Gennaio 2023
Premessa
La storia del pensiero su ciò che siano le emozioni, i sentimenti, le riflessioni e cose simili è talmente vasta che non è facile fare una ricostruzione e tanto meno una sintesi di ciò che è stato prodotto in questi ambiti.
Naturalmente non è mia intenzione qui aggiungere qualche pagina alla quantità già presente e che persino Wikipedia stenta a raccogliere in un insieme unitario; non c’è bisogno di nuove acquisizioni dal momento che il mondo accademico ormai quotidianamente non cessa di aggiornarci con sempre nuovi risultati. E questo soprattutto da quando in campo sono scese le forze, tutt’altro che secondarie, delle neuroscienze, che stanno affrontando l’argomento da un nuovo punto di vista, aggiungendosi agli specialisti della filosofia, della psicologia, della sociologia, dell’antropologia culturale.
Non sono un accademico e non appartengo a nessuna delle discipline appena citate, ma credo che possa essere utile un approccio euristico in cui conoscenze assimilate in modo non superficiale si incontrano con la riflessione continua sull’esperienza quotidiana della persona.
Ho chiaro che gli studi specialistici non sono inutili, ma necessari, e che però una prospettiva diversa può fornire stimoli per ulteriori approfondimenti soprattutto perché questa diversa prospettiva si è sviluppata in un rapporto ricorsivo con l’oggetto dell’esperimento e con le sue risposte durante l’indagine. A differenza delle discipline classiche in questo caso l’esperimento è stato continuo e di lunga durata facendo in modo che anche le sintesi provvisorie fossero parte dell’esperimento stesso.
C’è però un altro aspetto che deve essere preso in considerazione e che sposta l’attenzione su una prospettiva diversa, più soggettiva ma non priva di riferimenti culturali. Questo aspetto ha a che fare con la diffusione di una cultura di massa frutto della sempre più ampia alfabetizzazione e di quanto offerto, nel campo delle conoscenze, dal rapido sviluppo delle tecnologie.
Come ho evidenziato altrove questa nuova recente situazione ha prodotto un giustificato e comprensibile, seppur controverso e poco cosciente, affermarsi dell’Io che prova tutte le strade possibili per emergere cercando visibilità indipendentemente dalla sua consistenza. Diversamente da prima lo sviluppo di una riflessione su questi temi non può essere lasciato agli specialisti, il cui ruolo rimane fondamentale, perché mentre prima la separazione tra il sapere e il non sapere era netta, oggi è caratterizzata da quasi infiniti stadi intermedi.
Ogni giorno assistiamo a un dibattito fuori dai canali ufficiali e che vede come elemento centrale il protagonismo dei soggetti coinvolti, praticamente ognuno di noi. Ci sono comunque siti ufficiali e centri di ricerca internazionali che hanno un riconoscimento indubbio e che rappresentano il reale punto di riferimento per chi voglia procedere all’approfondimento di qualsiasi tema possa interessare. Dato però il carattere sempre più complesso della conoscenza l’affermazione di una tesi viene spesso messa in discussione seguendo molteplici linee di frattura e così quei centri di ricerca non sono solo oggetto del solito lavoro di confronto scientifico che non è mai mancato, ma anche di una quantità di enti che sopravvivono solo grazie all’opera di contestazione delle tesi provenienti dai siti più noti e affidabili. Lo abbiamo visto con la campagna contro i vaccini e praticamente ogni tesi proveniente dai centri più accreditati è oggetto di attacchi che un tempo sarebbero stati messi ai margini, mentre oggi trovano adesioni non secondarie grazie alla maggiore cultura e alla maggiore diffusione delle conoscenze.
Si prende un caso negativo, la dichiarazione di effetti collaterali su un bugiardino e si lancia in rete una campagna che trova un certo seguito: la maggior parte delle persone si accontenta di affermazioni clamorose ma semplici e non intende procedere a un approfondimento. Il complesso richiede maggior impegno rispetto al semplice e la visibilità del singolo è maggiore se la tesi è di effetto rilevante rispetto a un ragionamento articolato che invece di punti fermi (ed esclamativi) evidenzia le problematiche inerenti. Si è sostituito il naturale rapporto tra costi e benefici con il generico e impossibile principio di precauzione, come se punto di riferimento non fosse la storia con le sue difficoltà e gli impacci del vivere, ma un astratto modello che garantisca sempre e comunque un successo al 100 %.
I campi in cui questo fenomeno è maggiormente presente sono quello medico e quello ambientale, dove domina il catastrofismo al di là di ogni evidenza dei fenomeni e al di là di ipotesi più ragionevoli. La diffusione della liberaldemocrazia ha poi indotto molte persone a credere che ognuno abbia il diritto di esprimere quello che vuole e che per questo motivo ogni affermazione, ogni tesi debba essere considerata valida per il solo fatto di essere stata pronunciata. L’articolo di una rivista di 5-10 pagine con riferimenti generici ha così lo stesso valore di uno studio di 500 pagine ricco di dati e informazioni. L’operazione viene completata molto spesso dalla criminalizzazione dell’autore, accusato in genere di essere strumento delle multinazionali (sic!) e dei poteri forti (sic!), entità tanto generiche quanto astratte, e dal moralismo che colpevolizza la ricchezza e sviluppa sensi di colpa, senza capire (o voler capire) quanto la ricchezza mondiale abbia permesso il miglioramento delle condizioni di vita e quanto i sensi di colpa siano incapaci di produrre iniziative.
Questo avviene praticamente in tutti i campi della vita umana e ognuno si sente autorizzato a esprimere la propria opinione legittimandosi da sé o grazie a uno dei tanti siti gratuiti e certo di più facile consultazione rispetto a un libro.
C’è però un terreno in cui oltre a queste contraddizioni, se vogliamo naturali e storiche allo stesso tempo, si aggiunge un’ulteriore difficoltà: la mancanza di studi aperti e l’accettazione di luoghi comuni diffusisi nel corso del tempo.
Il terreno a cui mi riferisco riguarda il tema della persona e dei suoi comportamenti. In questo campo solo da poco si è diffuso un interesse di massa che ha il suo presupposto non tanto in studi di carattere scientifico, ma in ambiti più liberi e aperti che fanno dell’esperienza personale e dell’approccio filosofico o sociologico il vero snodo. L’IO è un terreno sfuggente e scivoloso, ampio e complesso, unico e molteplice che va a scontrarsi con l’esigenza dell’accettazione della propria persona: mentre uno tsunami, come la guerra, mi riguarda solo se mi ci trovo nel mezzo, l’amore ad esempio mi obbliga a un continuo e quotidiano confronto.
- LA PESCA A STRASCICO
Una grande differenza tra le culture antiche, soprattutto orientali (India, Cina, Giappone), e la filosofia occidentale risiede nella centralità del mito e dei miti. Anche la cultura greca, che abbiamo studiato a scuola, aveva i suoi primi fondamenti in una dettagliata e articolata mitologia, grazie anche a opere letterarie di prim’ordine. Il pregio della filosofia greca fu quello di staccarsi da quella narrazione, non perché fosse inutile o priva di valori e orizzonti, ma perché la caratteristica di ogni mitologia è quella di avere dei riferimenti, anche numerosi e importanti, che si presentano però decisivi e chiusi. Ogni riflessione, ogni analisi riconduce sempre a quella narrazione che rappresenta l’inizio e la fine senza possibilità di una completa rivisitazione. Questo non vuol dire che i miti non proponessero punti di vista reali, attraverso avvenimenti storie personaggi: le figure, eroiche o meno, le storie, entusiasmanti o tristi, gli avvenimenti, con o senza riferimenti storici, ebbene tutto questo proponeva modelli e valori che venivano trasmessi alla comunità e questa grazie ad essi si sentiva unita e unita procedeva.
La parola per l’uomo ha sempre avuto il senso di occupare spazi e dominare, come per tutti gli animali con caratteristiche differenti, ma per farlo realmente la parola doveva trasformarsi in pensiero. I miti hanno permesso di realizzare questa trasformazione, con la quale si cercava di spiegare la realtà, l’insieme cioè di tutti gli elementi che caratterizzano gli uomini e componevano il mondo circostante, cioè la Natura.
Mentre i miti, attraverso l’immagine, cercavano di ricomporre il senso della realtà e dunque anche degli esseri umani, la filosofia si presenta in forme più semplici e allo stesso tempo più complesse: più semplici perché i filosofi non avevano bisogno delle immagini, più complesse perché la ricerca veniva riportata sul piano della parola, pura ed essenziale, il che richiedeva un impegno più astratto e senza mediazioni.
Il mito operava dalla parola alla parola attraverso le immagini, la filosofia passava direttamente dalla parola alla parola che diventava pensiero.
Dalla realtà di cui l’uomo era parte lentamente si è passati a considerare l’uomo come realtà, autonoma e a se’ stante, mentre grazie al Cristianesimo e soprattutto a Sant’Agostino quell’uomo diventa “persona”. Il passaggio è solo in apparenza privo di significato, in fondo uomo o persona sembrano essere la stessa cosa; in realtà c’è un salto di grandi proporzioni: l’uomo è l’essere umano in quanto tale, una entità che è indifferente al singolo, all’individuo, mentre la persona mette in rilievo quel particolare, specifico individuo che ha certo punti in comune con tutti gli altri, ma che si caratterizza per un suo particolare modo di essere ed esistere. Da qui il libero arbitrio e la responsabilità che sono radicati in ogni singolo essere umano.
All’inizio questa persona deve rispondere a valori che sono determinati, e Dante ce ne offre un ampio catalogo, nel quale si trovano molteplici punizioni e molteplici premi che ognuno merita perché ha interpretato quei messaggi che gli venivano proposti, facendolo a modo proprio.
Le certezze di Dante derivavano dalla filosofia di San Tommaso, ma ci fu anche un altro modo di tradurre la scoperta della persona e che proviene da Agostino e che all’epoca di Dante troverà il suo massimo interprete in Petrarca: le certezze non mancano, ci sono, le conosciamo, sono visibili là all’orizzonte, ma ciò che non è certo è il soggetto che dovrebbe interpretarle, la persona, un essere fragile, debole, pieno di dubbi, spinto da diversi venti.
Anche se la filosofia risente solo in parte di questa scoperta, essa proseguirà nel suo compito di conoscere, comprendere, spiegare, cercando di creare un sistema unitario che permettesse all’uomo di trovare una sua ragione d’essere: essa rimane però sull’uomo e la sua esistenza come qualcosa di generale e, in quanto tale, comune.
L’interesse per la persona intesa come individuo singolo e specifico diventa appannaggio della letteratura e soprattutto della poesia, dove, certo nel rispetto di regole consolidate, il poeta mette a nudo la sua persona. Lo stesso Agostino ne Le confessioni aveva mostrato quanto fosse importante scavare dentro la propria esistenza per portare alla luce la propria anima. Dai tempi di Dante e Petrarca la letteratura si fa carico di questo lavoro, molto spesso attraverso personaggi di fantasia, ma talvolta anche, come aveva fatto Petrarca, ritenendo decisivo il parlare di sé, non come autobiografia memoriale ma come ricerca interiore.
Proseguendo la ricerca sul senso del reale uno snodo avviene nel XVII secolo con Cartesio grazie alla divisione che opera nella realtà tra res cogitans e res extensa, che porta all’affermazione dell’IO nel momento in cui conclude la sua riflessione con il noto “Cogito ergo sum”, “Penso dunque sono”. Siamo sempre nell’ambito tradizionale che però avrà un effetto decisivo (insieme ad autori come Galileo e Newton) nel determinare le basi della così detta Scienza Moderna i cui presupposti oggettivi e deterministici verranno messi in discussione solo da pochi decenni.
La filosofia continua nella sua ricerca ora spingendo sul tasto materialista ora attraverso impostazioni idealistiche, ma sempre confermando quella che è sempre stata la scelta della filosofia occidentale, basata sul valore della Metafisica. Solo nel XIX secolo si comincerà a pensare al di fuori della Metafisica soprattutto grazie a Nietzsche con un percorso che esploderà nel XX secolo e risulterà evidente ai giorni nostri.
Nonostante questo continuo sviluppo, approfondimento, crisi, ricostruzione e nuove prospettive sarà sempre la letteratura, e in particolare la poesia, a fornire un contributo continuo a uscire dal carattere generico (e assoluto e metafisico) della persona per portare alla luce l’individuo. Il momento in cui essa si impone non solo come esperienza, ma anche come teoria, è la metà del XIX secolo, grazie a due poeti francesi, Baudelaire e Rimbaud, che riusciranno a fare della parola non più un elemento estetico, ma uno strumento di costruzione della propria persona.
Rimando a quanto scritto in altri miei saggi per una comprensione più ampia di questo fenomeno e del rapporto tra poesia moderna e scienza della complessità; qui sviluppo la parte relativa all’emergenza definitiva dell’individuo, quello concreto e in carne ed ossa, non quello generale e metafisico. L’IO.
Baudelaire si esprime in termini anticartesiani (Corrispondenze, Inno alla bellezza) e si serve della parola per scavare dentro la propria persona, trasformando così la poesia da rappresentativa in creatrice. Il poeta al termine dei suoi versi non è più lo stesso della prima parola; certamente inizia con un’idea di ciò che vuole affrontare (il cosa), ma il come sono le parole che dispone nel foglio in quella determinata forma e sequenza. In questo senso è utile dire che la raccolta “I fiori del male” vuole mostrare la capacità di estrarre anche da situazioni negative qualcosa di attraente, ma ciò ci impedisce di cogliere nel segno, perché la poesia non gli serve per dichiarare qualcosa, ma per produrre e mostrare una trasformazione. Prendiamo Spleen IV. I versi non sono la dichiarazione del livello di sofferenza che l’uomo può raggiungere, ma una condizione particolare che vive l’IO-Baudelaire in un preciso momento storico della sua esistenza e usa le parole che leggiamo per scavare dentro questo suo momento esistenziale.
Quand le ciel bas et lourd pèse comme un couvercle
Sur l’esprit gémissant en proie aux longs ennuis, Et que de l’horizon embrassant tout le cercle Il nous verse un jour noir plus triste que les nuits; Quand la terre est changée en un cachot humide, Où l’Espérance, comme une chauve-souris, S’en va battant les murs de son aile timide Et se cognant la tête à des plafonds pourris; Quand la pluie, étalant ses immenses traînées, D’une vaste prison imite les barreaux, Et qu’un peuple muet d’infâmes araignées Vient tendre ses filets au fond de nos cerveaux, Des cloches tout à coup sautent avec furie Et lancent vers le ciel un affreux hurlement, Ainsi que des esprits errants et sans patrie Qui se mettent à geindre opiniâtrement. – Et de longs corbillards, sans tambour ni musique, Défilent lentement dans mon âme; l’Espoir, Vaincu, pleure et l’Angoisse atroce, despotique, Sur mon crâne incliné plante son drapeau noir.
|
Percorso, viaggio che si compie tra il 1° e il 20° verso. Baudelaire uomo sta soffrendo (in quel giorno, a quell’ora, in quel luogo) e la prima tappa è un sentirsi intrappolato nella sua dimensione fisica, come in prigione. La seconda tappa introduce la Speranza, che non può non essere presente, ma questa non riesce a trovare un percorso. La terza tappa vede coinvolta la dimensione interiore, l’anima e la mente, che sopravvivono e sperano, ma i colpi (fisici e sonori) si abbattono contro di loro. Non è la fine, ma ci siamo vicini. Ed eccoci al punto di arrivo, mortale, definitivo quando e dove si celebra il trionfo dell’Angoscia.
Non è una dichiarazione sul male di vivere, ma lo scavo dentro l’anima e la scoperta delle forme e dei mezzi con cui l’Angoscia si impossessa dell’anima a danno non solo della Speranza, ma anche della Noia-Difficoltà. Il giorno dopo è un altro giorno, e un’altra poesia, ma che non potrà dimenticare quanto espresso – e acquisito – grazie all’esperienza e alle parole del giorno prima. Quell’esperienza capita a tutti, ma solo le parole hanno permesso di procedere nella costruzione della persona, perché senza quelle parole non ci sarebbe stata metabolizzazione.
Altre parole daranno vita ad altre poesie e con-formeranno la persona dell’uomo Baudelaire.
Ancora più chiaro è il discorso dell’altro poeta, A. Rimbaud, ne La lettera del veggente dove chiarisce in chiave sia teorica sia storica quanto sto evidenziando qui: l’emergenza dell’individuo concreto, qui ed ora, storicamente e geograficamente determinato.
Poiché il movimento culturale che aveva esaltato il ruolo dell’individuo è stato il Romanticismo è a questo che R. si rivolge scrivendo:
On n’a jamais bien jugé le romantisme. Qui l’aurait jugé ? Les Critiques ! ! Les Romantiques, qui prouvent si bien que la chanson est si peu souvent l’œuvre, c’est-à-dire la pensée chantée et comprise du chanteur ? Car JE est un autre. Si le cuivre s’éveille clairon, il n’y a rien de sa faute. Cela m’est évident. J’assiste à l’éclosion de ma pensée : je la regarde, je l’écoute : je lance un coup d’archet : la symphonie fait son remuement dans les profondeurs, ou vient d’un bond sur la scène. Si les vieux imbéciles n’avaient pas trouvé du Moi que la signification fausse, nous n’aurions pas à balayer ces millions de squelettes qui, depuis un temps infini, ont accumulé les produits de leur intelligence borgnesse, en s’en clamant les auteurs ! |
E’ vero che i Romantici hanno scoperto l’Io, ma “quei vecchi imbecilli hanno trovato dell’Io solo il significato falso, e così dobbiamo spazzare via quei milioni di scheletri che, per un tempo infinito, hanno accumulato i prodotti della loro intelligenza orba, affermando di essere gli autori!”.
Qual è dunque il vero significato dell’IO?
Intanto l’IO è un altro, è cioè molteplice come sarà chiaro con Nietzsche e Freud, ma soprattutto deve essere l’IO concreto che non si limita a fotografare il suo pensiero, ma deve deformarlo in tutte le possibilità per cercare la propria anima; e non basta, perché deve coltivarla e trattenerne solo la quintessenza: è un processo che ci porta nell’ignoto e che non ha termine se non con la nostra fine.
Naturalmente la Lettera è molto più ricca, ma per il mio ragionamento è sufficiente quanto ho riportato: con Baudelaire e Rimbaud l’IO esce allo scoperto con la consapevolezza di aver trovato un nuovo punto di partenza. Dopo di loro la letteratura si muoverà principalmente in questa direzione e la cultura in generale dovrà fare i conti proprio con la concretezza dell’individuo; anche la scienza abbandonerà i principi generali e universali a favore del particolare, dello specifico, dell’individuale e del contingente. Basta pensare al decisivo “ruolo dell’osservatore” di cui parla la fisica quantistica e che da allora farà parte di ogni ramo della ricerca scientifica.
Come le montagne non sono triangoli così l’IO di cui si è parlato sempre è solo una sua riduzione, una sua approssimazione: da qualche decennio ci troviamo a dover affrontare un’indagine più complessa, molto più complessa, anche quando vogliamo parlare della persona, soprattutto di noi.
L’individuo in carne ed ossa era attributo in passato solo di grandi e potenti, spesso assimilati a divinità, ma lentamente è passato ad identificare persone più numerose, prima Re, Generali, Sacerdoti, artisti, poeti e qualche figura considerata importante. Da un migliaio di anni il panorama si è allargato a imprenditori, commercianti, funzionari, inventori, scienziati. Oggi il puzzle è completo e quel panorama include ognuno di noi.
E’ comprensibile che abbiamo difficoltà ad agire in questa nuova e originale situazione, per cui lo facciamo in modo disordinato, caotico, buffo, spesso inconcludente. L’aspetto più curioso di questa situazione è che lo facciamo senza rendercene conto e anzi spesso nella massima convinzione di dedicarci all’altruismo, alla solidarietà, una convinzione che ci porta a negare quella che invece è la realtà egoistica che ci caratterizza.
Come nella pesca a strascico alla fine nel mezzo a centinaia di sardine qualcosa di più pregiato rimane: nella pesca a strascico della Storia ecco che si comincia a scorgere sempre di più l’individuo.
- EMOZIONI
Da un punto di vista etimologico il termine deriva dal latino emotionem, con la radice emot-, che ritroviamo nel participio passato emotus del verbo emovere, ex-movere, muovere da, trasportare fuori, smuovere, scuotere.
Qualcosa che è dentro viene mossa e portata fuori. Movere non vuol dire semplicemente spostarsi, ma indica qualcosa di meno lineare, meno facile, come il moto ondoso, i movimenti sociali, le mosse di karatè, le mosse di un ballo: uscire dal nostro dentro richiede di passare diversi strati e ciò avviene attraverso lo scuotere della persona. L’emozione è questo scotimento.
E’ interessante il fatto che il termine emozione non sia presente nella lingua greca e in quella latina e che compaia solo nel Medio Evo ad opera del Cristianesimo e si sia ramificato, fiorendo e fruttificando nel millennio successivo. Esiste però già la parola commozione, seppur non molto presente, come in Cicerone: “(La commozione è chiamata affectio) una disposizione dell’animo o del corpo, un cambiamento improvviso per qualche causa come la gioia, il desiderio, la paura, la molestia, la malattia, la debolezza” (De inventione) o in Quintiliano che la definisce “Un temporaneo moto dell’animo come l’ira, la paura…”.
Si coglie qui l’essenza dell’emozione come “affetto dell’anima o del corpo” e suo “moto temporaneo”, ma, sempre col Cristianesimo, le due parole tenderanno a divergere con la commozione che mostra un senso di pietà e l’emozione una condizione più complessa. Non è un caso ancora una volta che il commuoversi viene sempre più approfondito da cristiani come San Gregorio Magno, San Benedetto (la Regola), San Giovanni Crisostomo. Nel mondo classico si riconosce la presenza di questa disposizione e anche nei Poeti che sanno coglierla come Virgilio (non a caso maestro del cristiano Dante) il movere appare in misura maggiore come qualcosa di fisico (emotus è ciò che prova Palinuro ma anche il movimento dei cardini).
E’ dal 1700 (Anton Maria Salvini, Magalotti…) che il termine emozione diventa sempre più oggetto di attenzione e vede nel XIX e XX secolo il massimo interesse e la maggior quantità di studi fino all’approccio delle neuroscienze con A. Damasio (autore del celebre “Gli errori di Cartesio” e soprattutto di “Emozione e coscienza”).
Se noi cerchiamo di capire cosa sia specifico delle emozioni troviamo una vastissima letteratura in cui si esprime la ricerca scientifica; ci sono tante posizioni, in genere non antitetiche, ma ognuna esprime il proprio punto di vista che è legato al particolare approccio della disciplina e all’orizzonte che questa impone. Non sono un ricercatore, ma credo di poter contribuire alla riflessione dell’uomo comune attraverso un atteggiamento fenomenologico ed euristico.
Cosa e come ci appare il “fenomeno” dell’emozione?
Innanzitutto esso coinvolge direttamente il corpo attraverso evidenti (ex-videre, cioè che si fanno vedere) manifestazioni: riso, pianto, brividi, tremori, sussulti, sospiri, tachicardia e molto altro.
In secondo luogo l’apparizione di queste manifestazioni è abbastanza istantanea, nel senso che compare quasi improvvisamente e non è quasi mai preparata da un percorso che vuole comporla.
In terzo luogo l’emozione non è di lunga durata, nel senso che la manifestazione non si protrae in genere per ore sia perché sottopone il corpo a una pressione molto forte sia perché ha bisogno di proteggersi e di proteggere la persona.
Spesso o quasi sempre la comparsa dell’emozione avviene senza una immediata comprensione delle origini e delle cause: ciò non vuol dire che non ci siano elementi che abbiano spinto per muovere fuori quella manifestazione, anzi. Non significa neppure che chi prova più emozioni sia una persona più ricca di chi presenta un numero minore di manifestazioni. In questo caso:
1-Può essere che ci sia una repressione che l’anima opera per l’abitudine a un percorso lineare e senza scosse che evita di fare i conti con noi stessi;
2-Può essere anche che ci sia stata un’opera di metabolizzazione avanzata tale che si siano fatti i conti con la nostra storia personale che non ha bisogno di molti segnali che l’anima invia attraverso il corpo.
Per quanto si voglia continuare a separare mente e cuore, anima e corpo appare sempre più evidente che questi due universi sono interconnessi e che dietro ogni manifestazione corporea opera un’anima nella quale dialogano e confliggono (questa è la vita) il pensare e il sentire. Un tempo (fino a 50 anni fa) provare emozioni era segnale di debolezza, ma, come succede spesso, il fenomeno si è in seguito ribaltato e la nuova ideologia condanna chi manifesta poche emozioni o chi non ne presenta del tutto. Come sempre ciò che è importante è il come non il cosa né il quanto; e il come ci dice l’importanza di risalire dall’emozione provata agli elementi che l’hanno generata. Recentemente mi sono uscite delle lacrime vedendo un film che raccontava una normale storia familiare: ho frugato tra i miei pensieri e ho trovato la porta attraverso la quale passare per com-prendere il legame tra la mia storia, la mia persona e quel particolare evento.
Oggi la parola “emozione” è diventata un passe-par-tout e una nota di merito, tanto che è presente in ogni trasmissione televisiva e nei post su Instagram e Facebook con un preciso significato, cioè senso e direzione, perché essa va di pari passo con la parola “verità-vero”. “Il vero Io” si esprime attraverso le emozioni perché le emozioni sono ingenue e istintive, non si nascondono secondi fini e quindi fanno parlare la verità e mostrano “Il vero Io”. Tralasciando Sant’Agostino, Petrarca, Rimbaud e le moderne neuroscienze questo è l’emblema e la rappresentazione palpabile-evidente di tutto il discorso fatto nella Premessa: l’individuo odierno, un tempo appartenente al popolo ignorante, è emerso dalla nebbia e ha sempre qualcosa da dire; crede che il parlare dopo un plurimillenario silenzio ne garantisca la verità, mentre di fatto riproduce solo suoni raccolti qua e là e lo fa con la modestia dei propri studi e della propria persona.
La tendenza a contrapporre mente e cuore è fortissima anche se oggi è sbilanciata dalla parte del cuore. A livello popolare è sempre la contrapposizione semplicistica tra Illuminismo e Romanticismo, nonostante Gadamer abbia mostrato la vicinanza tra i due movimenti, solo che oggi entra nel vissuto individuale e riproduce il conflitto, perché l’essere umano conosce per differenze (G. Bateson) e qual è la più forte ed espressiva differenza se non il conflitto, la lotta, la creazione-presenza di un nemico?
In un lungo dialogo sul rapporto con i figli fatto con una mia collega, dal momento che io insistevo sull’importanza della metabolizzazione attraverso lo scavo e il pensiero, lei mi disse che non servivano le parole-discorsi ma solo gli abbracci. Le feci notare che abbracciavo continuamente mia figlia e che non mancava giorno che la svegliassi con baci e abbracci e le dessi il bacio della buonanotte, Lei non seppe più cosa dire: per lei esistevano solo la mente e il cuore e solo una poteva essere la primattrice.
E invece…
Spesso viene citato Pascal per il famoso “le ragioni del cuore”, ma anche Pascal procede a separare i due organi, pur se li mette in collegamento. Il punto è che è difficile riflettere tenendo aperti i canali e senza dover stabilire primati; è difficile riflettere, anzi pensare, in modo ricorsivo e reticolare con una causa che genera un effetto che genera la causa: se non si fanno esperimenti su noi stessi vince sempre l’abitudine di stabilire sempre in modo assoluto un principale e un secondario che è altra forma del determinismo causa-effetto. L’esperimento deve abbandonare la dimensione lineare e generale (o assoluta) per concepire una struttura reticolare e particolare-provvisoria. Reticolare (come il cervello) significa che non esiste un centro e una periferia che sono tali solo in modo relativo, quando noi decidiamo che quell’elemento sia il centro e gli altri periferia: ciò che oggi decidiamo essere centro domani può, senza problemi, diventare periferia. E questo è l’aspetto per cui dobbiamo abituarci a considerare i vari nodi della nostra esistenza come particolari e provvisori: ciò non li sminuisce né li de-qualifica, perché siamo noi a stabilirne qualità e importanza.
[Io ad esempio ho considerato l’amore come l’aspetto decisivo della mia esistenza. All’inizio ne ho fatto un aspetto generale e assoluto (ricordo quando sono passato dal comunismo all’amore), poi ho introdotto elementi nuovi e diversi che mi hanno portato a trasformare l’amore in un orizzonte e non in una ragione di vita che avrebbe sfiorato l’ossessione. Quegli elementi nuovi hanno introdotto aspetti legati alla vita professionale, sociale, sentimentale, culturale, ma il percorso non è mai stato a senso unico: ogni elemento esterno che introducevo nell’amore veniva regolarmente modificato dall’esperienza amorosa in un rapporto di reciproca interdipendenza.L’acquisizione dell’importanza del mercato e della concorrenza (alias del capitalismo) nella storia umana mi ha permesso di rivedere questo aspetto nelle relazioni amorose e compreso meglio l’aspetto della rivalità e della gelosia.
L’acquisizione della follia non come qualcosa di mostruoso e anormale, ma come aspetto che non è estraneo alla nostra umanità mi ha aiutato a comprendere il fallimento di relazioni là dove comuni amici spingevano sul tasto “lei/lui è pazzo/a”.
Aver compreso come il determinismo scientifico avesse lasciato il posto a una visione complessa che non negava quanto scoperto in precedenza ma ne vedeva i caratteri di approssimazione e riduzione mi ha portato nell’amore a non usare parole de-finitive nel senso comune e a vederne la struttura: ho smesso di usare espressioni come “tiamo-nontiamopiù, stronzo, traditore, puttana, bugiardo” ecc. Queste parole erano prive di sostanza perché avevano (e hanno) un valore chiuso, mentre dietro di esse c’è un mondo ricco e complesso fatto di reti e non solo cause-effetti. Sono come i triangoli in rapporto ai frattali (vedi Stoppard: le montagne non sono triangoli).
Aver compreso che la Storia non è riconducibile a una o più cause, ma si muove per flussi come un fiume e che “anche il passato aveva un futuro” (Ricoeur) e che il particolare non è indifferente al percorso (Morin) e che le possibilità dipendono dai vincoli (Ceruti) e che davanti a noi non c’è un obbiettivo ma un orizzonte (Gadamer) tutto ciò mi ha spinto a trasformare l’amore da una serie continua di tiamo a un processo di costruzione che mi obbligava a fare i conti con i singoli episodi quotidiani nel cono di luce del passato e nell’orizzonte del futuro.
E così dopo aver detto tiamo ho scritto “il giovane incontro del Caso” per mettere in evidenza come non era finito l’Amore ma un Amore e che il Caso, sempre a me amico, mi aveva fatto incontrare Lei e questo Amore era diverso, nuovo, più complesso: “(Lui)Fu tutto per lei… Il risveglio era il dolce risveglio e il sorriso di lei era il suo sorriso. La notte aveva i colori del caso, ma sempre -comunque- il risveglio era il dolce risveglio e il sorriso di lei era il sorriso di lui… Nuovo giro, nuova corsa. Tutto viene azzerato e si procede a rimescolamenti e nuove disposizioni. Eppure il Caso continua ad esserti amico. Evita accatastamenti e relativismi, ti sfida sul terreno di cui ti credevi padrone, introduce pedoni, corrode le tue sicurezze, ti invita a pensare. Ancora…”. Solo chi è alle prime armi non riesce a vedere in quelle parole e in tutte le altre di Sorriso un amore più pieno e più ricco, un dono del Cielo che nessuno aveva ricevuto prima.
Tanti altri esempi costituiscono le diverse tessere del puzzle che rinnovando i quadri precedenti hanno permesso di procedere alla costruzione della mia persona in una relazione ricorsiva tra amore-professione-cultura-relazioni-corpo-mente, dove la scoperta fatta in ognuno di questi aspetti trasformava, arricchendolo, tutti gli altri.]
Questa digressione non è un’inutile parentesi, ma uno dei rami che la riflessione sulle emozioni ha prodotto e che fortifica il tronco stesso, a cui però occorre tornare. E tornare alle emozioni significa ricordare il contributo di Damasio. Non sono un neuroscienziato e neanche uno scienziato e non intendo entrare qui nel merito del dibattito sulla mente, la coscienza e il sentire: non sono del mestiere, direbbe Zalone. Parlo di Damasio perché è l’autore che mi ha aperto nuovi orizzonti a partire dal suo “L’errore di Cartesio”, titolo che è certo anche un modo accattivante per parlare di neuroscienze: aprire nuovi orizzonti non significa, nella costruzione della mia persona, “essere d’accordo” con Damasio, cosa che sarebbe ridicola e patetica; non essendo del mestiere, significa che l’interpretazione di certe sue riflessioni mi permettono di strutturare il percorso di costruzione della mia persona. Può darsi che lo stesso Damasio non si riconoscerebbe nella trasformazione, ad opera mia, delle sue parole nella mia costruzione, ma credo che questo sia il metodo corretto perché le parole divengano creatrici e non semplice opinione o rappresentazione. La critica di Damasio a Cartesio, attraverso dovizie di studi ed esperimenti, si riconduce al superamento del dualismo, cioè della separazione tra mondo e IO, tra corpo e mente. Tanti altri aspetti sono importanti in quel libro, ma qui ci interessa solo questo elemento.
Innanzitutto c’è l’analisi propriamente scientifica che non ha senso discutere: “In breve gli stati emotivi sono definiti da una miriade di cambiamenti del profilo chimico del corpo, da cambiamenti dello stato dei visceri e da cambiamenti del grado di contrazione di vari muscoli striati del volto, della gola, del busto e degli arti. Ma sono definiti anche da cambiamenti nella collezione di strutture neurali che hanno causato innanzitutto quei cambiamenti e poi anche altri cambiamenti significativi dello stato di numerosi circuiti neurali”. (Emozione e coscienza, pag. 339. Adelphi 2000).
Dunque non esiste un corpo e una mente, ma i due sono in relazione, integrati e interconnessi: l’aggrottare la fronte dipende da quanto incamerato dal cervello e produce nel cervello nuove incorporazioni, pronte ad agire quando le condizioni lo richiederanno.
C’è in questo processo un elemento che ho già messo in evidenza e che Damasio richiama nella sintesi del processo, parlando di un primo passo: “Coinvolgimento dell’organismo da parte di un induttore di emozione, per esempio un oggetto particolare elaborato visivamente, da cui derivano rappresentazioni visive dell’oggetto. Dell’oggetto si può diventare coscienti o meno e lo si può riconoscere o meno, poiché né la coscienza dell’oggetto né il suo riconoscimento sono necessari per la continuazione del ciclo”. (idem, pag. 340).
La consapevolezza delle radici di un’emozione non è un fatto poco importante, come pensano i cardiocentrici, perché è una delle tante manifestazioni con cui il nostro IO si esprime lasciando il segno, l’impronta di una presenza che proviene dal passato: una delle tante radici che ci compongono. Carpere diem convinti che il passato sia passato è, proprio a partire da qui, un errore che rischiamo di pagare a caro prezzo, soprattutto se diventa la pratica con cui ci moviamo. Abituarsi a scavare nelle manifestazioni della nostra esistenza a partire da emozioni espresse ci aiuta a orientare la costruzione della nostra persona, a dare un senso (significato e direzione) a questa costruzione, mostrando il nesso indissolubile tra presente, passato e futuro. Non è certo l’unico metodo, ma è senz’altro uno dei migliori. Il presente, come ricorda O. Paz nel suo discorso in occasione della consegna del Premio Nobel (La busqueda del presente), il presente è soprattutto presenza, cioè pre-(es)senza e dunque il presente è un qualcosa fuori di noi e allo stesso tempo siamo noi, il nostro IO: vivere il presente significa cercarlo (busqueda) perché nel presente c’è tutta la nostra storia intera e i nostri possibili futuri.
Non esiste storia senza geografia, il che vuol dire che non esiste tempo senza spazio: il presente come tempo è anche presenza come spazio e i due termini sono interconnessi, inestricabilmente legati.
Il presente è il luogo della presenza, anzi “è la sorgente delle presenze” (O. Paz, idem). “La riflessione sopra il presente non implica rinuncia al futuro né dimenticanza del passato: il presente è il luogo di incontro dei tre tempi. Tanto meno si può confondere con un facile edonismo.”. (O. Paz, idem)
Non è questione di curriculum, ma la presenza è possibile solo ripercorrendo i passi, le scelte, la responsabilità che ci hanno portato qui in questo momento e in questo luogo. E’ una rete che si compone di tanti filamenti e che ha origine con la nostra nascita; essere una rete e non una linea significa che la costruzione della nostra persona fino alla nostra presenza nel presente si è mossa attraverso tutti i possibili movimenti, compreso tornare indietro, ripercorrere tratti già solcati, muoversi obliquamente, tornare indietro e procedere in avanti ripetendo quanto già percorso oppure dando vita a filamenti del tutto nuovi e inaspettati. Non è possibile ricostruire la rete che abbiamo filato o tessuto nel corso di tutti gli anni e di tutti gli spostamenti della nostra esistenza, ma è possibile ad un certo punto della nostra vita voler ricostruire quella rete, sapendo che prima cominciamo e meglio è, sapendo che le trappole sono tantissime e una fra tutte si impone, una trappola con cui conviviamo da sempre e che spesso si prende gioco di noi. Questa trappola è la memoria.
Anche su questo tema le neuroscienze ci hanno messo in guardia e così abbiamo fatto passi avanti nella conoscenza della nostra conoscenza (Ramachadran Schacter…). Sappiamo ormai che la memoria non è un cassetto in cui archiviamo i nostri ricordi come delle fotografie, pronti a presentarli anni dopo al bisogno nella forma originaria: la memoria interviene attivamente su quei ricordi talvolta salvaguardandoli nell’insieme, ma più smesso modificandoli poco o tanto, sempre al bisogno. Ci sono studi interessanti che aiutano a capire a che punto siamo. Ne cito uno solo per l’utilità che presenta: due psichiatri hanno seguito una persona contemporaneamente e, alla fine di tutte le sedute, è stato chiesto loro di presentare una relazione sugli incontri. Nonostante avessero incontrato il paziente nello stesso luogo e per lo stesso tempo le relazioni sono risultate discordanti come se i due medici avessero incontrato persone diverse (Pluriverso, n.1).
Torniamo a noi.
Molte di queste cose si sanno, sono diventate comuni anche grazie al cinema e alla televisione, ai film alle serie all’intrattenimento. Esiste però un salto quando dobbiamo passare dalle conoscenze acquisite, riconosciute e manifestate alla loro applicazione nella nostra esperienza quotidiana.
Ormai chiunque sa che la pazzia non esiste e che il concetto di normalità è fatuo eppure quel mio caro amico, bilaureato e intellettuale di ampio spessore, non esitò a dichiarare che la moglie che lo aveva lasciato con manifestazioni anodine era pazza.
Lo stesso vale per i continui scontri tra parenti, amici, fidanzati e coniugi sul ricordo di episodi: tu hai detto, tu hai fatto, ma tu prima hai detto, no non l’ho detto, non è vero ecc., cose che appartengono alla vita di relazione di ognuno di noi. In particolare dopo l’esperimento ricordato poco sopra appare incredibile, probabilmente incorporato a livello genetico, che si continui a non prendere in considerazione l’ipotesi che i due diversi punti di vista siano entrambi legittimi. Se così si facesse ci si abituerebbe a una visione più profonda e meno conflittuale, più responsabile e costruttiva: la responsabilità non è il rispondere ai Comandamenti morali o civili, ma ai nostri pensieri e alle nostre azioni secondo quanto ci è dato conoscere. L’abitudine a trasformare la conoscenza in Verità (assoluta) continua a caratterizzarci nei comportamenti quotidiani con un gioco a somma zero: il dilemma del prigioniero ha mostrato come esista la possibilità di giocare e vincere entrambi, procedendo a un percorso di costruzione. Tutti sanno, e dichiarano e scrivono e postano e insegnano, che il concetto di normalità è superato, eppure quei tutti nella loro vita quotidiana continuano a ragionare in termini dualistici, noi e gli altri, il bene e il male.
E’ ormai stato chiarito che le società nascono per coalizzarsi contro le offese che regolarmente produce la Natura e che la sopravvivenza è dipesa da questo, ma le società in quanto corpi omogenei hanno visto le altre comunità come rivali per l’acquisizione di quel poco che la Natura lasciava loro a disposizione. In questo contesto l’umanità è andata strutturandosi per principi dualisti che poi, sia nel paganesimo sia nelle religioni monoteistiche, hanno coinvolto entità superiori a garanzia di questo dualismo. Fin qui nulla di nuovo, è la storia dell’Umanità. Quando questo dualismo è uscito dalla legittimazione religiosa e si è incarnato nella Scienza, che si proponeva di conoscere esattamente il mondo e le sue regole, allora il dualismo cessava di trovare la sua garanzia in entità sovrannaturali e si legittimava di per sé come essenza dell’uomo. La scienza moderna si ammanta di uno statuto completamente nuovo e mostra secolo dopo secolo una vasta quantità di successi, mentre in contemporanea cresce il livello di alfabetizzazione popolare arrivando a una vera e propria cultura di massa. Il dualismo di origine religiosa ripreso dalla Scienza moderna in termini di Vero-Falso si innerva nella vita quotidiana dei singoli individui che, mentre ottengono il diritto di voto e la scuola, si sentono indipendenti e liberi e fanno proprio tutto quanto liberato dalla Scienza. Potremmo chiamarla evoluzione culturale genetica. Torna comoda la filosofia del passato: tertium non datur e la matematica non è un’opinione: per il maestro, l’infermiere, l’operaio, il contadino, l’artigiano e i loro figli si crea un sostrato di valori che si pretendono oggettivi e in quanto tali assoluti e universali. A differenza della ghigliottina regalata ai realisti della Rivoluzione Francese ora esiste per fortuna solo l’ostracismo per chi osa dubitare dell’esistenza di valori: cosa legittima perché i dubbiosi non sono in grado di giustificare le proprie stramberie. Questo sistema così ben oleato e che dobbiamo ringraziare per la vita migliore che ci ha permesso, ebbene questo sistema comincia a mostrare le proprie crepe grazie alla poesia, alla letteratura, all’arte, alla fisica, alla biologia, alle neuroscienze tra XIX e XX secolo. Oggi sostenere “la normalità non esiste” o “chi dice cosa è normale?” appartiene al senso e al pensiero comuni, ma…. Ma nella vita quotidiana la maggior parte delle persone continua a procedere in modo dualistico. La novità interessante è che, privati di Dio e di valori assoluti, gli individui, per sostenere e giustificare la propria esistenza, devono fare riferimento a se’ stessi e dunque trasformare una differenza di opinione o di pensiero in uno stigma da combattere perché in gioco non sono più valori per cui combattere (adesione), ma la persona stessa (identificazione): ne va della sua esistenza e del suo specchio. Alla faccia di Vitangelo Moscarda. Certo c’è chi si mostra quasi indifferente e chi ne risulta ossessionato: storie familiari in osmosi storica e sociale.
- SENTIMENTI
Se voglio affrontare i tre argomenti, emozioni sentimenti riflessioni, in modo complesso non posso limitarmi a un’analisi separata per poi procedere a una somma: fu il grosso problema affrontato da Poincaré (lo studio dei tre corpi non corrisponde all’insieme di tre studi di due corpi) e che ha prodotto una delle migliori acquisizioni della scienza della complessità, per cui il tutto è maggiore della somma delle parti. Non solo, ma parlando di emozioni ho dovuto aprirmi ad altri elementi apparentemente fuori contesto e così continuerò, perché ciò che cerco di fare è tessere una rete che il lettore percorrerà nella direzione che la sua persona saprà e vorrà fare. Il bello della rete sta proprio in queste sue molteplici possibilità, a differenza della linea che è solo bidirezionale.
Le emozioni si esprimono attraverso il corpo, sono istantanee e di non lunga durata. Ciò non vuol dire che siano solo quello che vediamo, perché la risata, le lacrime, lo stupore, il tremore sono solo la punta dell’iceberg il cui corpo è sempre e comunque l’insieme, il tutto, della nostra persona. E anche nel più modesto o terribile dei nostri gesti si esprime il tutto della nostra persona: ho pianto al matrimonio di un caro amico, conosciuto da non molto, ed ero l’unico nella chiesa gremita; mi sono chiesto, e ho chiesto, la ragione delle mie lacrime (quasi singhiozzi) e non ho ottenuto risposte, solo da me qualche cenno emerso dal mio scarnificante indagare.
L’emozione è istantanea come istantanee sono molte delle nostre riflessioni che attraversano regolarmente il nostro cervello (L’Ulisse di Joyce e molta poesia moderna hanno cercato di farne dei protagonisti). E così emerge che anche la semplicità dell’emozione è qualcosa di complesso. Capisco la moda di glorificare le emozioni dopo secoli di loro sottovalutazione, ma rimane valido l’aneddoto del mercante che chiede la grazia a Sant’Antonio, troppa grazia che gli impedisce di salire a cavallo, perché se prima aveva le gambe troppo corte, ora Sant’Antonio lo fa cadere dall’altra parte.
Quando la ragione entrò in crisi a metà del 1900 si cominciò a parlare di sentimenti, ma nel nuovo millennio questi sono entrati in subordine perché oggi è tutto un parlare di emozioni.
Io non disdegno le emozioni, ma è giunto il momento di parlare di sentimenti.
Sentimento ha origine in sentire (percepire coi sensi e con la mente) dove il participio è sensus, da cui sensi. Il latino sensus ricalca nel significato il greco aistesis e dunque ha valore esclusivo di percepire attraverso i sensi o grazie alla mente, nel qual caso assume il significato di intelligere, comprendere. Ciò che oggi intendiamo con quella parola è per i latini più facilmente affectus, ad-facere, rivolgersi a, confermando l’interpretazione per cui in origine sentire avesse il valore di inviare, dirigere verso (come nell’inglese to send). Nell’altro versante, quello mentale abbiamo poi senno.
E’ curioso, ma forse meno del primo impatto, che il valore di inviare porti poi anche al significato di percepire, che proprio etimologicamente vale per-capere, cioè prendere, tenere. Sembra una contraddizione, ma forse non lo è: i sensi inviano informazioni alla persona che le tiene, le trattiene (per svilupparle).
Il sentire come qualcosa di non riducibile ai sensi lo si trova ampiamente già nel Basso Medioevo alla nascita della lingua volgare italiana, mentre per cominciare ad avvicinarci a quel qualcosa di più che va oltre il corpo e la mente dobbiamo aspettare il 1500 con la poetessa Veronica Franco e poi sempre di più con Galluppi e Rosmini. Il Romanticismo esploderà in questa direzione fornendo una quantità enorme di situazioni che sono il frutto di un’epoca nuova e che allo stesso tempo influenzeranno in maniera enorme le generazioni fino ai nostri giorni.
Tornando a Damasio e ai suoi cinque passi, i primi due riguardano le emozioni mentre il terzo si riferisce a “un certo numero di risposte dirette al corpo e ad altri siti cerebrali…che costituiscono l’emozione” (idem, pag.340).
Il quarto passo consiste nell’emergere dei sentimenti, quando “mappe neurali rappresentano i cambiamenti dello stato corporeo” (idem, pag. 340). Mappe neurali vuol dire che si realizza una codificazione dell’esperienza vissuta attraverso un dialogo, uno scambio, uno scatto tra mente e corpo. L’interconnessione continua, costante, ricorsiva tra ciò che il corpo esprime e ciò che avviene nel cervello ha fatto un salto con l’emergere dei sentimenti.
Chiariamo subito. Evitiamo di usare il metodo dualistico o dialettico per cercare di capire questi argomenti; il fatto che le emozioni siano meno complesse dei sentimenti non significa che sono realtà di categoria inferiore, ma che hanno caratteristiche differenti, le quali, come in ogni rete, sono centro e periferia allo stesso tempo.
Dal mio punto di vista e allo scopo di queste mie riflessioni non serve entrare nella specificità dello studio neuroscientifico di Damasio (o di Edelman o di Penrose o di Eagleman) ma esse vogliono mostrare come il mio approccio alla materia, coniugato con tutte le mie proiezioni culturali e personali, abbia dato vita a un percorso originale di costruzione.
Diversamente dalle emozioni i sentimenti non sono improvvisi, hanno una durata consistente, non sono limitati a una reazione fisica.
I sentimenti per essere tali devono formarsi per poi con-formarsi, farsi solidi e strutturarsi ed è per questo motivo che hanno una durata discreta e non sono facili a scomparire; infine quando parliamo di sentimenti, pur sapendo con Damasio come operino a livello cellulare, parliamo di qualcosa di non facilmente identificabile; sarà la cultura a fornirci qualche punto di riferimento.
Sentimenti come l’amore, l’amicizia, la fedeltà hanno una base comune molto generica ed esprimono aspetti diversi per ognuno di noi. Quando dico che rido o piango o ho paura esprimo una realtà che è la stessa per tutti, ma così non è quando dico ti amo, sei un amico, ti sono fedele. Eppure usiamo tutti le stesse espressioni. Ciò non dipende dal carattere astratto e non immediato del sentimento, ma dalla sua maggiore complessità. Come le montagne non sono triangoli così l’amore non è quello che crediamo per come lo definiamo con l’espressione “ti amo”, espressione che ha bisogno di essere sviluppata, cioè dis-viluppata, aperta, privata dell’avvolgimento che ci fa vedere solo il titolo, va dis-piegata, aperta, privata delle pieghe che ci impediscono di vedere dentro.
Per molti ancora oggi emozioni e sentimenti rinviano al cuore e si contrappongono alla riflessione che sarebbe il prodotto della ragione: come sempre da molti secoli si tratterebbe di due mondi separati e, quand’anche venissero messi in relazione, si stabilisce un principale e un secondario, un determinante e un determinato, nella più comune forma causale e dualistica. Abbiamo visto invece che la ragione è presente nelle emozioni e lo è anche nei sentimenti, solo che non siamo abituati a riconoscerla.
Per quanto riguarda i sentimenti, diversamente dalle emozioni e proprio per la loro complessità, è molto difficile risalire al perché diciamo di amare proprio quella persona: il cosa. La ragione però può aiutarci a capire il perché del nostro modo di amare: il come.
“Al cuor non si comanda”, “l’amore è misterioso”, “è stato un colpo di fulmine, improvviso”: sono espressioni molto comuni che esprimono una difficoltà, ma soprattutto un rifiuto di scavare e andare in profondità, oltre la superficie. Amori e amicizie finiscono, oggi molto più di prima, e non starò qui a ripetere l’emergenza dell’IO e del suo riconoscimento: a questi eventi si risponde sempre più in modo relativistico, attraverso “dobbiamo fare un compromesso”, “dobbiamo lasciarci i nostri spazi”, “l’amore finché dura”, “il trombamico”, “il tradimento leale”, “il poliamore” e le sue numerose varianti che ormai non possono più stupire.
Non si tratta di razionalizzare ogni nostra manifestazione con l’obbiettivo di dominarla, come è successo con la Scienza Moderna nei confronti della Natura: questo continua ad essere l’errore più evidente di chi non riesce a vedere nei sentimenti la loro componente razionale e per questo evita di servirsi anche della ragione per dipanare la matassa, dis-viluppare e dis-piegare ciò che ci succede nelle relazioni meno convenzionali, come l’amore e l’amicizia.
La ragione è nel sentimento perché è essa a codificare gli impulsi di diversa provenienza e lo fa non secondo uno schema precostituito, ma secondo strutture variabili proprie ad ogni individuo, quelle strutture che lo rendono tale. La ragione semplice, quella tradizionale, tende a cercare risposte uniche, assolute, universali, mentre la ragione complessa, quella che va oltre la linearità, cerca di ricostruire i diversi percorsi che, seppur simili, costituiscono le differenze di ogni individuo. Fino a qualche decennio fa l’amore era un sentimento che tutti riconoscevano, oggi, di fronte al fallimento del dualismo e del riduzionismo, si arriva a concepire sei (chedonna.it), sette (psicoadvisor.com), otto (robadadonne.it) forme di amore.
Espellere la ragione dal sentimento, o anche solo subordinarla ad esso, fa cadere in una trappola il suo sostenitore. E qui torniamo a un tema più generale che va oltre l’amore, oltre i sentimenti e riguarda la totalità delle nostre esperienze.
La parola, il discorso, la riflessione.
Un tempo le storie d’amore finivano con il ripudio, semplice atto di dominio. Oggi invece pretendiamo chiarimenti, vogliamo sapere le ragioni del distacco, ricordiamo episodi (memorabili o funesti) che avevamo rimosso, attribuiamo colpe (sempre la solita storia per cui siamo incapaci di parlare di responsabilità): insomma mettiamo in moto la superflua parola, l’inutile discorso, la tanto bistrattata ragione. E naturalmente non ci accontentiamo, perché dall’altra parte in genere c’è qualcosa che va al di là di sentimento e ragione ed è la volontà di potenza. Non è questa però la sede per riprendere quel discorso già ampiamente affrontato.
Il sentimento ha bisogno della ragione non solo per poter nascere, ma anche per potersi consolidare ed eventualmente ampliare. I sentimenti possono ben manifestarsi senza la ragione, ma poi hanno bisogno di questa per dare un senso (significato e direzione) alla propria (del sentimento) esistenza. Assistiamo alla fine di amori e amicizie che non riusciamo a comprendere, non per il solito stereotipo del “Vero amore”, ma rispetto alla loro nascita: tutte le relazioni di questo genere nascono con la pretesa di durare e dunque la domanda da porsi non è “perché finiscono?”, ma “perché non sono riuscito a farle durare?”. E se questa è la domanda allora non possiamo espellere (o subordinare) la ragione dal (e al) sentimento: dobbiamo avere la capacità di interrogarci già dal secondo giorno della relazione e cercare di rispondere senza aspettare che poi qualcuno ti dica che è finita. E non è importante che a quel punto si producano colpe vere o presunte, non è importante perché ormai i giochi sono fatti. Va da sé che per nutrire quel sentimento non possiamo fare a meno della parola, del discorso, della riflessione.
Vediamo questo aspetto allargando la prospettiva attraverso un esempio che nasce dall’esperienza che prima o poi appartiene a tutti: la morte di una persona cara. C’è un’espressione che è diventata comune e che troviamo al di fuori dell’ambito psicologico: Elaborazione del lutto. Il dolore è un sentimento non solo fisico e può risultare devastante se va a toccare i gangli di relazioni che ci hanno impegnato in modo positivo e profondo. Certe volte il dolore non passa mai e la vita si trascina in modo vegetativo, ma nella maggior parte dei casi si riesce a superarlo e andare avanti. Ciò avviene attraverso un processo di elaborazione, di metabolizzazione, cioè di trasformazione del lutto vissuto, un processo che segue tappe distinte e che può essere autonomo o guidato: in entrambi i casi tornano a essere protagonisti la parola, il discorso, la riflessione. L’espressione è andata allargandosi a campi più vasti rispetto a quello tradizionale della morte e sta includendo sempre di più la perdita di una persona cara, che avviene per l’abbandono da parte di questa: è un po’ il nucleo di ogni separazione.
Metabolizzare vuol dire trasformare delle sostanze per facilitare la vita, “elaborare fino ad assimilare completamente” (Treccani). Esiste dunque una metabolizzazione fisico-chimica e una metabolizzazione psicologica o spirituale che coinvolge i sentimenti e le relazioni. Il sentimento che noi proviamo ha bisogno di un processo di metabolizzazione non solo quando viene ferito, ma quotidianamente; noi ci nutriamo regolarmente ogni giorno e non solo quando stiamo male. Ecco dunque che anche nel campo dei sentimenti non occorre aspettare il lutto per procedere a una metabolizzazione, ma questa diventa una necessità se vogliamo che quel sentimento, e la relazione che ha formato, continuino il ciclo vitale per cui sono nati e che vogliamo far durare. Come per il lutto la metabolizzazione continua a vedere come protagonisti la parola, il discorso, la riflessione.
Ti amo-non ti amo più: tertium non datur. Più sfumata la dialettica degli opposti: borghesia-proletariato in lotta porterà alla vittoria di uno dei due in un nuovo contesto, tesi-antitesi-sintesi.
Ciò però non funziona quando ci occupiamo di fenomeni complessi e non occorre scomodare Borges per il quale nella Storia Ugolino mangiò o non mangiò i piccoli, mentre nella Poesia li mangiò e non li mangiò. Anche se Borges aveva intuito il carattere complesso della realtà.
Dalla ragione al sentimento, dal sentimento alle emozioni. Un percorso storico che corrisponde allo sviluppo della cultura di massa: al crescere della quantità diminuisce la qualità. Erede del dibattito secolare tra Illuminismo e Romanticismo la cultura del Novecento lo ha riproposto scambiando i poli, finché l’irruzione dell’uno che vale uno ha fatto sì che anche il sentimento fosse troppo complesso e così di semplificazione in semplificazione si è passati all’emozione, che, come ho detto, è diventata l’ossigeno spirituale contemporaneo: se non parli di emozioni, e soprattutto non ne mostri in diretta, sei morto e non hai diritto di parola.
Qui sto facendo il processo opposto, cercando di risalire dalle emozioni ai sentimenti per arrivare alla ragione, perché ogni sistema complesso ha bisogno di mantenere insieme i suoi componenti e non di stabilire delle gerarchie strutturali. Sfogliando le pagine di Internet troviamo che c’è chi parla dell’esistenza di ben 101 emozioni, facendone l’elenco, mentre per quanto riguarda i sentimenti il numero cala notevolmente, attestandosi intorno a 17.
101 emozioni, 17 sentimenti: non è questo il terreno su cui giocare per cercare di com-prendere comportamenti e relazioni di cui siamo protagonisti. Certo, essendo i numeri infiniti, restare in quel campo ci garantisce una rendita di posizione vita natural durante: non dico che tutto ciò non sia vero o che sia inutile, perché lavorare sui numeri richiede anche che si spieghino e quindi è possibile mettere a fuoco riquadri fino ad allora trascurati; dico che non è questa la strada da percorrere, perché in un fenomeno complesso il tutto NON E’ la somma delle singole parti, più o meno numerose.
Emozioni e sentimenti richiedono uno sguardo più attento; e se un’emozione di paura ad esempio può avere una relazione con un evento semplice e modesto, il sentimento di paura rinvia a qualcosa di sedimentato e strutturato che in genere non viene preso in considerazione sia per processi di rimozione sia per abitudine consolidata. Che l’esigenza di guardare più in profondità corrisponda a una urgenza crescente è dimostrato dal ricorso sempre più ampio alle sedute psicoanalitiche: non è che siamo più infelici per colpa della società, ma ciò corrisponde a quella che chiamo emergenza dell’IO. Non ritengo un errore rivolgersi allo psicoanalista, perché può servire, ma al di là delle più che numerose scuole di pensiero e al di là del tipo di sofferenza, il medico non può accompagnarti nella vita di ogni giorno e soprattutto nelle espressioni quotidiane con cui manifestiamo la nostra presenza nel mondo.
Risalire da un’emozione o da un sentimento di paura a qualcosa con cui creare una interconnessione non è una necessità e possiamo anche conviverci, come con ogni altra emozione e soprattutto con ogni altro sentimento, ma essere riusciti a ricostruire il percorso che ci ha portati a questa espressione significa essere riusciti a fare i conti con noi stessi.
Ecco, fare i conti con noi stessi è la perfetta sintesi tra emozione, sentimento e riflessione. Quando si è passata da poco l’adolescenza può non essere importante, come pure in tarda età, ma a partire -diciamo- dai 30 anni diventa un dovere. Possiamo ritrovare questo percorso, seppur attraverso una parafrasi e un’analogia estese, nel pensiero di S. Kierkegaard che ci parla di tre fasi evolutive della nostra esistenza: quella del seduttore, quella del padre di famiglia e quella religiosa. Naturalmente si tratta di un’estensione analogica che ci riporta a tre modi di vivere la nostra esistenza: il piacere mondano, il dovere sociale e la problematica di senso più profonda e interiore.
Nonostante il crescente peso pubblico che hanno le emozioni sono i sentimenti (dalla così detta parte del “cuore”) gli stati decisivi nella nostra persona e lo sono perché consolidati, duraturi, strutturati. Una volta che abbiamo compreso che il sentimento è anche ragione dobbiamo imparare a entrarci dentro, a saperci muovere in questo labirinto di realtà dove qualcosa di tanto istintivo da apparirci naturale è molto più complesso: frutto di intreccio tra cultura e natura, tra battito accelerato e articolazione razionale. Questo discorso ci riporta al valore che ha per noi il fattore culturale, un fattore tutt’altro che chiuso, anch’esso intreccio tra geni, storia sociale e familiare, caso, scelte individuali. Il compito che ci spetta non è quello di rivoluzionare il mondo né di adeguarci a modelli né di trovare le cause che hanno determinato la con-formazione della nostra persona.
Ricostruire una rete di relazioni è cosa diversa da cercare la causa o le cause dei nostri comportamenti. A un adolescente il senso della vita si presenta nel divertimento (così mi rispose un mio studente), ma a un adulto esso si sdoppia in significato e direzione, cioè nel valore che ha per me la mia vita e verso quale orizzonte voglio che essa si diriga. E’ questa l’unica strada che permette l’esistenza reale della responsabilità, senza moralismi e al di fuori di principi etici che in quanto tali rispondono a ideologie che li hanno procreati.
L’abitudine, la consuetudine a separare il cuore dalla mente, il sentimento dalla riflessione ha fatto sì che ci è difficile vedere l’intreccio tra i due aspetti e così si preferisce attribuire alla parola “intreccio” l’aggettivo “inestricabile”, al “sentimento” la condizione di “misterioso”. Da un lato viviamo volentieri in questa nebbia perché è la nostra nebbia (nostra, cioè dei nostri genitori, dei nostri amici, dei nostri colleghi, dei nostri beniamini), dall’altro però dobbiamo guardarci allo specchio e così troviamo giustificazioni, queste sì fantasiose e di minima utilità. “Caro amico, mi hai deluso, ho sbagliato a fidarmi di te”: qual è il senso di questa frase? Esprimere con altre parole il dato di fatto: l’errore sta nella fiducia verso di te o nella fiducia in quanto tale? “Caro amore, mi hai tradito, ho sbagliato ad amarti”: anche qui si esprime con altre parole il dato di fatto: sei tu o l’amore l’errore?
In entrambi i casi abbiamo giustificato l’esistente e non abbiamo fatto nessun passo avanti: la delusione e il tradimento sono due sentimenti devastanti, vogliamo sapere, ma se il sentimento esclude la ragione cosa possiamo sapere? Possiamo solo scomporre l’evento nelle sue parti e procedere a una ricomposizione del puzzle con le stesse tessere e questo difficilmente permetterà un quadretto riconoscibile.
Il ricorso a attributi morali (è colpa tua) che possono sfociare anche nella violenza è un complemento non necessario ma facilmente esperibile. Trattando il sentimento come qualcosa di separato dalla ragione si crea un percorso obbligatorio i cui esiti sono scontati. Trattando il sentimento come qualcosa di interconnesso alla ragione ci è permesso di percorrere strade diverse, muoversi verso orizzonti diversi, costruire persone e relazioni diverse, evitando il naturale, comune, ordinario esito degli eventi.
E’ come quando chiedo: quanto fa 2+2? E tutti rispondono:4. Non c’è creazione di realtà, ma semplice, naturale, comune, ordinario esito; perché? Perché dire 2+2 e 4 è la stessa cosa, perché il 4 è già nel 2+2 e questo è già nel 4.
Trattare il sentimento come qualcosa di interconnesso alla ragione non indebolisce il rapporto, non diminuisce né il desiderio né la passione né gesti di tenerezza né attenzioni. Questa è una delle tante fake opinion preventive per non intaccare il comandamento “Sentimento è separato da Ragione”, ma è anche il frutto più vero, seppur limitato, di ciò che abbiamo pensato essere la Ragione, e cioè uno strumento capace di conoscere e dominare il mondo, anzi l’unico strumento.
Eccoci giunti al momento di parlare della ragione.
- RIFLESSIONE
La parola, il discorso, la riflessione.
Cioè il Logos.
Intorno alla radice leg-log sono sorte molte parole con diversi valori che hanno creato un universo importante: Leg è parlare e leggere, è scegliere e legge, è anche leggenda; log è discorso e ragione, è logica; c’è anche (intel)lligenza e (intel)letto.
Dall’emozione al sentimento alla riflessione: è un processo che ci porta in un universo molto più complesso che le neuroscienze stanno sempre più mettendo a fuoco.
“L’intelligenza umana esplicita non è cosa semplice né da poco; richiede una mente e il contributo di sviluppi ad essa legati: sentimenti e coscienza. Richiede percezione, memoria e ragionamento. I contenuti della mente sono basati su schemi mappati spazialmente” (A. Damasio: Sentire e conoscere, Adelphi 2022- pg.49). Quegli schemi, quelle mappe ci permettono di misurarne l’estensione, di stabilire somiglianze e differenze, di scomporle e ricomporle, attraverso un processo di manipolazione. Insomma ci è permesso praticamente tutto e, se consideriamo quanto sviluppato dalla biologia, abbiamo un ulteriore punto di riferimento: conoscere è creare e creare è conoscere, nel senso che mentre operiamo una trasformazione la nostra mente acquisisce conoscenza e allo stesso modo nel momento in cui sviluppiamo conoscenza si realizza una trasformazione della realtà (Maturana-Varela: L’albero della conoscenza, 1987).
Si tratta di concetti chiari e non difficili da comprendere, eppure in genere agiamo e ci comportiamo in modo diverso, credendo che la mente sia separata dal corpo e che il pensiero sia cosa diversa dall’azione.
Si tratta di lasciti del tradizionale scontro tra idealismo e materialismo di cui siamo impregnati e che lo sviluppo a livello di massa della società tecnologica (naturalmente materiale) ha fatto in modo che pendessimo verso una visione materialista del mondo. Eredi anche del marxismo che aveva dichiarato che non basta interpretare il mondo, ma che bisogna trasformarlo e che questo era il compito della filosofia, che finalmente riportava l’uomo con i piedi per terra.
Oggi a più di 50 anni dall’inizio del processo di massificazione della società possiamo comprendere meglio il terreno (nuovo) in cui ci troviamo ad agire e le regole (nuove) che il gioco (nuovo) ci chiede di rispettare: naturalmente non sto parlando di regole morali o legali, ma di percorsi e metodi da sfruttare per meglio valorizzare la nostra presenza nel mondo.
Abbiamo visto che il cuore e la mente interagiscono continuamente e che le immagini tradizionali di questo rapporto non corrispondono più a ciò di cui siamo partecipi. I processi non sono semplici: i segnali che i sensi mandano al cervello non sono un semplice spostamento e deposito nel caveau centrale, la memoria non è un archivio di dati da tirar fuori quando ne abbiamo bisogno, i brividi del corpo sono il prodotto di impulsi sensibili e schemi mentali, i movimenti del corpo possono non essere in sintonia con gli impulsi provenienti dal cervello, le parti del cervello che si crede preposte a determinate funzioni non smettono di dialogare con tutte le altre parti.
Sembra il Caos, ma in realtà non lo è: abbiamo bisogno di imparare a conoscere nuovi paradigmi.
Certamente esiste una teoria ed esiste una pratica, aspetti dell’esistenza che possiamo separare e fotografare distintamente, non è questo il problema. Certo, abbiamo visto che la teoria si è formata nel momento dell’azione e la pratica ha immediatamente creato schemi e mappe nella mente, ma non è neanche questo il problema.
Queste sono solo premesse.
E’ interessante notare che moltissime persone sono d’accordo con queste due tesi e magari ne discutono animatamente anche durante una cena tra amici e su divergenze di questo tipo si possono anche rompere relazioni: ciò che è però veramente interessante è che per nessuno dei due reciproci oppositori la vita cambia il giorno successivo e tutto procede come sempre. La storia evolutiva della nostra specie mostra enormi trasformazioni, ma queste hanno bisogno di tempo e di tortuosi percorsi, hanno bisogno di esperienza, anzi di esperienze (tante) e i cambiamenti, o meglio gli aggiustamenti, avvengono spesso e volentieri de facto, ed anche de iure, ma senza che se ne comprenda non tanto la portata quanto l’origine e il percorso che ha portato a questi cambiamenti. Così fu per la Magna Charta Libertatum e per moltissimi eventi storici tanto che un filosofo, W. Wundt, ne ha fatto una teoria, quella della eterogenesi dei fini, che in realtà è solo una teoria statistica che, come tale, non permette di prevedere ma a posteriori aiuta a comprendere. Senza scomodare filosofi o sociologi e di fronte alla crisi di valori e leggi universali è ciò che succede oggi: comprendere a posteriori e creare teorie di tipo relativistico, per dare una parvenza di serietà al nostro pensiero. Pensiero che comunque rimane sganciato dall’azione, e questo avviene nelle macrorelazioni come nei rapporti individuali che ci riguardano direttamente.
Un aspetto propriamente culturale ci riporta al dualismo cartesiano che non vale la pena stare a ripetere, ma c’è anche qualcosa di più generale e che concerne la storia evolutiva della nostra specie. La sopravvivenza è lo scopo fondamentale di tutti gli esseri viventi dal batterio unicellulare al roditore dotato di cervello al più evoluto homo sapiens, ma solo quest’ultimo ha sviluppato il cervello in mente, coscienza e cultura. E’ solo da pochi decenni però che questo processo ha finito per coinvolgere la quasi totalità della popolazione mondiale, nel senso che ad essere protagonisti non è un’élite ma il singolo individuo. In qualche modo anche società e istituzioni moderne hanno registrato questo allargamento di contributi: maggiore alfabetizzazione, migliori condizioni di vita, maggior tempo libero. Nonostante questo evidente progredire, la funzione riflessiva e razionale rimane meno sviluppata. Non si tratta di offendere le classi subalterne, ma riconoscere un dato di fatto nascosto sotto la pretesa eguaglianza tra gli individui.
Lenin, paladino del proletariato e delle classi subalterne, sosteneva con Marx che l’ideologia dominante era quella delle classi dominanti, il che in epoca moderna voleva dire della borghesia. Per questo motivo la cultura proletaria era possibile solo grazie agli intellettuali borghesi che rinnegavano le loro origini e si mettevano al servizio degli operai. In realtà il proletariato doveva solo obbedire al Partito che si dichiarava essere l’espressione degli interessi dei ceti dominati.
Si è parlato per più di un secolo negli ambienti di sinistra di una cultura operaia che si contrapponeva a quella borghese, in realtà si trattava di “espressione degli interessi della classe operaia secondo la cultura di alcuni intellettuali di origine borghese che sviluppavano il pensiero di Marx”. In realtà i singoli operai avevano altri pensieri e chi si riconosceva in quella che per decenni è stata presentata come “cultura operaia” esprimeva ciò che nelle riunioni di partito veniva loro spiegato o ciò che leggevano nel quotidiano del partito. Non mancavano operai cattolici che avevano dato vita a organizzazioni politiche e sindacali e anche il loro pensiero ripeteva quanto presentato dalla Chiesa o dagli intellettuali cattolici. In entrambi i casi il pensiero agiva a partire dai rispettivi valori, mentre l’introspezione (o riflessione su di sé) non era prevista, nel primo caso perché deviazione legata all’individualismo borghese, nel secondo perché il punto di riferimento terreno doveva essere “il prossimo”.
Oggi fortunatamente il pensiero, e dunque la riflessione, sono aspetti che quasi tutti ritengono importanti e lo fanno in ogni situazione, a qualsiasi età e nelle forme più svariate. Mi è capitato, è vero, di incontrare anche persone che mi hanno riso in faccia quando ho detto che la riflessione è un fattore decisivo, ma di questo non vale parlare. Chi ha vissuto nella scuola sa che un adolescente oggi si sente legittimato nell’esprimere il proprio pensiero, più opinione che pensiero, ma per lui non c’è differenza. Per lui sono soprattutto i mezzi di comunicazione di massa che hanno aperto la funzione per cui il cervello si attiva, anche se in genere si tratta di discorsi altrui ripresi per intero o in frammenti. Più o meno lo stesso vale per gli adulti con la differenza che in genere è più facile che questi operino una selezione, frutto di una maggiore quantità di dati legata al maggior numero di anni vissuti.
Non ritengo negativo questo fatto, nel senso che 50 anni fa lo studente taceva e non osava, mentre l’adulto ripeteva gli slogan della comunità di riferimento (politica, sportiva, ludica…), mentre oggi il cervello di ogni individuo recupera, registra, ordina.
Fino a 50 anni fa ci si limitava a filtrare i propri comportamenti alla luce dei valori riconosciuti, tra cui non c’erano solo quelli morali, grandi e noti, ma anche aspetti secondari, come la coerenza, il rigore (la matematica non è un’opinione), la lealtà, le buone maniere e altro.
Oggi i propri comportamenti hanno sostituito i valori assoluti e dunque ci troviamo di fronte a un caotico, rumoroso, incerto aumento di traffico nelle relazioni che non si qualificano solo per il fare, ma anche per il parlare: un labirinto di parole, di discorsi, di pensieri. Negli anni ’90 la sociologia ebbe un discreto successo grazie all’invenzione post-moderna della società delle tribù: non diceva fesserie, ma si limitava a registrare alcuni fenomeni che caratterizzavano questo periodo di transizione tra la società di massa e la società degli individui-massa. Come tutte le invenzioni post-moderne, poiché relativistiche e prive di fondamenta culturali, anche la società delle tribù è svanita, lasciando poche tracce di sé.
Vale la pena ricordare la riflessione di Pirandello sulle luci dei lanternini, una volta che si sono spenti i lanternoni.
“E questo sentimento della vita per il signor Anselmo era appunto come un lanternino che ciascuno di noi porta in sé acceso; un lanternino che ci fa vedere sperduti su la terra, e ci fa vedere il male e il bene; un lanternino che projetta tutt’intorno a noi un cerchio più o meno ampio di luce, di là dal quale è l’ombra nera, l’ombra paurosa che non esisterebbe, se il lanternino non fosse acceso in noi, ma che noi dobbiamo pur troppo creder vera, fintanto ch’esso si mantiene vivo in noi. …Io direi innanzi tutto che son di tanti colori; che ne dice lei? secondo il vetro che ci fornisce l’illusione, gran mercantessa, gran mercantessa di vetri colorati. A me sembra però, signor Meis, che in certe età della storia, come in certe stagioni della vita individuale, si potrebbe determinare il predominio d’un dato colore, eh? In ogni età, infatti, si suole stabilire tra gli uomini un certo accordo di sentimenti che dà lume e colore a quei lanternoni che sono i termini astratti: Verità, Virtù, Bellezza, Onore, e che so io… E non le pare che fosse rosso, ad esempio, il lanternone della Virtù pagana? Di color violetto, color deprimente, quello della Virtù cristiana… Non sono poi rare nella storia certe fiere ventate che spengono d’un tratto tutti quei lanternoni. Che piacere! Nell’improvviso bujo, allora è indescrivibile lo scompiglio delle singole lanternine: chi va di qua, chi di là, chi torna indietro, chi si raggira; nessuna più trova la via: si urtano, s’aggregano per un momento in dieci, in venti; ma non possono mettersi d’accordo, e tornano a sparpagliarsi in gran confusione, in furia angosciosa: come le formiche che non trovino più la bocca del formicajo, otturata per ispasso da un bambino crudele. Mi pare, signor Meis, che noi ci troviamo adesso in uno di questi momenti. Gran bujo e gran confusione! Tutti i lanternoni, spenti. A chi dobbiamo rivolgerci?” (Il fu Mattia Pascal, cap. XIII).
Un sistema altamente complesso con le sue caratteristiche, soprattutto reticolarità, ricorsività, un rapporto relativo tra centro e periferia, mostra come parola-discorso- pensiero escano dalla primitiva prospettiva omeostatica e introducano nuovi elementi capaci di modificare l’intero sistema.
La parola ha preso il posto del silenzio anche se non si è rinunciato del tutto al silenzio solo che ora esso esprime al massimo non l’ignoranza di un tempo, ma la volontà di potenza materiale più cruda. Come ricorda Canetti:
«…Il potere del silenzio è sempre valutato assai. Esso infatti significa che chi tace può resistere a tutte le innumerevoli occasioni esterne di parlare. Non si dà risposta a nulla, come se non si fosse stati interrogati. Non si lascia capire se si gradisce l’una o l’altra cosa. Si è muti senza esserlo davvero. E tuttavia si ascolta.
Il silenzio presuppone una precisa conoscenza di ciò che si tace. Poiché non è praticamente possibile tacere sempre, si opera una scelta fra ciò che si può dire e ciò che si tace. Ciò che è taciuto è ciò che si conosce meglio, con maggiore precisione, e che si reputa più prezioso….
Il tacere contrasta la metamorfosi… Si tace soprattutto là dove non ci si vuole trasformare. Quando si ammutolisce vengono meno tutte le occasioni di metamorfosi. Nell’eloquio tutto incomincia a scorrere fra gli uomini, nel silenzio tutto si irrigidisce.
Chi tace gode di un vantaggio: le sue parole sono maggiormente attese, si attribuisce ad esse maggior peso. Rare e isolate, esse assomigliano a comandi…» E. Canetti: Massa e potere, 1960 (cap. Elementi di potere: Il segreto).
Una volta sdoganata e legittimata, la parola si fa discorso, mostrando un livello più alto di coinvolgimento delle reti neurali: come la parola anche il discorso cessa di essere lo slogan di un tempo e si propone come punta di diamante della persona. Oggi è facile la parola, ma più facile è il discorso perché la quantità di dati con cui entriamo in contatto è tale da favorire una combinazione vasta di elementi e il riconoscimento è più facile quando le parole sono organizzate per esprimere qualcosa di senso compiuto. La parola “Amore” è meno pregnante del discorso “Ti amo con tutto me stesso”.
Anche il pensiero è il prodotto evolutivo della mente, ma perché si realizzi è necessario un coinvolgimento molto più articolato e complesso dei vari componenti della mente: la semplice percezione dell’ambiente esterno è accompagnata da un sentire che corrisponde a stati del nostro ambiente interno. E già questo è un passo avanti perché, a un livello ancora più alto, si registra un collegamento, una relazione, reticolare e ricorsiva, tra i diversi schemi che costituiscono le mappe neurali. Il pensiero è il prodotto finale di questo percorso; esso esiste grazie all’esperienza che è il livello di partenza, ma vive senza dover rispondere sempre ad essa nella forma sia di percezione sia di sentimento.
Il carattere diversamente complesso di queste relazioni alla presenza in ogni individuo di decine di miliardi di neuroni (chi dice 86 e chi dice 100) fa sì che si creino realtà estremamente variabili: non è che una volta raggiunta la produzione di pensiero il gioco è fatto. Intanto occorre ricordare che anche il cervello ha bisogno di esperienza e più lo sottoponiamo alla produzione di pensieri e più pensieri produciamo, sapendo però che la ripetizione favorisce una sola tipologia di pensieri, mentre l’abitudine ad allontanarsi dalla serialità permette di sperimentare nuovi collegamenti e ci mette in condizione di accedere a sempre nuove tipologie di pensieri.
E’ questa fondamentalmente la differenza tra la logica semplice, lineare e unidirezionale rispetto alla logica complessa, reticolare e ricorsiva: differenza tra pensiero semplice e complesso.
Il pensiero semplice è ben codificato e si mostra ripetitivo; esso funziona come i sentimenti primitivi: casualmente ho messo la mano sul fuoco e ho provato dolore, la prossima volta eviterò.
Il pensiero complesso codifica una regione e non rifiuta le acquisizioni del pensiero semplice, ma non si accontenta e dopo aver evitato di rimettere la mano sul fuoco, ci gioca e prova a vedere cosa succede se sul fuoco ci mette un foglio o un legno o un metallo.
Fino a qualche decennio fa il panorama era semplice, ma oggi si è fatto confuso e complicato e ogni aspetto messo in evidenza, parola-discorso-pensiero, presenta vari stati: la parola per alcuni è solo parola, mentre per altri è discorso e così il discorso rimane discorso o si fa pensiero, e infine il pensiero rimane tale o si apre su altre strade. Per molti purtroppo il pensiero rimane quel pensiero, univoco terso limpido, un solido dagli angoli netti con cui è facile identificarsi e costruire la propria immagine: è un grande passo rispetto al passato, ma del tutto inutile rispetto al futuro.
Il pensiero, perché è di questo che si parla, si sviluppa attraverso la riflessione o introspezione o autoanalisi; si realizza quando l’ambiente interno riesce a dialogare con se’ stesso.
Questo dialogo può ripetersi all’infinito nelle stesse forme, facendo in modo che ad ogni passo la codifica sia sempre più forte e si con-fermi con-formandosi sempre di più.
Esiste anche la possibilità che si cerchino altre strade e che i flussi passino per altre regioni: ciò può avvenire se la mappa che abbiamo creato lascia qualche spazio aperto anche come via di fuga, una via di fuga che può trasformarsi in una maggiore e più intensa attività neurale che si apre a nuove mappe. E’ in questo caso che la cultura diventa fondamentale, perché dipende dalla cultura che informa il gruppo di cui facciamo parte se la mappa creata all’inizio mantiene aperta una o più porte.
E’ interessante notare come esista un certo parallelismo tra le attività cerebrali e la struttura della società; anche qui assistiamo a un carattere tipico dei sistemi complessi, la ricorsività. Una codifica neurale aperta pro-pone una società aperta e viceversa, in una interazione reciproca che crea sempre nuove aperture: visitiamo nuove stanze del castello, ma non ne dimentichiamo nessuna e la mappa dell’edifico diventa sempre più ricca, più chiara, più precisa.
Sapere che la parola, il discorso, il pensiero di per sé non sono sufficienti è qualcosa che abbiamo imparato nel corso dell’evoluzione e lentamente stiamo imparando molte altre cose, come il carattere provvisorio della conoscenza oppure la presenza della riflessione nel sentimento e del sentimento nella riflessione attraverso un reciproco condizionarsi e un reciproco dialogare.
La cultura ha sempre registrato e influenzato tutto ciò che avveniva nella società, anche se in passato maggiore è stata l’influenza rispetto alla registrazione; oggi i due aspetti procedono di pari passo perché la società, intesa come insieme di individui, ha la stessa potenza di suono e pretende di dire la sua e lo fa utilizzando tutti i mezzi a sua disposizione: la pretesa reale è infatti quella di essere ascoltata e di esigere un riconoscimento.
Da qui nascono molti aspetti del tutto nuovi che si mescolano ad elementi vecchi e consueti: la cultura popolare, la cultura della memoria, la cultura delle donne, la cultura delle minoranze (etniche, sessuali, fisiche), arrivando persino a farsi interpreti di una cultura degli animali. La ricerca di affermazione dell’individuo, di ogni individuo, diventa autoreferenzialità: solo i nativi americani possono parlare dei nativi americani, solo le donne possono parlare delle donne e così via in una creazione di numerose e ristrette prigioni in cui si rinchiude il pensiero. Per fortuna queste nuove emergenze non riescono a distruggere un pensiero aperto e che rifugge confini: rimane l’urgenza dell’individuo contemporaneo al riconoscimento e qui siamo ancora in alto mare, perché esistono ipotesi, orizzonti proposti, ma ancora la condivisione della rotta manca.
Il canone unificatore di una volta, riflesso letterario e filosofico del riconoscimento di valori assoluti, sopravvive nel comunitarismo cui ho accennato poco sopra; all’opposto c’è il relativismo culturale più sbracato che legittima tutto; nel mezzo un molteplice e variegato intreccio che, rifuggendo dai valori assoluti e dal relativismo, crea ibridi di ogni genere. Quest’ultima attitudine è incapace di unificare la ricerca ma è capace di mantenere in vita comunque realtà che rimangono vive per crudezza e nudità: con queste è possibile fare i conti e da esse diventa necessario partire.
Una cara amica ha ricevuto in dono un mio libro sull’amore, quasi 200 pagine, frutto di studio ed esperienza. Nella lettera di ringraziamento apprezza quanto da me scritto e conclude dicendo che “sulla mia visione concorda in larga parte”. L’apprezzamento mi ha fatto molto piacere ma mi ha fatto pensare: concordare in larga parte significa discordare in piccola parte, quindi ci sono parti su cui non è d’accordo. Perché non parlarne? Perché non partire da quelle per sviluppare una riflessione? Mi pare che questo sia un comune procedere delle persone comuni: trasformare il pensiero in opinione; leggere un libro e coglierne solo alcuni aspetti; evitare di sviluppare la riflessione seguendo la porta aperta da ciò su cui discordiamo. E’ vero che ognuno di noi ha i suoi tempi e le sue priorità, ma credo che venga perduta un’opportunità. Io resto nell’orizzonte proposto da O. Paz: “Il testo esige la morte del poeta che scrive e la nascita del poeta che legge”. Gli strumenti a disposizione sono ormai numerosi e a volte i tempi e le priorità entrano in campo per evitare di giocare. Anche in questo caso occorre aspettare. Aspetteremo. Il fatto che le dinamiche tra continuità e rottura siano sempre più complesse, dando vita ad accelerazioni improvvise, non deve far dimenticare che la conformazione del cambiamento si attua solo nel lungo periodo. Avviene nei rapporti tra Stati, nelle relazioni sociali, nei rapporti tra individui e anche dentro l’individuo stesso, cioè nell’elaborazione del pensiero.
L’emozione è improvvisa e nasce da un rapporto con l’esterno; il sentimento ha una durata e nasce dal dialogo che avviene all’interno, tra corpo e rete neurale; il pensiero rimane a lungo e nasce dal dialogo tra le diverse mappe a cui la mente ha dato forma.
Oggi il compito principale che dobbiamo affrontare riguarda il pensiero perché è ciò che alla fine ci rende ciò che siamo, capaci di provare sentimenti, dare vita ad emozioni, sicuri del nostro procedere nel mondo. Il pensiero non è però ciò che spesso crediamo e non è più il “cogito” cartesiano, quella “res cogitans” che conosce e organizza il mondo esterno, cioè “la res extensa”. Ex-tensa è es(x)tesa, cioè tende e si prolunga fuori (ex). Eredi di quell’idea continuiamo in un’esistenza che dà per scontato che i nostri pensieri (ognuno di essi) trovino legittimazione nell’attività comune a tutti e cioè il “cogitare” cartesiano. E’ l’IO generale che è capace di pensare e su questa capacità trova la sua ragion d’essere: ciò non vuol dire, neanche per Cartesio, che questo giustifichi ogni pensiero di ogni singola persona. Eppure è questo che si è realizzato, in modo tutt’altro che curioso perché, come ho scritto nei miei appunti sull’estetica, nel passaggio dall’alto degli intellettuali al basso dell’epistemologia di massa si perde peso e portata. Per Cartesio si trattava di legittimare l’esistenza dell’IO sulla base del pensare, mentre per l’individuo di oggi si tratta di legittimare e riconoscere la propria individuale esistenza e così l’individuo lo fa sulla base del suo pensare. L’errore di Cartesio (dal titolo del libro di Damasio) non consiste nel riconoscere l’importanza del pensiero, ma nel dualismo che separa il soggetto pensante dall’oggetto pensato.
L’individuo moderno, ormai comune a tutte le latitudini e longitudini, ha bisogno di riconoscimento: non è stupido, si muove come può, approfittando dei contributi che provengono dal passato, ma che rielabora con strumenti che sono solo suoi: così facendo si muove certo, ma lo fa strisciando, arrancando, spingendo, travolgendo, rischiando di cadere nel burrone, del tutto indifferente al territorio, al tempo atmosferico e alle ore che passano.
Eccoci qua.
Dall’emozione al sentimento alla riflessione alla coscienza e da qui alla cultura: questo è il percorso reticolare che ci porta a gradi di complessità maggiore. Come Damasio fa notare (nel già citato Sentire e conoscere, pag. 125) il termine coscienza è ancora assente in Shakespeare e che solo a partire dalla fine del 1600 diventerà parola sempre più usata e sempre più oggetto di riflessione. E’ vero che il termine coscienza presenta numerose accezioni, ma è vero anche che oggi c’è un significato comune a molte discipline: “coscienza come esperienza mentale e questa è uno stato della mente impregnato di due caratteristiche notevoli e collegate: i suoi contenuti sono sentiti e adottano un’unica prospettiva” (idem pag. 126). In sintesi esiste un IO che sente e orienta tutto il flusso di informazioni e processi che codifica grazie al rapporto esterno-interno e interno-interno.
L’IO è passivo e attivo allo stesso tempo, dovendo gestire miliardi di connessioni di cui è pure in balia ed è per questo che ognuno di noi è un individuo completamente diverso da ogni altro e questa diversità aumenta e aumenterà sempre di più mano a mano che cresceranno le interconnessioni tra individui che nel frattempo si presentano all’incontro in forme più complesse. Anche da questo punto di vista si capisce il perché sempre più decisivo dell’emergenza dell’IO.
A questo punto occorre fare un passo indietro.
Se è vero che la parola “coscienza” appare solo di recente è pur vero che ne troviamo tracce nel lontano passato. Io credo che il filosofo che maggiormente si sia avvicinato a quanto oggi proposto dalle neuroscienze sia stato Sant’Agostino, quando ci parla dell’anima in modo non generico proponendola come articolato intreccio di tre elementi: l’intelletto, la memoria e la volontà.
“L’anima non è dunque ente generico, stato di coscienza, ma qualcosa di più complesso e profondo. Essa è individuale nel senso che esprime specifiche realtà, composizioni e trasformazioni di ognuno di noi, ma anche nel senso che rinvia alla responsabilità di ognuno di noi l’evoluzione della propria anima e la scelta del suo percorso.
L’intelletto è componente dell’anima; esso esprime la capacità di intelligere-comprendere, attraverso la riflessione, per mezzo dei procedimenti della ragione, analizzando, pensando, collegando pensieri. Nell’anima dunque la componente razionale svolge un ruolo importante che nel corso dei secoli (e soprattutto a partire dal Seicento) è andato perdendosi.
La memoria è componente dell’anima; essa permette ad ognuno di fare i conti con se’ stesso, recuperando dentro di sé i numerosi fili che compongono e costituiscono il nostro essere. Ricordare per ritrovare il filo rosso e per individuare i numerosi-infiniti passaggi che ci hanno portato a pensare e agire come stiamo facendo. Ricordare perché il fare i conti con noi stessi permetta di pro-iettarci e di pro-gettare il nostro percorso. Dietro il problema della memoria sta il problema del tempo e cioè il passato-presente-futuro come presente, cioè ricordo-attenzione-attesa.
La volontà è componente dell’anima; sapere il bene non implica automaticamente volere il bene. La volontà è desiderio, ma soprattutto determinazione dell’essere e in questo senso essa deve essere vista, perché solo il valorizzarla come costitutiva essenziale dell’anima ci riconnette con la responsabilità delle nostre scelte e del progetto del nostro percorso”. (E. S. De spiritu, 2000)
Oggi va di moda recuperare filosofie antiche, soprattutto orientali, per dire che certi risultati della ricerca scientifica contemporanea erano stati anticipati da pensatori illuminati. Esemplare il riferimento al Tao che è stato collegato alla fisica quantistica non da improvvisati studiosi ma da veri e propri scienziati come F. Capra: naturalmente si tratta di affinità generiche e generali che non aiutano a creare una continuità tra il pensiero antico e la scienza moderna.
Diversamente da questo approccio ideologico (i lavori successivi al Tao della fisica abbandonano quei pochi riferimenti fatti nel libro alla fisica moderna) esiste una continuità tra il concetto di anima di Sant’Agostino e la riflessione che le neuroscienze hanno sviluppato sull’IO. I tre elementi individuati da Agostino rimangono centrali nella ricerca scientifica contemporanea e non è un caso, dal momento che entrambi sono espressione della grande rivoluzione cristiana che ha dichiarato la centralità della persona.
Dalla persona in generale all’individuo in generale inteso come realtà comune all’individuo specifico: questo è il percorso esplicito che lega il passato al futuro. L’affermazione dell’IO agostiniano è il riconoscimento della sua coscienza, che si caratterizza per ciò che conosce, per ciò di cui si ricorda, per ciò che vuole.
Se noi utilizzassimo la tesi di Agostino per caratterizzare il nostro IO avremmo già molti strumenti: se mi riconosco in ciò che conosco, in ciò che ricordo, in ciò che voglio ho già definita una prospettiva che mi colloca nel processo vitale.
Da allora però molte cose si sono approfondite e sviluppate: la conoscenza non è più l’osservazione della realtà, la memoria non è più un album di fotografie e la volontà non è il semplice desiderare qualcosa. Rimbaud, Nietzsche, Freud, la Scienza della Complessità hanno rotto quell’universo ordinato e mostrato la complessità dell’IO: lo hanno fatto prima attraverso uno studio filosofico e una produzione poetica dell’IO, poi attraverso il metodo scientifico riadattato alla lettura di fenomeni complessi. I miliardi di neuroni dei nostri apparati neurali non sono congegni messi al punto giusto per far funzionare la macchina, ma sono articolate disarticolazioni che aprono a prospettive svariate.
Un tempo si giudicava la persona a partire dal suo adattarsi e corrispondere a una medietà sociale, oggi dobbiamo spostare l’attenzione su quell’articolata disarticolazione realizzata dai miliardi di neuroni di ogni individuo, che riduce l’importanza di quella componente sociale comune a famiglie, gruppi, etnie, nazionalità.
Emozioni, sentimenti, pensiero, coscienza. Da un punto di vista neuroscientifico la dinamica evolutiva porta al pensiero cosciente che, come abbiamo visto, è il prodotto di sentimenti semplici (omeostatici) che secondo Damasio ritroviamo anche nei batteri, di sentimenti complessi e di un rapporto di tutto ciò che è stato codificato dentro di noi. Il pensiero cosciente è in questo senso l’elemento che ci ha permesso come specie di occupare lo spazio, modificarlo, creare strutture al suo interno, e allo stesso tempo, attraverso continue nuove mappature esterno-interno e interno-interno, procedere a una continua trasformazione dell’individuo stesso.
Oggi va di moda mettere in evidenza come la cooperazione sociale sia una caratteristica che va al di là della comunità umana: gli esempi più noti e messi in evidenza sono quelli delle formiche e degli alberi. Questa vera e propria cooperazione tra individui ha permesso di creare società tra gli animali e le piante, da cui si sono sviluppate tesi curiose che tendono a vedere l’essere umano come una qualsiasi forma della natura.
La cooperazione è senz’altro un elemento comune, ma da un lato essa si manifesta in forme diverse e dall’altro c’è qualcosa di specifico che caratterizza gli esseri umani e non è qualcosa di poco conto: al contrario è l’elemento che ci distingue nel corpo complesso della natura.
Non è né il cervello né la mente, bensì il pensiero cosciente.
Ciò che la ricerca neuroscientifica ha scoperto è che la maggiore complessità che l’essere umano esprime consiste nel riconoscimento della proprietà delle innumerevoli immagini che sono mappate nel nostro cervello.
Il salto di qualità avviene perché la nostra struttura fisica e i processi neurali interno-interno permettono alla nostra persona di riconoscere come proprie tutte quelle immagini, quale che sia la loro provenienza, sensoriale o mentale, e che già sappiamo essere profondamente interconnesse. Lo stesso scheletro dialoga con le altre parti del corpo, muscoli visceri cervello, e il suo essere non è lì solo per la posizione eretta e una maggiore solidità, ma perché rappresenta il punto di vista nel mondo, la prospettiva, dunque le distanze e le vicinanze, che danno alla persona il suo senso, fisico e mentale: costituiscono cioè la sua identità. E’ a partire da questa acquisizione o meglio da questo riconoscimento in cui convergono tutte le immagini che sono state assunte che la persona entra in relazione con gli altri. Mano a mano che la vita cresce e si sviluppa quelle immagini determinano ciò che siamo: ne fissiamo di nuove, ne distruggiamo alcune, ne rafforziamo altre: il pensiero cosciente è tale prima di tutto per la coscienza che tutte le immagini di volta in volta codificate appartengono a noi, sono proprio nostre. E lo sono al di là del tempo e dello spazio, al di là della memoria e delle impressioni, al di là delle emozioni e dei sentimenti, al di là dei giudizi e dei pensieri.
- DAMASIO: LA PROPRIETA’ DELLA MENTE
“Quando descriviamo noi stessi coscienti di una particolare scena, ci occorre una considerevole integrazione delle sue componenti…Una maggiore integrazione dei contenuti mentali, estesa a una maggior quantità di materiale costituito da immagini che scorrono, fornisce un più ampio spettro di materiale cosciente, ma dubito che la coscienza possa essere spiegata ricorrendo alla “connessione” dei contenuti che vi contribuiscono…
Quello che invece comincia davvero a generare la coscienza è l’arricchimento del flusso mentale con quel tipo di conoscenza che denota l’organismo quale proprietario della mente…Ciò che comincia a rendere coscienti i miei contenuti mentali è l’identificazione di ME come proprietario dell’attuale patrimonio della mia mente.”
- Damasio: Sentire e conoscere, 2021- Adelphi 2022, pag. 161-162
- LE NEUROSCIENZE E NOI
Il cervello è sempre stato un organo molto particolare, molto discusso e molto difficile da comprendere proprio per la sua complessità. Lo studio organico è relativamente recente, ma il vero salto di qualità si è avuto con l’avvento delle neuroscienze, la cui caratteristica distintiva è stato un approccio diverso da quello generalmente usato nello studio degli altri organi. All’inizio si era cominciato allo stesso modo procedendo a una sempre maggiore parcellizzazione secondo il principio per cui il tutto è la somma delle parti: trovare le singole parti permetterebbe di comprendere struttura e funzioni dell’organo. Questo metodo ha permesso alla medicina di fare molti passi avanti, ma ha ben presto mostrato i suoi limiti, che, per quanto riguarda lo studio del cervello, risultavano decisivi. I risultati ottenuti negli ultimi anni dalle neuroscienze sono stati tali e di tale portata che oggi nessuno, né professionista né profano, può prescindere da questi. Non solo la psicologia e la psichiatria devono guardare a queste acquisizioni, ma lo devono fare anche i medici specialisti delle varie branche.
E anche noi non possiamo farne a meno
Questa è la mia tesi.
Siamo partiti dalle emozioni per arrivare ai sentimenti e infine scoprire la coscienza, o meglio il pensiero cosciente. Abbiamo visto come le varie parti del corpo dialoghino tra di loro e persino le ossa che formano lo scheletro svolgono un ruolo fondamentale nella costituzione del pensiero di ogni individuo. Anche gli specialisti, che un tempo partivano da veri e propri assiomi per comprendere i problemi di salute specifici di un paziente, hanno abbandonato questa visione settoriale per passare ad un approccio complesso che parte dalla specificità dell’individuo, della sua storia fisica e spirituale (o morale o emotiva o sentimentale). Ormai, eccetto casi particolari, l’approccio al corpo non prescinde più dalla mente, anche se siamo in una fase abbastanza sperimentale ed euristica, talvolta basata sull’improvvisazione. Lasciamo ai neuroscienziati e alla loro ricerca lo sviluppo e l’approfondimento di questi temi: molti sono gli studiosi e molte le ipotesi di lavoro, anche per autori come Damasio che hanno già un ricco patrimonio.
Per noi comuni mortali è giunto il momento di avere un approccio più consapevole, cosa che di fatto sta succedendo grazie ai riferimenti di massa al Dottor Internet che inevitabilmente affrontiamo con gli strumenti che ci appartengono; questi strumenti sono però il vecchio riduzionismo e la conseguente attitudine ideologico-moralista. Lo abbiamo visto per quanto riguarda i vaccini ben prima del Covid e lo vediamo nella mancanza di riconoscimento del medico che va di pari passo con la mancanza di riconoscimento dei professori: se uno vale uno e il merito non è più un punto di riferimento la maggior parte delle persone si sente medico e professore.
Lasciamo da parte le polemiche e torniamo a noi.
Una maggiore consapevolezza individuale è possibile proprio a partire dal valore professionale e dei meriti, riconoscendo il campo proprio su cui possiamo giocare.
Certamente non possiamo operare un trapianto né individuare il trattamento migliore per disfunzioni epatiche, ma sicuramente abbiamo tutti gli strumenti per essere a favore dei vaccini o non disdegnare a priori l’uso delle medicine. Soprattutto però abbiamo tutti la possibilità di usare il pensiero cosciente per una gestione migliore, cioè più sana e serena, della nostra vita.
Vediamo alcuni aspetti che non dovremmo avere difficoltà a fare nostri.
Il primo e più importante riguarda la centralità dell’individuo. Sapere che la coscienza è tale solo a partire dal riconoscimento della proprietà di tutto ciò che abbiamo incorporato e dalle distanze che abbiamo stabilito obbliga al superamento di attitudini sempre in voga come la critica all’egotismo e la subalternità dell’individuo al sociale. Non c’è dubbio che siamo animali sociali (come diceva Aristotele), ma lo siamo a partire da quella specifica e unica formazione che è il nostro IO, che siamo noi stessi, così come siamo divenuti grazie alla storia del dialogo intrauterino, del dialogo delle decine di miliardi di neuroni e dei più numerosi assoni con il mondo esterno (natura e uomini) e del dialogo che incessantemente costruiamo dentro noi stessi.
I continui dibattiti, filosofici e religiosi, sul primato della società sull’individuo, esasperato dal nuovo mantra della “solidarietà”, rimangono eventi sterili, proprio di fronte al riconoscimento scientifico. D’altraparte la mancanza di riconoscimento della centralità dell’individuo, essendo il dato reale fisiologico e ora anche storico, non può essere soppresso da precetti moralistici; quando questo succede la realtà ha la sua rivincita, uscendo allo scoperto in forme non previste e di cui continuiamo a meravigliarci, perché non vogliamo prendere atto della realtà. Tipico dell’ideologia e del moralismo: se i fatti risultano difformi dalla teoria sono i fatti a essere sbagliati. Mettiamo in confusione il nostro cervello obbligandolo a mappature e dialoghi impropri, dal momento che lo forziamo a rinunciare al proprio riconoscimento. Il dialogo è tale solo se aperto alla molteplicità delle immagini; purtroppo ancora continuiamo con un dialogo univoco, cioè un monologo, che, una volta identificate le immagini nuove, per comodità le sovrappone sulle mappe precedenti: abituati a vedere nelle montagne figure geometriche euclidee, continueremo a vederle come dei triangoli. E’ vero che la ripetizione nasce come garanzia, ma l’evoluzione, anche mentale, ha bisogno di salti.
Il secondo aspetto su cui possiamo lavorare riguarda il riconoscimento del dialogo e dell’interconnessione fra tutti gli elementi di cui siamo protagonisti: emozioni, sentimenti, pensiero. Dobbiamo abituarci a pensare cosa voglia dire che cuore e cervello, sentimento e ragione non sono elementi separati (non dico contrastanti) e dunque provare cosa questo comporti, quando decidiamo di dare vita a una relazione affettiva, amore o amicizia non importa. La conseguenza di questa acquisizione sta nel fatto di scavare dentro le parole e le espressioni comuni, senza la necessità di demonizzarle. “Ti amo” non è un’espressione sbagliata, ma è insufficiente e inadeguata a dialogare con la persona che siamo diventati; essa pretende che la si scopra, le si tolga il viluppo in cui è racchiusa e le si diano tutte le possibilità che sapremo riconoscerle. Si parla sempre di saper tirare fuori dai giovani il talento che è racchiuso in loro, dovremmo imparare a farlo con le parole e le espressioni che la Storia e la Società ci hanno messo di fronte. E’ un lavoro di cui ci sono molte tracce, ma su cui il protagonista del XXI secolo, l’Individuo, ancora ha difficoltà a cimentarsi. Ma non potrà aspettare troppo.
Il terzo aspetto riguarda la complessità del cervello, organo che dialoga con il mondo esterno e con quello interiore, una complessità in parte determinata dalla quantità di elementi che lo compongono e dalla quantità di relazioni che si instaurano tra loro, ma anche dalla comunicazione che le neuroscienze hanno messo in evidenza tra le diverse parti che lo costituiscono. Possiamo leggere questa complessità reticolare come un “garbuglio” inestricabile oppure, vedendo che si tratta di garbuglio solo perché siamo abituati al riduzionismo semplicista, possiamo cominciare a riconoscere tratti di complessità nel nostro pensare, nel nostro porci, nel nostro relazionarci: occorre passare da una ragione semplice, lineare, riduzionista, approssimativa a una ragione complessa reticolare, aperta e molteplice che rifugge le de-finizioni perché operano in termini di chiusura.
Centralità della nostra persona, interconnessione tra cuore e cervello, presenza di una ragione complessa.
Tre aspetti, ma forse potrebbero essere molti di più. Si può cominciare.
BIBLIOGRAFIA RELATIVA AL TESTO
BATESON G.: Una sacra unità
BAUDELAIRE C.: Les fleurs du mal
CANETTI E.: Massa e potere
CAPRA F.: Il Tao della fisica
CARTESIO: Discours sur la methode
CARTESIO: Meditazioni metafisiche
CERUTI M.: Il vincolo e la possibilità
DAMASIO A.: Emozione e coscienza
DAMASIO A.: L’errore di Cartesio
DAMASIO A.: Sentire e conoscere
EAGLEMAN D.: In incognito
EDELMAN G.: Seconda natura
GADAMER H. G.: Verità e metodo
GESNER J. M.: Novus linguae et eruditionis romanae thesaurus
KIERKEGAARD S.: Aut-aut
LIPOVETSKY G.: L’ère du vide
MATURANA-VARELA: L’albero della conoscenza
MORIN E.: La sfida della complessità
MORIN E.: Relier les connaissances
PAZ O.: Opere complete
PENROSE R.: La mente nuova dell’imperatore
PIRANDELLO L.: Il fu Mattia Pascal
PLURIVERSO, n. 1
RAMACHADRAN V.: L’uomo che credeva di essere morto
RICOEUR P.: Soi-meme comme un autre
RIMBAUD A.: La lettre du voyant
SANT’AGOSTINO: Le confessioni
SCHACTER D.: Alla ricerca della memoria:
SISI E.: De Spiritu
SISI E.: Sorriso
STEPHANUS: Thesaurus graecae linguae
STEWART I.: Dio gioca a dadi?
STOPPARD T.: Arcadia
UTET: Grande dizionario della lingua italiana