli è più familiare: “Vizi privati e pubbliche virtù”.

È probabile che l’aumento dei casi di violenza sulle donne non sia solo il frutto di una maggiore diffusione delle notizie grazie allo sviluppo dei social, ma che esso risponda al nuovo ruolo che la donna ha assunto e ha deciso di assumere negli ultimi 50 anni. Come è avvenuto in tutti i campi della vita sociale ogni individuo pretende un riconoscimento che entra spesso in conflitto col riconoscimento di tutti gli altri individui; questo conflitto naturalmente è più forte dove la relazione tra individui risulta più stretta. È un principio di prossimità che ha coinvolto nazioni confinanti, etnie interne a un Paese, eventi ricreativi come il calcio ecc.; e qual è il momento in cui due individui si trovano più vicini se non la relazione affettiva?

Anche persone dotate di cultura, intelligenza e sensibilità preferiscono attenersi al mantra semplicistico per cui è tutta colpa del maschio, cercando una giustificazione nel fatto che statisticamente i femminicidi sono maggiori dei maschicidi. Purtroppo, la statistica non è mai stata alla base di una teoria e infatti se gli uni e gli altri sono in crescita e, se aggiungiamo che si comincia a registrare anche il fenomeno dei gaycidi, allora c’è con evidenza una spiegazione che nulla ha a che fare col genere.

Passiamo allora a parlare del libro e della sua importanza.

Due sono le caratteristiche decisive che fanno di questo libro un riferimento essenziale che può essere solo punto di partenza e allo stesso tempo punto di non ritorno.

La prima è proprio teorica, nel senso che sposta l’attenzione dalla dimensione ideologica del patriarcato come causa di tutti i mali all’ambito meno astratto e più storicamente fondato dei rapporti familiari e affettivi. In questo modo si abbandona un terreno che non porta a nulla in quanto caratterizzato dal moralismo, il Bene contro il Male, per entrare nelle dinamiche del cambiamento che non rispondono a nessun dettato morale e a nessun senso della storia. Grazie a questo spostamento si ottengono due effetti congiunti di grande importanza, quello di inserire il problema all’interno dello Stato di Diritto che non discrimina né in base alla religione né in base alla razza né in base al sesso, e quello di fornire strumenti percorribili di superamento di contraddizioni che la Legge di per sé può solo sanzionare ma non superare.

La seconda caratteristica decisiva del libro riguarda i numeri delle violenze perpetrate dentro l’ambito familiare o affettivo e il racconto di quelle dinamiche che ci mettono di fronte a comportamenti omogenei in quanto legati al nostro essere uomini e non al nostro appartenere a un sesso o a un altro.

Secondo il database della Polizia Criminale dal 2010 c’è stata una diminuzione di tutti gli omicidi volontari del 12% in 5 anni da 531 a 469, e in ambito familiare/affettivo abbiamo 168 casi di cui 109 vittime femminili e 59 maschili. In sostanza su tre vittime due sono donne e una è uomo. Nel periodo 2010-2014 le vittime sono state 923 di cui 578 femmine e 345 maschi (studio Eures): quindi 37 maschi e 63 femmine ogni 100 vittime. È curioso che l’attenzione si concentri solo sulle vittime di genere femminile e si faccia di tutta l’erba un fascio senza tenere presente che in alcuni casi l’omicidio ha ragioni diverse.

C’è una lacuna culturale, etica, morale da colmare. Oggi ci sono donne a capo dei governi, tra gli amministratori delegati, i militari, i camionisti, gli astronauti, gli ingegneri. Ma non riusciamo a vederle nelle vesti di carnefici” (pag. 59). L’autrice racconta che alla Rassegna culturale “Garda d’Autore” la moderatrice ha presentato il caso di una donna che ha accoltellato il compagno al collo, e dalla sala una signora ha gridato “Ha fatto bene!”. “Una frase inquietante, detta in tono scherzoso e con il sorriso. Se la vittima fosse stata una donna dubito che qualcuno avrebbe avuto il coraggio di fare dell’ironia” (pag. 45). Quando l’omicida è una donna il condizionamento culturale e mediatico fa sì che automaticamente il pensiero vada a un assassinio per autodifesa, cosa indubbiamente presente ma che è solo una parte del fenomeno.

Tutti i casi riportati dall’autrice, e sono alcune decine, mostrano che le donne uccidono come gli uomini e per le stesse motivazioni; mostrano anche che l’atteggiamento psicologico che sta alla base è simile in entrambe le situazioni mostrando come l’odio che porta all’omicidio sia spesso intrecciato con l’amore.

Numerosi studi, negli USA, in Gran Bretagna, Canada mostrano come il possesso e il controllo appartengano alle donne e agli uomini e non sono prerogativa di un solo genere. Anche in Italia non mancano i dati, sebbene si preferisca far finta di nulla e cullarsi nella semplicistica accusa al maschio. Ad esempio, uno Studio dell’Università di Siena in collaborazione con la Rivista di Criminologia, Vittimologia e Sicurezza fatto nel 2012 e uno studio precedente dell’ISTAT.

Emerge anche da una seria ricerca sul web che le violenze fisiche (da graffi e morsi alle minacce di usare armi) sono simili e lo stesso le violenze psicologiche: “Non sei nessuno; fai schifo; fai un lavoro poco remunerativo” e anche lo stalking non manca (Cap.2).

Il libro offre una quantità enorme di informazioni relative a dati e a fatti di cronaca che stupiranno il lettore che si è abituato alla vulgata delle donne sempre e solo vittime. Purtroppo, la situazione pone importanti interrogativi non sul fantasmatico potere patriarcale ma sulle relazioni affettive e sentimentali, portando alla luce un’esigenza sempre più forte (v. il mio libro Lascia che il tarlo scavi, lascia la piaga gemere: amore e complessità), quella di fare i conti con noi stessi e soprattutto con le relazioni cui diamo vita. Dell’amore crediamo di sapere tutto e in realtà non sappiamo nulla, perché ci siamo fermati al “ti amo” e al “cuor non si comanda”, frasi che dimostrano oggi, nella società sempre più complessa in cui viviamo, di non servire a nulla.

“Noi donne siamo sempre vittime? Proviamo a farci un esame di coscienza. A guardare la nostra storia relazionale con profonda onestà…Quante volte…riversiamo sui nostri cari le frustrazioni, la stanchezza, la rabbia che non abbiamo potuto sfogare altrove? Lo fanno gli uomini e lo facciamo noi donne. Solo che noi ci sentiamo (autorizzate dalla cultura) comunque vittime e allora tutto ci è concesso: è sempre per difesa. Usciamo dall’ipocrisia: ogni rapporto intimo contiene un certo grado di aggressività reciproca, soprattutto verbale, ma anche psicologica (pagg. 109-110).

Potrei citare i numerosi episodi riportati dal libro, episodi in cui la descrizione delle violenze e degli omicidi risulta raccapricciante, degna dei film sul tema, ma preferisco che il lettore si stupisca personalmente e provi una specie di catarsi, rivedendo i propri giudizi stereotipati. Cito solo un aspetto che si tende a non (voler) vedere e che riguarda la famiglia. Mentre all’inizio del nuovo secolo ancora non si voleva prendere atto che la maggior parte delle violenze avveniva ad opera di familiari, oggi questo aspetto è, se non proprio riconosciuto pienamente, almeno accettato in qualche modo. Molti film hanno illustrato la violenza (anche quella sessuale) che si compie in famiglia, spesso nel silenzio e talvolta anche nella connivenza. Naturalmente è il padre, cioè il maschio, il protagonista di tali situazioni. Scopriamo invece, dall’esperienza ormai trentennale di Telefono Azzurro, Centro Nazionale di Ascolto e Emergenza Infanzia, che il ruolo delle madri nella violenza sessuale nei confronti dei figli maschi non è di poco conto, attestandosi nel 2015 al 12,3% dei casi.

Insomma, e per concludere, il libro opera una vera e propria “Rivoluzione copernicana” nei confronti del tradizionale punto di vista sulla violenza legata a rapporti affettivi, reali o presunti, e per questo merita di essere letto, soprattutto oggi che, almeno a parole, tutti esprimono il proprio solare dissenso nei confronti di ogni forma di violenza. Purtroppo, le opinioni sono dure a morire e non c’è nulla di più gratificante che fare bei discorsi e seguire la corrente.