AFRICANI BRAVA GENTE di Matteo GIUSTI (Ed. Paesi, 2025)
Ho comprato questo libro perché recensito come un’enciclopedia delle situazioni dei singoli Paesi africani nel loro processo di emancipazione. Mi aspettavo un testo ricco di informazioni, ma anche con l’indicazione di alcuni orizzonti problematici, che cercassero di far capire le dinamiche dei paesi africani nel secondo dopoguerra, non tanto delle cause ma almeno dei flussi. In questo senso il libro è mancato perché riporta con dovizia di particolari solo gli eventi che hanno caratterizzato la quasi totalità dei paesi di quel continente. Ogni tanto si citano le potenze straniere, soprattutto la Francia e talvolta anche Cina e Russia, ma sono solo delle limitate protuberanze che non riescono ad aiutare nella formazione di un quadro complesso delle relazioni.
Nonostante ciò, il libro ha un suo valore proprio per il dettaglio in cui si muove, sciorinando informazioni riguardanti episodi, eventi, personaggi, etnie, tribù e tanto altro che solo un giornalista così dentro il pezzo come Giusti era in grado di fornire.
Cosa emerge da una lettura attenta di tutti i capitoli che sono divisi in decenni a partire dal 1960 “L’anno dell’Africa” fino ai contemporanei anni 2020?
Se si esclude una manciata di Stati, in particolare il Botswana e il Marocco, la quasi totalità di quei paesi ha vissuto, chi più chi meno, le stesse vicissitudini spesso in contesti simili, ma spesso anche in realtà del tutto differenti. Ciò che colpisce, ed è in grado di restare nella mente del lettore, al di là delle intenzioni dell’autore, è il peso che etnie, tribù e all’interno di queste diversi clan o famiglie hanno avuto nell’evoluzione degli eventi; eventi che si caratterizzano per una serie di rivolte, colpi di Stato, interventi armati, conflitti sanguinosi, dove la stabilità è stata garantita dal pugno di ferro più che dalla crescita civile delle popolazioni.
L’autore pur riconoscendo delle responsabilità ad alcuni paesi europei, in particolare la Francia, non cade nel tranello oggi molto diffuso del “primitivismo semplicista”, per cui è tutta colpa, non causa, delle potenze coloniali. Un conto sono le influenze che paesi più sviluppati hanno avuto, un conto è ridurre le dinamiche storiche durate 80 anni a una regia precisa, definita e articolata di alcuni Stati interessati solo a sfruttare popolazioni certo primitive ma ingenue e dunque in sostanza buone. Ancora una volta siamo nel pieno mito rousseauiano del “buon selvaggio” trasformato nell’odio per il capitalismo e lo sviluppo.
Leggendo la storia descritta così minuziosamente ci troviamo di fronte a rivalità che non hanno mai trovato una composizione, perché ciò che le animava era la semplice, naturale, umana volontà di potenza materiale. Non sono riusciti a convivere gli Hutu con i Tutsi, non solo in Ruanda né gli Shona con gli Ndebele in Zimbabwe e tanti altri. Onore all’autore per aver ricordato il “genocidio” (Gukurahundi) perpetrato da Mugabe contro il popolo Ndebele, quasi mai ricordato. Per le famiglie l’elenco è altrettanto lungo, ma vale la pena citare il conflitto in Guinea equatoriale all’interno della famiglia Obiang (stessa etnia, stesso clan, i Mongomo) e nella Repubblica Popolare del Congo (Brazzaville) i Sassou-Nguesso.
Il quadro che emerge è veramente deprimente e, probabilmente per non appesantire troppo il libro l’autore ha tralasciato alcune parti che ritengo importanti.
La prima è il fallimento del cosiddetto “Socialismo africano” che, seguendo la voga dei tempi, sembrò la soluzione di ogni problema e al contrario ha inaridito le sorgenti umane che avrebbero potuto favorire una crescita.
La seconda riguarda l’influenza di URSS e Cina che si sono inseriti nella c.d. decolonizzazione riproducendo su scala africana il conflitto tra ortodossia marxista-leninista (cinese) e “revisionismo” (russo). In molte aree si è riprodotto il modello cubano che, come all’origine, è risultato fallimentare, mentre in altre, come Angola e Mozambico, la cui indipendenza è stata più recente, si è assistito a una protratta e sanguinosa guerra civile tra partiti filorussi e gruppi filocinesi.
Di questi due aspetti il libro parla anche se non in modo diffuso.
Diversamente la problematica tribale lascia fuori il Sudafrica, che continua a rimanere nell’immaginario solo il paese dell’Apartheid, senza portare alla luce il conflitto interetnico tra Xhona e Zulu che è stato di gran lunga il conflitto più sanguinoso di quel paese. Sarebbe stato utile non tanto per negare il ruolo della comunità bianca di quel paese ma per avere una visione più complessa della cui mancanza ancora oggi le comunità bianche e nere sudafricane soffrono, nonostante le promesse dopo l’avvento di Mandela.
In conclusione, è un libro da leggere e da tenere in biblioteca come base storica per successivi approfondimenti: d’altra parte l’autore spiega nel sottotitolo le sue intenzioni: “cronologia del post colonialismo”. I fatti sono sempre il punto di partenza di ogni riflessione.