Il giorno 11 agosto 2015 moriva mio padre: mancavano tre mesi perché facesse 100  anni. Si chiamava Enrico Sisi. Era Ingegnere e aveva fatto molte cose nella vita.  Aveva combattuto in Africa nella Seconda Guerra Mondiale. Aveva insegnato con  passione la materia di Costruzioni all’ITG di Firenze, era stato anche Docente di  Urbanistica all’Università e poi Preside all’ITIS di Arezzo. Aveva vinto diversi Concorsi  per Opere Pubbliche fino a quando il predominio degli Studi Associati e dei  Computer non lo hanno messo fuori gioco. Ha pubblicato diverse opere scientifiche.  Ma una parte della sua ricerca (e della sua passione) era tutto ciò che nasceva da  Arezzo. L’interesse per Malta era legata al cortonese Laparelli e così vanno visti i  suoi lavori sulla Valdichiana. Una particolare nota va fatta per i volumi sul Casentino  pubblicati in forma privata quando ormai aveva superato la soglia dei Novanta Anni. 

Le persone che si ricordano di lui sono ormai poche, ma solo per limiti di età. 

Lo scorso anno nel 50° anniversario della nascita dell’ITIS di Arezzo ottenne un  riconoscimento pubblico che si meritava. Avrebbe meritato qualcosa di più, ma oltre  un bel richiamo della Società Storica Aretina, la città ha fatto ben poco per lui e il  suo carattere, schivo nella profonda dignità, non lo ha certo aiutato.  

Il fondo fu raggiunto però anni fa, negli anni ’80, quando l’allora dirigenza comunale  ebbe la geniale idea di invitarlo come pensionato a controllare i passaggi pedonali  delle scuole elementari. Certo questo anelito democratico fu visto con piacere da  tanti vecchietti, ma era anche il segno dei tempi: si riconosce solo chi ha la tessera.  Per gli altri, piacevoli fosse comuni. 

E’ vero che “nemo propheta in patria”, ma dovrebbe esserci un limite in certe cose. 

Il contributo culturale che mio padre ha dato è innegabile e ha fatto tutto da solo:  un merito, ma allo stesso tempo un ostacolo, in una società sempre più incapace di  riconoscere il merito e assumersi le proprie responsabilità. La scuola di oggi è,  purtroppo, lo specchio di questa deriva. 

Possiamo trovare le sue opere alla Facoltà di Architettura di San Paolo o all’Istituto Italiano di Cultura di Parigi o Rio de Janeiro. Anche nella Biblioteca di Arezzo, certo,  ma dispiace che nessun Ente abbia sentito l’esigenza di aiutarlo nella pubblicazione  di volumi sul Casentino.

Mio padre era certo uomo di altri tempi o, meglio, di un’epoca che dopo il 1968 non  è più esistita. Ma la capacità di una classe dirigente sta proprio nel sapere  recuperare dal passato ciò che mantiene un grande valore: non esiste rottura,  sensata e necessaria, senza continuità. E qui mio padre sarebbe stato un esempio e  continua ad esserlo per chi, indipendentemente dall’età, non si invaghisce di mode e  modernismi, ma pensa alla qualità e allo spessore. 

L’italiano e il combattente. Mio padre aveva il senso della Patria e dello Stato. Era un  uomo di sinistra, un social-liberale, dimostrando che l’attaccamento alla Patria non è  necessariamente prerogativa di destra. Il senso del dovere non gli ha mai impedito  quel profondo senso di umanità nei confronti di tutti gli uomini: e questo gli era  riconosciuto dai soldati che formalmente erano sotto di lui. Una volta finita la guerra  e ritornato in Italia si è dato da fare perché ai suoi compagni di battaglia fosse  riconosciuto quanto avevano fatto per l’Italia. Era partito come tanti con le poesie di  Ungaretti che, contrariamente alla vulgata scolastica pacifista, non sono contro la  guerra, ma cercano anche nella tragicità degli eventi di ritrovare un’umanità  frantumata. Il suo affetto per l’Italia non gli impediva di vedere la degenerazione  crescente del sentimento nazionale, soprattutto se paragonato al carattere  francese, mai messo in discussione neanche dopo il Maggio del 68. Eppure il suo  affetto per l’Italia non gli ha mai impedito di guardare con curiosità e interesse  all’estero. Lo dimostrano i viaggi e lo studio delle diverse legislazioni urbanistiche  europee. 

La cultura, la scuola, lo studio. Mio padre sapeva che lo studio è una cosa seria, una  cosa che getta le fondamenta della persona e quindi è la base della crescita di una  società; sapeva che la cultura non si improvvisa e che studiare richiede metodo e  impegno. Ho avuto modo di parlare con un suo studente che, a distanza di 20 anni,  riconosceva il ruolo che mio padre aveva avuto nella formazione sua e dei suoi  compagni. I progetti che presentava ai Pubblici Concorsi erano di un rigore che oggi  appare flesso: cominciavano con i vari aspetti del clima perché costruire un edificio a  Cuneo è diverso che farlo a Cagliari, procedeva col territorio, la storia, il contesto  sociale e da qui nasceva la proposta, ovviamente resa solida dal patrimonio tecnico  di cui era in possesso e da idee di riferimento (in questo caso si è sempre ispirato al  razionalismo di Le Corbusier). Non sempre nel corso dell’adolescenza lo abbiamo  seguito, ma alla lunga il suo insegnamento ha germogliato anche dentro di noi.

La dignità e la responsabilità. Mio padre non era un uomo perfetto e spesso non  siamo andati d’accordo con lui, soprattutto in fase adolescenziale e  immediatamente post-adolescenziale. Alla lunga però abbiamo respirato quel senso  della dignità e della responsabilità che era presente in ogni sua azione, anche quella  che al momento ci sembrava assurda. E’ sempre stato generoso, come ben sanno  parenti vicini e lontani, ma sempre con semplicità e camminando a testa alta:  difficilmente gli si poteva rimproverare qualcosa, a meno di non trasformare le  differenze di opinioni e di gusti in conflitti personali. In questo ambito il senso del  dovere non era solo un valore metafisico, ma una necessità e una garanzia, per la  convivenza civile. 

Certo non era un uomo facile, perché aveva dei punti di riferimento solidi, che erano  però erosi sempre di più da trasformazioni che si sarebbero rivelate epocali, e in tal  senso non credo di aver conosciuto persona più integra di lui. Rigido nel senso del  rigore che proviene dal dovere della dignità e della responsabilità, ma anche  flessibile, capace di accettare la diversità con animo sereno. A differenza degli  esaltatori odierni di diversità, rigonfi di ideologia e privi di cultura, mio padre sapeva  avvicinarsi al mondo che cambiava, in uno scontro tra i lanternoni che lo avevano  formato e i lanternini che gironzolavano sempre più sguaiatamente. 

Ha sempre aiutato chi era in difficoltà, fosse esso straniero malato bisognoso, qui o  là. Ricordo che nei giorni dell’alluvione di Firenze e del Valdarno partì con la sua  Dauphine piena di cartoni di latte per dare il suo contributo: nessuno glielo aveva  chiesto, rispondeva solo alla sua coscienza. Ha sempre cercato di favorire i giovani a  trovare un loro spazio e una loro dimensione. Ha saputo dare fiducia a chi la  meritava e svilupparne il potenziale, fossero o no parenti. 

E’ morto a 100 anni, ma avrebbe preferito morire da tempo, quando la malattia gli  ha portato via il primo figlio, Federigo, a soli 49 anni e, poco dopo, l’ultimo, Franco,  all’età di 50. Nonostante il dolore che lo ha accompagnato negli ultimi 20 anni, un  dolore che avrebbe stroncato chiunque, mi sento di dire che la sua è stata  un’esistenza ricca, non banale, intensa e profonda. Credo che molto di quel poco di  buono che è in me lo debba a lui e di questo devo ringraziarlo. Pubblicamente. 

Emilio Sisi