VOLONTA’ DI POTENZA. Uso questo termine nel suo significato più semplice e puro, senza aver in mente alcuna idea di prevaricazione, direi etimologico: sicuramente oltre quello che – ancora una volta – il luogo comune tende a imporre.
Volontà di potenza è semplicemente volontà di potere, potere come verbo: io posso, tu puoi, egli può. Potere è prima di tutto possibilità, creare delle possibilità, rendere possibile. Potrei aggiungere: rendere possibile qualcosa, ma il termine ‘qualcosa’ non è necessario, perché fa pensare a elementi dotati di concretezza. Rendere possibile un’idea, un pensiero, un sentimento, un oggetto, un amore, una relazione, una vita…tutto. Rendere possibile un insieme di tutto questo.
Io penso che la vita non sia altro che questo continuo rendere possibile. La vita è dunque semplicemente volontà di rendere possibile. Volontà di potenza.
Per rendere possibile ‘elementi’ (nella vastissima accezione richiamata sopra) noi dobbiamo occupare degli spazi. Spazi che in genere sono occupati da altri. Questo avviene in tutti i campi, dalle classiche scoperte geografiche a tutti gli aspetti della vita sociale o semplicemente di relazione. L’insegnamento, per fare un esempio vicino, è occupare uno spazio, quello fisico (il tempo) e quello meno fisico, spirituale (le energie, i pensieri) degli studenti. Può esserci accordo, consenso oppure no: ma questo non è di particolare rilievo.
Lo stesso avviene nell’amore. Occupiamo lo spazio dell’altro e l’altro occupa il nostro spazio. Dobbiamo decidere dove abitare, il lavoro, i figli, come organizzare la nostra vita insieme e con gli altri, quando e dove andare in ferie, quando e come fare sesso…Come tutti sanno, non è facile. L’amore è però anche qualcosa di più, perché presuppone anche qualcosa di meno concreto e di meno facilmente identificabile; si può chiamare sentimento, anima, intesa spirituale o altro. Anche in questo caso occupiamo uno spazio. Chiediamo all’altro di entrare nel percorso della nostra anima, nell’idea che abbiamo di amore, nella filosofia che permea la nostra vita e che sottintende anche le scelte pratiche. L’altro fa lo stesso. Da qui nasce probabilmente l’idea dell’amore come cedere, come sacrificio, come rinuncia: tutti elementi che riconoscono il cedere spazio, sacrificare spazio, rinunciare a spazio nostro, che lasciamo occupare dall’altro. Questa concessione, questo sacrificio, questa rinuncia sono una perdita di spazio che ci appartiene, cioè una perdita del nostro Io. Regolarmente però l’Io rinuncia difficilmente a una parte di sé, a un suo spazio. Non è un caso che l’amore è divenuto luogo privilegiato della conflittualità in quest’era in cui l’individuo assurge al ruolo di protagonista ed è anche per questo che l’amore diventa uno dei momenti privilegiati in cui parla l’individuo.
Conflittualità rimanda a con-fliggere, in-fliggere, ad-fliggere e fliggere implica una ferita (fligere= battere, urtare).
Il Potere, come in genere lo conosciamo, ha seguito questo percorso e assunto questo significato fino alla concezione, di cui spesso non ci accorgiamo, che si esprime nei rapporti interpersonali, dal gruppo di amici ai rapporti familiari. L’amore non è sfuggito a questo percorso che la lingua ha suggerito e da cui la lingua ha recepito le forme. Se andiamo in profondità, ci accorgiamo infatti che i rapporti d’amore sono rapporti di Potere, perché la volontà di potenza che sarebbe volontà di potere, cioè di creare possibilità, ha bisogno –necessariamente – di occupare spazio.
La questione nasce dal fatto che, essendo entità finite, abbiamo saputo concepire lo spazio solo in termini finiti; ci siamo solo mossi cioè in termini di de-finizione, stabilendo fines, confini, limiti, riportando in tutti i campi dell’esistenza l’esperienza del recintare un campo. La nostra volontà di potenza ha saputo dar vita a possibilità solo de-limitando lo spazio, e lo spazio che veniva occupato era già concepito come qualcosa di cui si potesse solo stabilire limiti e confini.
Lo spazio come territorio, come rappresentazione del territorio fisico. È da qui che nasce ad esempio l’illusione dei libertini o delle relazioni trasgressive che affollano la vita contemporanea: cambiare territorio, occupare nuovi spazi, in un percorso che non fa altro che ripetere schemi già noti.
Ora però che lo spazio della Terra è stato sia conosciuto sia occupato integralmente al punto che siamo usciti dal Pianeta per com-prenderlo meglio, quella rappresentazione del campo da recintare ha perso di senso o, meglio, ha esaurito ogni suo possibile senso.
“Conquistato l’ultimo elemento, tutti divengono indifferenti…Nessun luogo resiste, così come nessun tempo vissuto; luoghi e tempi vengono sradicati, tratti lassù nell’unità dello sguardo che dall’alto tutti insieme domina. ‘Lassù’ non sta ad indicare un altro, nuovo luogo, ma, all’opposto, il superamento di ogni determinazione terranea e temporale-terrena…il luogo è davvero riposto ‘in alto’, è superato”( Cacciari Massimo (1994), Geofilosofia dell’Europa, Adelphi, Milano: p. 69.)
Insistere sull’identificazione tra spazio e territorio non mi serve più. Si tratta per me di recuperare il valore non fisico del termine di spazio, superando l’insita necessità di de-finizione che il territorio porta con sé.
Possiamo evitare di occupare territori, ma non di occupare spazi. Quando tutti gli spazi fisici sono stati occupati cosa rimane? Occupare spazi non fisici è possibile solo creandoli. Ecco che la volontà di potenza, cioè la volontà di dar vita a possibilità, rompe le catene a cui sembrava irrimediabilmente soggiogata. Creare possibilità al di fuori della de-finizione, oltre la de-limitazione. È una nuova avventura, dal colore e dal sapore tutti spirituali. Non si tratta dunque di continuare ad affliggere, confliggere, infliggere occupando spazi che altri occupano, ma di creare spazi che insieme potremo occupare.
E’ ciò che chiamo volontà di potenza spirituale: sarà oggetto dell’ultimo capitolo.
Nell’amore questo è vitale ed è l’unico percorso che abbiamo davanti. Un percorso che rimane aperto in tutte le direzioni verso tutte le possibilità: la creazione non può fare a meno di ciò che siamo, ma deve prescinderne, cioè deve sapersi scindere, separare da quello che siamo, o meglio crediamo di essere. Ecco ancora una volta come e perché la creazione dell’amore è tutt’uno con la creazione dell’Io. Ecco perché il ti amo-per sempre ha valore solo come modesto punto di partenza verso la creazione dell’amore. Solo un IO che riconosce la sua provvisorietà, parzialità, fragilità, multicomposizione coloristica può, iniziando a far gemere la piaga, attivare le emergenze che sono alla base della creazione.
L’individuo si muove secondo il principio della volontà di potenza e la volontà di potenza deve rispettare due leggi che ad essa ineriscono: la legge di prossimità locale e la legge di prossimità temporale.
Cosa vuol dire? L’individuo è una entità ancora troppo pesante per volare, che si muove lentamente e goffamente, spesso senza chiedersi perché né dove né quando: alza i piedi e li muove spostandosi solo secondo la lunghezza della propria gamba.
Prossimità locale. In questo curioso incedere (come il grande biscotto di Shrek 2) egli incontra chi gli è vicino (opera del Caso, del pensiero, dell’illusione o dell’allucinazione): la fidanzata, la moglie, i figli, i genitori. Vorrebbe andare a braccetto con loro, ma è ancora talmente goffo e sgraziato che combina facilmente dei guai. E la cronaca nera si arricchisce di materiale.
Prossimità temporale. La lentezza delle sue operazioni e dei suoi movimenti genera un effetto decisivo: vede solo lo spostamento ultimo e quando si prova a connetterlo con il precedente gli appare uguale a quello.
Prossimità locale e prossimità temporale sono l’espressione di un rapporto causa-effetto.
In altre parole il metodo cartesiano che ha funzionato in un universo semplice, maschile, rigorosamente stratificato oggi non funziona più. L’individuo si trova così ad operare in un universo complesso, polisessuale, interconnesso con strumenti del tutto inadeguati.
La volontà di potenza appare oggi come l’unico sovrano reggitore. Dobbiamo imparare a conoscerla meglio, a riconoscerla qua e là, a fare i conti con essa. Nel prossimo capitolo approfondirò l’argomento mettendo in evidenza alcune “leggi” che la caratterizzano e la identificano. In questo capitolo proverò un approccio meno complesso in modo che questo avvicinamento permetta una migliore com-prensione di quanto esporrò nel prossimo capitolo.
Ho scritto che Volontà di potenza è volontà di potere (verbo), rendere possibile, dunque creare e per poter creare abbiamo bisogno di disporre e dunque dominare i vari componenti, tra i quali, quando si parla di relazioni sociali, ci sono indubbiamente anche gli esseri umani. Si tratta di un aspetto che in prima battuta è difficile da riconoscere e accettare, perché la parola “potenza” fa pensare nel lettore comune a un sopruso, a un’imposizione, a qualcosa di molto negativo. C’è poi l’altra parola “volontà” che è sempre stata interpretata come scelta, convinzione, decisione per cui, sempre in prima battuta, risulta difficile pensare a qualcosa che vuole al di fuori del nostro pensiero e delle nostre decisioni. Eppure ci sono tanti aspetti della nostra esistenza che sfuggono alla nostra decisione, come l’istinto, che viene però ridotto a qualcosa di estremamente marginale e provvisorio. Ancora oggi, nonostante siano passati più di un secolo da Schopenhauer e Nietzsche e diversi decenni da Freud e Pirandello, si continua a tradurre il “cogito, ergo sum- penso, dunque sono” con il semplicistico “io sono ciò che penso”. Per fortuna ci ha pensato la cronaca, soprattutto nera, a chiarire come stanno le cose, “ha ucciso la moglie e due figli, ma come è stato possibile, era una brava persona”; di fronte a queste illuminazioni “io sono ciò che penso” vale solo per se stessi.
E’ vero che storicamente la volontà di potenza si è presentata in termini materiali: la recinzione di un terreno, la conquista di nuove terre, il saccheggio, il dominio sull’uomo, ma è anche vero che il carattere complesso dell’organizzazione sociale e il ruolo che l’individuo vi ha assunto negli ultimi 150 anni ha portato a vedere coinvolti praticamente tutti gli esseri umani. Lo stupro ad esempio è sempre stato una pratica comune nelle famiglie popolari, con la differenza che oggi quelle persone non sono più nell’ombra, ma sono diventate protagoniste e i loro comportamenti, come gli eventi che li riguardano, hanno ormai le luci della ribalta.
In Italia, naturalmente, siamo sempre stati in ritardo e, oltre a censurare il pensiero di Nietzsche, per molto tempo abbiamo creato una letteratura che identificava quella volontà di potenza nella borghesia, mentre il popolo ne era immune (Poveri ma belli). E così oggi dobbiamo prendere atto che la volontà di potenza ci riguarda tutti, indipendentemente dall’età, dal sesso, dal tempo, dallo spazio ecc. Ricordo ancora la faccia della psicoanalista, quando le parlavo della volontà di potenza di mia figlia di due anni. La volontà di potenza caratterizza ancora mia figlia che è cresciuta, mia moglie, i miei più cari amici e ovviamente le persone che disprezzo. Sei, venti, trenta, quaranta, sessanta, ottanta e anche mio padre che è morto a 100 anni.
La volontà di potenza è infine consustanziale con la mia persona.
Ogni volta che parlo di volontà di potenza tutti storcono il naso e anche quando spiego nei particolari il senso di questa espressione trovo dei muri, perché si ha paura ad affrontare questo argomento che è più facile ricondurre alla classica opposizione tra Bene e Male. E’ stato chiarito da più parti ed è divenuto qualcosa di comune, il riconoscimento che è importante la narrazione che facciamo degli eventi; purtroppo la narrazione degli eventi è anche narrazione delle persone e la Narrazione, che dovrebbe richiedere responsabilità, è invece riportata indietro nell’alveo della Verità e dunque nuovamente dell’opposizione tra Bene e Male.
Prima era rapida l’attribuzione di qualcosa e qualcuno al Bene o al Male, mentre ora si arriva allo stesso punto ma attraverso un percorso in due fasi: 1) la Narrazione, 2) la Verità.
Quando la vita era appannaggio dei pochi potenti, checchè ne dicano i fautori del cuoco di Cesare, la questione era semplice e non mancava chi cercava di scavare. Ricordiamoci di Machiavelli che aveva scritto che “Alcuno principe de’ presenti tempi, quale non è bene nominare, non predica mai altro che pace e fede, e dell’una e dell’altra è inimicissimo; e l’una e l’altra, quando e’ l’avessi osservata, li arebbe più volte tolto o la reputazione o lo Stato“ ( Il Principe, cap. 18) e che il fine giustifica i mezzi, così da meritarsi il cambio di nome in Make evil, cioè fare il male.
Eppure, al di là e al di fuori della teoria politica, conosciamo tutti quanto pesi l’ipocrisia nella vita di tutti i giorni della gente comune. E vale sempre il proverbio “Vizi privati e pubbliche virtù” che nelle relazioni interpersonali significa: è sempre colpa degli altri. Dell’antico tessuto rimane -come sempre- lo strascico linguistico: la parola colpa al posto della parola responsabilità. Invece di assumersi la responsabilità di pensieri e azioni si continua a dare la colpa e a sentirci in colpa, ma colpa impedisce di scavare e ricostruire e condanna, all’ergastolo o all’inferno, il malcapitato. La religione e il diritto sono parte importante della civiltà umana, ma devono stare fuori dalle relazioni interpersonali, che si presentano molto più ricche e complesse.
Le cose che ho appena scritto non sono delle novità e tutti parlano di Bene, Male, Colpa, Responsabilità, Ipocrisia, Valori, Fiducia e altro, tutti termini di cui ognuno conosce bene il significato, anche se non sempre l’etimologia e la loro storia. Ciò che manca e che si fa pressante in un’epoca sempre più complessa e interconnessa è invece il legame e il rapporto, cioè la rete, che tra quei diversi termini esiste.
Se abbiamo cercato di imitare la Storia giustificandoci con i suoi grandi esempi oppure se abbiamo cercato di contrastarne il pessimo insegnamento attraverso il sostegno a princìpi e gesti positivi, richiamo di una morale come quella cristiana, ebbene in entrambi i casi abbiamo contrapposto eroi a martiri senza essere né gli uni né gli altri. Abbiamo rinunciato alla nostra persona.
Abbiamo copiato Storia e Morale senza effettivi risultati nel piccolo spazio illuminato dai nostri lanternini: non siamo stati né Napoleone né Salvo d’Acquisto, ma non siamo stati neanche la persona che storia e geografia ci hanno consegnato al mondo.
E l’amore ci ha visti completamente assenti.
Rispetto a mio nonno e ai miei genitori le persone della mia generazione e i nostri figli si trovano ad avere a che fare con l’amore in forme, misure e tempi mai visti e soprattutto l’amore fin dalla prima adolescenza, e ormai anche alla terza e quarta età, è diventato il tema dominante di ogni individuo. Esso ha sostituito il lavoro e la famiglia, che rimangono importanti, ma ormai subordinati all’amore, sia per peso emotivo sia per energie coinvolte.
Questo è un dato fenomenico, visibile ad occhio nudo e che possiamo riconoscere con estrema facilità.
Ripeto quanto detto più volte anche nella mia trilogia degli anni Novanta del secolo scorso: non c’è aspetto della vita umana ritenuto così decisivo da ognuno di noi e però completamente lasciato in disparte, recluso e segregato, lasciato privo di attenzione, riflessione, studio, scavo, nel più profondo silenzio interiore. Dell’amore. Imbellettato da inutili frasi replicate all’infinito e rivestito di orpelli raffinati o kitsch a seconda della moda del momento. Non parlo dell’erotismo che riempie sempre più la mente e il corpo di sempre più persone; parlo proprio dell’amore come viene concepito (cum-capio), com-preso, sentito, riflettuto ed espresso.
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Non occorre leggere tutte quelle voci perché esse rispecchiano ciò che appartiene al nostro microcosmo. La varietà dei temi è superata dalla varietà degli episodi e dalla specificità con cui la persona innamorata ritiene di dover collocare la propria esperienza. Raramente esce fuori una relazione tra amore e volontà di potenza e il più delle volte questi due aspetti sono visti in contrapposizione, mentre quando si riconosce un legame in genere lo si vede a partire da un’idea di amore convenzionale e scontata.
Qui si afferma invece che l’amore, nelle sue diverse manifestazioni, comuni o trasgressive che siano, è volontà di potenza. Nulla di più nulla di meno. In questo senso si insisterà su cosa voglia dire volontà di potenza solo per meglio comprendere come l’amore sia volontà di potenza allo stato puro; e questo quale che sia l’idea o la manifestazione che ci appartiene.
In questo senso dobbiamo pensare all’amore come volontà di potenza, senza un prima e un dopo né logici né cronologici. Chi si avvicina a questo mondo tende a pensare alla volontà di potenza come un qualcosa che ci domina e che domina l’amore. In realtà essa è tutt’uno con noi e noi non esistiamo, la nostra individualità non esiste, senza la volontà di potenza. E’ naturale che noi ci avviciniamo al mondo attraverso delle strutture culturali che hanno cominciato a conformarci fin dal momento del concepimento e ancor più dalla nascita. E’ difficile ricostruire minuziosamente le numerose interconnessioni con cui cresciamo e come esse si incontrino con il passato e lo modifichino; è dunque naturale, e comprensibile, che l’idea di amore diffusa e sviluppata negli ultimi mille anni sia qualcosa che ci appartiene e ci caratterizza. La volontà di potenza sembra imbrigliata in questa nebulosa, ma è sempre presente e svolge il ruolo di comando imponendosi. Ad essa non interessano né spiegazioni né giustificazioni, che lascia a noi, perché possiamo stare meglio con noi stessi. La volontà di potenza in quanto volontà di creare possibilità si muove in tutte le direzioni, contravvenendo alle nostre convinzioni e ai valori di cui ci piace fregiarci e agli obbiettivi che diciamo di prefiggerci. E’ per questo che sensi di colpa e ipocrisia sono una costante della vita umana e, anzi, crescono con una maggiore presenza della coscienza: dal momento che è difficile e complesso ricostruire il percorso che ci ha portato dove siamo, preferiamo semplificare, costruendo maschere che la stessa volontà di potenza ci aiuta a forgiare, visto che non ha tempo da perdere e che a lei non interessa se, così facendo, noi ci confondiamo ancora di più e rendiamo sempre più inestricabili le nostre esistenze.
Capisco quanto sia difficile concepire l’amore in termini di volontà di potenza, ma forse è ancora più difficile concepire proprio la volontà di potenza in quanto tale.
Già per molti la riflessione non esiste al di fuori di opinioni orecchiate in giro; per molti altri poi la riflessione su se stessi coincide con la coscienza pura e specchiata, senza increspature; qualcuno, in genere a seguito di condizioni particolari (i breakdown di cui parlano i biologi Maturana e Varela), apre qualche varco nella stanza fortificata della propria persona, ma in genere tutti abbiamo difficoltà a unire i nodi cercando di ricomporre, anche solo parzialmente, i frammenti portati alla luce. Ho usato poco sopra il termine “ipocrisia”, ma in realtà è più una difficoltà che una scelta e anch’essa è una forma con cui la volontà di potenza agisce per poter procedere. Tutto ciò si complica da quando si sono diffuse cultura e società di massa, perché la persona si trova a dover gestire una quantità di informazioni mai vista e le informazioni comportano appendici e proiezioni di diversa natura.
Nonostante Pirandello parli dell’importanza della vita e Bergson di élan vital e Schopenhauer di volontà e Nietzsche di volontà di potenza, e la fisica quantistica di entanglement, si fa finta di nulla oscillando tra consuetudini e valori morali, incisi sulla pietra.
Non è facile scavare dentro se stessi, perché ci è difficile vedere cosa si nasconde dietro e dentro gli anfratti meno aperti, e l’istinto è quello di ritirarsi, facendo finta di nulla. Non sempre però è così e, pur in maniera scomposta e provvisoria, se si riesce ad andare oltre quell’istinto, si possono vedere cose che non abbiamo bisogno di distruggere: possiamo accoglierle e cullarle e aiutarle a crescere, ma non cresceranno mai se fingiamo di non vederle. Fu così che cominciai.
All’inizio fu naturale procedere in modo deciso e arrogante, senza il minimo dubbio, ma poi tutto questo si frantumò e lentamente, dal luogo privilegiato in cui mi trovavo, cominciai a vedere attraverso filtri e sfumature: chiamai potere ciò che più tardi avrei definito volontà di potenza. E poiché avevo fatto dell’amore la mia ragione di vita, mi trovai a dover gestire due aspetti che si presentavano in comunità opposti: come legare amore e volontà di potenza? Se esalti l’amore nel senso comune sei costretto a negare la volontà di potenza, mentre se è questa il tuo punto di riferimento l’amore è ridotto a astuto espediente, stratagemma di affermazione. Sembrava un’impasse, che fu possibile oltrepassare solo grazie a quella che chiamai volontà di potenza spirituale.
E’ di questa che parlerò nell’ultimo capitolo.
Non voglio anticipare nulla, per cui torno al tema di questo capitolo: la volontà di potenza nuda e cruda, senza ulteriori specificazioni; al limite potrei chiamarla volontà di potenza materiale, ma solo per contrapporla a quella spirituale con cui concluderò le mie riflessioni.
La differenza tra volontà di potenza “materiale” e spirituale non è difficile da comprendere; ciò che è difficile, o almeno così si è dimostrato, è il legame che queste due forme hanno con l’amore.
Ogni volta che si passa dal racconto e dalla fotografia alla riflessione, cioè all’elaborazione di un concetto o di un’idea, c’è sempre qualcuno che salta su con la bacchetta: ma queste sono categorie! Trovo ingenuo questo modo di fare soprattutto se il concetto è il frutto di una riflessione su esperienza e cultura. Con questo non voglio dire che qualsiasi concetto sia valido, ma che deve essere trattato per quello che esprime, ulteriore oggetto di riflessione e approfondimento. Può trattarsi anche di ideologia, certo, ma questa non è difficile da riconoscere; può trattarsi anche di dibattito accademico e, in questo caso, ci troviamo di fronte a un microconvegno.
Ciò che qui esprimo è invece il frutto di una riflessione che è andata arricchendosi nel corso di decenni, e farà ridere sicuramente qualcuno, ma forse potrebbe non essere né inutile né comica.
Poiché l’espressione “volontà di potenza” non è certo mia, dopo la prima e non breve illuminazione decisi che era il caso di confrontarmi con le parole dell’autore della stessa; e poiché l’opera di Nietzsche, a cui fu dato quel titolo, non è qualcosa di unitario e per di più ebbe un percorso molto travagliato, dovetti procedere con cautela. Per fortuna non sono un filologo e posso muovermi più liberamente, rovistando senza pretese e partendo dal mio punto di vista.
Si comincia sempre, quando si vuole fare sul serio, con “coscienza e volontà”: scavare dentro se stessi e volere. Senza rimandare al giorno dopo. Attraverso questo strumento rimaniamo però in superficie, perché -come vedremo- sia la coscienza sia la volontà, comunemente concepite, presentano molti equivoci
Un passo avanti fu fornito da Schopenauer che con la sua Volontà agita le acque e va in profondità. Il mondo come cieca volontà è concetto completamente opposto a quello comune per il quale volontà è il massimo del proprio protagonismo. Noi, secondo il filosofo, crediamo di essere gli attori e i fautori del nostro destino, mentre siamo solo delle pedine nelle mani astute di qualcosa che impone ciò che vuole: questo qualcosa ci attira con le sue promesse, ci fa credere nell’amore, ma in realtà vuole che la specie non si estingua. La volontà vuole, noi no. La com-passione e l’arte potevano intralciare quel cammino, ma solo una specie di Nirvana, la Nolontà, poteva opporsi definitivamente.
Schopenauer ebbe un grande allievo che ben presto, pur restando sul solco del maestro, sviluppò qualcosa che è attuale, chiaro e incisivo: la Volontà di Potenza (Wille zur Macht): Macht deriva da machen, fare-creare, e ha molteplici significati: potenza, potere, facoltà. D’accordo con Schopenauer, Nietzsche ritiene che “Il mondo vero, comunque sia stato fin qui concepito, è stato sempre ancora una volta il mondo apparente” (Volontà di potenza, Opere 1882/1895, Ed. Newton, fram. 50)
Quanto elaborato da Nietzsche è meno astratto e coinvolge diversi aspetti che sono in gioco. Egli parte dal presupposto che, come per Rimbaud, l’Io sia un altro: “quando dico io voglio, quale io dentro di noi è quello che vuole?”. L’IO di cui parliamo non esiste perché è frutto di una coscienza convinta che “io sono ciò che penso”, in realtà “…tutto ciò che ci diventa cosciente è completamente costruito a bella posta, semplificato, schematizzato, spiegato…supporre un immediato collegamento causale fra pensieri, come fa la logica, è frutto della più grossolana e semplicistica osservazione. Fra due pensieri giocano il loro gioco anche tutte le possibili affezioni…l’unificazione causale di pensieri, sentimenti, desideri, come quella di soggetto e oggetto, sono per noi del tutto nascosti…” (idem fram. 113).
Non esistono un IO e una coscienza dai contorni definiti e dall’immagine precisa, perché non esiste la Verità, quell’elemento dal valore assoluto e universale che ha animato la nostra ricerca per millenni. Infatti “Verità non è perciò qualcosa che esista e che sia da trovare, da scoprire, ma qualcosa da creare e che dà il nome a un processo, a una volontà di dominio che di per sé non ha mai fine: introdurre la verità, come un processo in infinitum, un determinare attivo, non un divenire, coscienti di qualcosa che in sé sia fermo e determinato. E’ una parola per la volontà di potenza” (Frammenti postumi 1887-1888, 9 [91]). L’IO è in divenire, la coscienza è in divenire, la verità è in divenire, la volontà è in divenire, ed è la volontà di potenza l’animatrice di tutto questo divenire.
La volontà di potenza è la volontà che vuole sé stessa, ovvero la volontà come infinito processo senza un fine. La volontà di potenza non si afferma perché desidera qualcosa di concreto, uno o più oggetti specifici, ma per essere il meccanismo del desiderio nel suo stesso modo di agire: essa vuole, incessantemente, senza sosta, il suo stesso accrescimento. La volontà di potenza si misura in termini di energia, non di quantità né di fini, “è imperitura ed immensa energia vitale”, “è un’altra espressione per dire volontà di verità”.
La potenza non è mai in Nietzsche a priori contro qualcuno, ma semmai contro un se stesso in continuo movimento, aspetto questo che vediamo con chiarezza in Così parlò Zarathustra nel concetto di Oltreuomo. “Sentirsi forti-oppure detto altrimenti: la gioia presuppone sempre un confronto (ma non necessariamente con gli altri, ma con se stessi, in uno stato di sviluppo, e senza che si sappia fino a che punto si mette a confronto)” (idem fram. 285)
Per questo la volontà di potenza deve essere tradotta in volontà di potere dove potere non è il sostantivo ma il verbo: dunque caratteristica di ogni individuo è la volontà di potere, cioè di creare possibilità.
Queste possibilità, che la nostra volontà crea, le crea per se stessa: “Dalla pressione della pienezza, dalla tensione delle forze, che crescono continuamente dentro di noi e non hanno ancora la capacità di liberarsi, si crea uno stato simile a quello che precede un temporale: liberando forza che si concentrava e si comprimeva fino al tormento, porta felicità”. (idem, fram. 38).
“Che cos’è buono:-Tutto ciò che potenzia nell’uomo il sentimento della potenza, la volontà di potenza, la potenza stessa.
Che cos’è cattivo:-tutto ciò che deriva dalla debolezza.
Che cos’è felicità:-Il sentimento che la potenza cresce -che una resistenza viene superata.” (idem, fram. 414)
La vita dell’uomo è dunque legata a questa ineliminabile funzione. Lo è fin dalla nascita, quando il bambino è ancora un prodotto diretto della natura, le cui forze sono tutt’altro che benigne. Certo la cultura, dentro la quale si possono collocare molti aspetti (compresa la religione), contribuirà a far sì che la persona non sia esclusivamente natura. Non possiamo però dimenticarci della volontà di potenza.
C’è volontà di potenza nel bambino che vuole, assolutamente vuole, l’attenzione e la realizzazione dei più semplici istinti.
C’è volontà di potenza nella madre che esige soddisfazione per lo sforzo fatto, facendo fatica spesso a tagliare quel cordone ombelicale che la rende padrona.
C’è volontà di potenza nell’amore, dove il bisogno di affermare se stessi, che ognuno ha, viene sempre più allo scoperto.
C’è volontà di potenza nella sessualità che spinge a comportamenti che è semplicistico ridurre a “passione”.
C’è volontà di potenza nella pratica della solidarietà che, anche nelle migliori intenzioni, nasconde l’esigenza di affermazione.
Il dramma contemporaneo consiste non nella volontà di potenza che, come ricordano i classici ( Ettore, Achille, Enea, Orlando…), è sempre esistita, ma nel fatto che si continua a non volerla riconoscere, proprio ora che essa viene alla luce in tutta la sua chiarezza e complessità. Si continua a fingere, nascondere, rimuovere, dichiarando che non dovrebbe essere così, attribuendo la colpa ora ai valori morali ora alla televisione, a Internet, ai matrimoni gay, alla pornografia, al razzismo, alla scuola, al divorzio, all’aborto ecc.
Nell’ultimo secolo abbiamo assistito a cambiamenti epocali che da un lato hanno riguardato la conoscenza e la tecnologia, ma dall’altro hanno sconvolto il vivere e i costumi sociali. Chi avrebbe mai pensato alla comunicazione istantanea di Internet o alla chirurgia del cuore e del cervello? Chi avrebbe mai pensato che la maggior parte delle persone potesse avere un atteggiamento positivo verso gli omosessuali e potesse riconoscere il ruolo della donna? Ben pochi sono i campi che non sono stati contaminati e sconvolti da studi, riflessioni, cambiamenti (pacifici o violenti), veramente pochi, ma ce n’è uno che procede sostanzialmente nello stesso modo. Parlo dell’amore. E’ vero che anche qui molte cose si sono modificate, soprattutto per quanto riguarda l’erotismo, ma su cosa sia l’amore è cresciuta solo la confusione: naturalmente mantengo la distinzione proposta nei capitoli precedenti tra sessualità, erotismo e amore.
L’erotismo ha assunto le forme più svariate e si è frammentato in un numero sempre maggiore di proposte che coinvolgono idee parole sentimenti sensazioni e tanti altri aspetti; in fondo esso non ha fatto altro che sviluppare tutte le sue potenzialità e l’antichità ci ha lasciato tracce significative come i soggetti erotici dei templi di Khajurao del X-XI sec. d.C. o le più antiche riproduzioni delle civiltà andine presenti al Museo Larco di Lima. Se dunque i rivoli dell’erotismo sono andati sviluppandosi e diffondendosi mostrandosi sempre più apertamente alla curiosità e al desiderio degli esseri umani, la stessa cosa non si può dire dell’amore. Anche l’amore è andato ramificandosi, ma, trattandosi di un concetto, esso ha perso in questa operazione spessore, profondità e significato. E’ rimasto solo il suo carattere misterioso e da esso non si riesce a spostarci.
Anche Octavio Paz che ha posto le basi, culturali e storiche, di una seria riflessione sull’amore conclude con l’affermazione che “L’amore è costituito da una natura contraddittoria, paradossale e misteriosa” (vedi il capitolo precedente di questo lavoro). In questo capitolo ho mostrato l’accezione con cui dobbiamo leggere la volontà di potenza e considerarla come un filtro importante e una chiave di lettura delle dinamiche che coinvolgono l’amore. L’amore, non tanto l’erotismo.
Se vogliamo cominciare a dipanare la matassa, cercando di superare il cul-de-sac in cui ci troviamo quando definiamo l’amore contraddittorio, paradossale e misterioso, dobbiamo riconoscere che l’amore, nelle sue diverse manifestazioni, comuni o trasgressive che siano, è volontà di potenza. Nulla di più nulla di meno.
In questo senso dobbiamo pensare all’amore come volontà di potenza, senza un prima e un dopo né logici né cronologici e riconoscere che essa è tutt’uno con noi e noi non esistiamo, la nostra individualità non esiste, senza la volontà di potenza.
Questo lavoro non intende, e non pretende, raggiungere la Verità sull’amore, perché convinto che non esistano né verità assolute, ma che neppure la verità sia qualcosa di indefinito e relativo. Cerco solo di non rimanere bloccato in categorie che, per il loro carattere di assoluta definizione o di assoluta indefinitezza, risultano prive di prospettiva.
L’amore come volontà di potenza è un primo passo.
Nel prossimo capitolo vedremo le azioni e i comportamenti che nascondono e mascherano la volontà di potenza. Infine svilupperò quanto intravisto e indicherò un cammino da percorrere per dare una prospettiva e degli orizzonti all’amore, superando l’impasse in cui oggi ci troviamo.
Percorsi e orizzonti, non Verità.