CONOSCERE LA CONOSCENZA: LA SCIENZA E LE SUE MOLTE FACCE. IL FUTURO (parte prima)

 La scienza classica è una scienza che si pretende onnisciente, in grado cioè di trovare le leggi fondamentali che reggono il funzionamento della natura. Questa prospettiva risulta accentuata nel 1800, quando raggiunge il massimo di formulazioni teoriche e di realizzazioni pratiche. Nei post precedenti abbiamo visto cronologicamente come la ricerca scientifica abbia lentamente messo in discussione molti dei principi su cui la scienza classica era fondata. Le numerose scoperte e un nuovo approccio hanno inevitabilmente messo in discussione anche il sistema complessivo su cui quell’idea di scienza era fondato.

In questo e nel prossimo capitolo vedremo dove e come si è proceduto a formare, conformare e confermare una proposta culturale complessiva che partisse dal rifiuto del determinismo e dell’universalismo, senza bisogno di affermare una visione culturale relativistica o basata sulla casualità. Vedremo i luoghi, le persone, le teorie che sono andate oltre l’onniscienza, ma che allo stesso tempo sono andati oltre le scoperte fatte nei singoli ambiti disciplinari. Ne abbiamo visto tracce anche nei capitoli precedenti e che naturalmente hanno come punto di riferimento quella Nuova Alleanza di cui per primi hanno parlato Prigogine e Stengers. La Nuova Alleanza è un percorso inevitabile nel momento in cui cessa la separazione tra scienze forti e scienze deboli che attribuisce solo alle prime il senso di verità che la scienza si attribuisce. La Nuova Alleanza si colloca in una prospettiva multidisciplinare, anzi inter e transdisciplinare.

In questa prima parte parlerò del Santa Fe Institute, che esemplifica il percorso che l’universo della complessità sta portando avanti, e della “Sfida della complessità” di cui parla il filosofo Edgar Morin che più di altri ha lavorato per trovare un senso comune tra i diversi compagni di viaggio.

 

Santa Fe Institute

Come evidenziato da Prigogine la scoperta di un nuovo approccio scientifico ha aperto nuove strade: convegni, pubblicazioni, centri di ricerca sono andati crescendo nel corso degli ultimi anni. È un terreno nuovo e merita attenzione, ma prima di tutto è importante soffermarsi sull’attività di un centro prestigioso: il Santa Fe Institute. Il suo prestigio nasce, come vedremo, dalla presenza di ricercatori importanti, dalla quantità e qualità di iniziative e dall’approccio scientifico dichiaratamente multidisciplinare.

Seguirò due percorsi per capire meglio di cosa si tratta: come viene visto dall’esterno e come esso si presenta.

(1)La storia del Santa Fe Institute è legata allo sviluppo della scienza della complessità e propongo alcune informazioni da un libro uscito in Italia nel 1995; ne è autore un fisico teorico e divulgatore scientifico, Morris Mitchell Waldrop, e il titolo è “Complessità. Uomini e idee al confine tra ordine e caos.”

“L’Istituto era una piccola organizzazione privata, fondata (nel 1984 ndr) dal fisico Murray Gell-Mann ed altri scienziati per studiare aspetti di sistemi complessi, espressione con cui intendevano qualsiasi fenomeno, dalla fisica della materia condensata alla società nel suo complesso: qualsiasi cosa si componesse di un gran numero di parti fortemente interattive…Dopo Arrow e Anderson, Gell-Mann era il terzo premio Nobel che sentiva nominare in relazione all’Istituto di Santa Fe (siamo nel 1987 ndr). Era una struttura fondata da anziani accademici ricchi di privilegi, di fama e di Premi Nobel…L’Istituto era popolato in gran parte da fisici e informatici di Los Alamos, l’originale Shangri-la dell’armamento nucleare” (Walldrop, Morris Mitchell, Complessità, Interlibri, Torino: pp. 74-75).

“Sì, aveva proprio ragione: nonostante le incombenze amministrative il rimanente 20% del suo lavoro lo ricompensava di tutto. Nell’autunno del 1988 l’Istituto di Santa Fe era in pieno fermento, e non solo per il programma di economia. Circa un anno prima infatti erano arrivati, attraverso la National Science Foundation e il Ministero dell’Energia, i fondi federali preannunciati da lunga data. Cowan (il Direttore del S.F.I., n.d.A.) non era riuscito ad ottenere dagli enti tutto il denaro di cui abbisognava –ad esempio non ce n’era ancora a sufficienza per assumere un corpo docente stabile- comunque era riuscito a strappar loro la promessa di pagare un milione e settecentomila dollari nel corso dei successivi tre anni, a cominciare dal gennaio 1988. Così l’Istituto aveva ora una sicurezza finanziaria fino all’inizio del 1991. E finalmente c’era abbastanza denaro per potersi dedicare sul serio alle questioni che ne avevano ispirato la nascita.

Il comitato scientifico, sotto la guida di Gell-Mann e di Pines, aveva perciò dato il via libera a quindici nuovi convegni. Alcuni di questi si ripromettevano di affrontare il problema della complessità da un punto di vista fisico: un primo esempio era il convegno dedicato a ‘Fisica dell’Informazione, Entropia e Complessità’…Altri incontri promettevano di affrontare la complessità sotto l’aspetto biologico, come i due importanti convegni sul sistema immunitario…Intanto anche il comitato scientifico caldeggiava l’idea di chiamare visitatori e Post-Doc non associati ad alcun particolare programma di studio o convegno”(M.M. Walldrop, Complessità, cit. pp. 394-395).

 “Santa Fe svolse così la funzione di un gigantesco catalizzatore. Qui, scienziati di altissimo livello –del calibro di Frank Hahn e Ken Arrow- collaboravano con personalità come John Holland e Phil Anderson per capire, nel corso di numerosi incontri, se si potesse davvero operare con un apprendimento induttivo anziché con una logica deduttiva, tagliando il nodo gordiano dell’equilibrio e occupandosi di un’evoluzione aperta, tutti problemi che erano già stati affrontati da altre discipline. Santa Fe fornì la terminologia specifica, le metafore e la competenza necessarie per applicare quelle tecniche all’economia. Ma soprattutto diede legittimità scientifica a una diversa visione della disciplina. Quando infatti si seppe che Arrow, Hahn, Sargent e altri scrivevano articoli su tali argomenti, molti si convinsero che fosse perfettamente ragionevole fare lo stesso” (M.M. Walldrop, Complessità, cit. p. 524).

Qui ho riportato solo alcuni brani che permettono di avere un’idea sull’attività del S.F.I., ma il libro merita di essere letto interamente da chi volesse avvicinarsi al mondo della complessità entrando nel merito di aspetti centrali nelle varie discipline, come la teoria dei rendimenti crescenti in economia, l’auto-organizzazione nelle reti regolatrici del genoma in biologia, la logica e la meccanica della vita artificiale nel campo informatico, il dilemma del prigioniero nel campo dell’evoluzione e tante altre cose.

“L’istituto di Santa Fe non si pone regole ortodosse né impone alcun vincolo ai propri partecipanti, nella convinzione che proprio dal confronto interdisciplinare possa emergere una nuova visione unificante della scienza. La scoperta cioè di quelle leggi elementari sottese a eventi eterogenei e apparentemente inspiegabili quali la decadenza di civiltà progredite, l’estinzione in massa dei dinosauri, il crollo della Borsa nel lunedì nero del 1987, la formazione di organi sofisticati come l’occhio e il cervello, la genesi di una galassia…” (M.M. Walldrop, Complessità, cit., nel risvolto di copertina).

 

(2) Come sappiamo la scienza della complessità non riduce i fenomeni all’interno di discipline astrattamente delimitate e definite. Lo studio dei fenomeni viene sviluppato in quanto parte di una rete complessa, i cui attributi sono comuni al di là delle discipline conformate in modo tradizionale. Ci sono fenomeni che diremmo appartenere alla fisica che hanno tratti decisivi caratteristici di altri fenomeni che diremmo appartenere a discipline considerate meno o non scientifiche come l’economia, la sociologia e la storia.

Il carattere interdisciplinare diventa così una necessità, assumendo le caratteristiche piuttosto della transdisciplinarità, e questo appare chiaro già nel costituirsi del S.F.I.

Le informazioni sul Santa Fe Institute si possono prendere direttamente dal sito web: www.santafe.edu. Ed è ciò che faremo.

 “The Santa Fe Institute (SFI) is devoted to creating a new kind of scientific research community, emphasizing multidisciplinary collaboration and focusing on what has come to be known as studies of complexity and complex adaptive systems. SFI seeks to break down the barriers between traditional disciplines, to spread its ideas and methodologies to other institutions, and to encourage the practical application of its results.

The Santa Fe Institute is a private, non-profit, multidisciplinary research and education center, founded in 1984. Since its founding SFI has devoted itself to creating a new kind of scientific research community, pursuing emerging science.

Operating as a small, visiting institution, SFI seeks to catalyze new collaborative, multidisciplinary projects that break down the barriers between the traditional disciplines, to spread its ideas and methodologies to other individuals and encourage the practical applications of its results”.

Le aree in cui è articolata la Home del sito sono:

RESEARCH: Temi, Progetti, Ricercatori, Pubblicazioni, Risorse, Borse di Studio…

NEWS + EVENTS: News, Newsletters, Podcasts, Media Center, Eventi, Community, Intelligenza Collettiva 2023…

EDUCATION: Programmi, Progetti, Complexity explorer, Ricerca Post-Dottorato …

PEOPLE: Ricercatori, Facoltà dei Frattali, Scuola Miller, Staff, Governance …

APPLIED COMPLEXITY – Progetti in Corso ( i)  Scaling of Human Social Organizations, ii)  Applied Belief Dynamics, iii)  The Complexity of Sustainability).

ACtioN: Complessità applicata-L’Applied Complexity Network (ACtioN) di SFI è una comunità di aziende, governi e organizzazioni non profit che lavorano alla frontiera della scienza della complessità…

CULTURE: Progetto InterPlanetario, Heliotown II, Monoliti, Broken Symmetry Society.

GIVE: Donazioni

ABOUT: Tutto ciò che c’è da sapere in più.

Infine, consultabile on line c’è il S.F.I. Bulletin che esce anche più volte l’anno dove sono riportati studi di particolare interesse in varie discipline, progetti di ricerca, oltre a work in progress, notizie, eventi, riconoscimenti ecc. e lo si trova tra le Newsletters.

Come si può vedere si tratta di una struttura aperta, una vera e propria rete, dove circolano e si sviluppano idee e progetti, con la partecipazione delle persone a diversi livelli, sia di studio sia di ricerca sia di insegnamento, e provenienti da tutto il mondo. E’ dunque un Centro Studi complesso, cioè dinamico, interconnesso e auto-organizzantesi, capace di attirare e catalizzare intelligenze, da quella del giovane studente a quella del ricercatore per giungere al Premio Nobel.

Lo studio dei sistemi complessi è il punto di riferimento di tutta l’attività che ruota intorno al SFI e di cui il SFI è propulsore, ben sapendo che il termine complessità è tutt’altro che definito e definibile.

Come scriveva Ken Baake in un articolo apparso sul Bulletin del S.F.I. del 1999:

La parola complessità, uno dei concetti centrali all’Istituto, presenta forse la più grande sfida a livello di definizione. Un certo numero di scienziati riconosce di non sapere cosa voglia dire realmente. L’apparente vaghezza del termine, comunque, può essere ciò che la rende così valida come catalizzatrice per il pensiero. Una parola come complessità è nuova e irrisolta; non si tratta di un inerte strumento di descrizione scientifica, ma piuttosto un’idea il cui significato evolve proprio attraverso l’interazione con i ricercatori”.

Per concludere questa parte propongo alcuni concetti che gli studiosi del Santa Fe Institute hanno contribuito a sviluppare e chiarire dando corpo a un progetto di ricerca che è andato innervandosi sempre più e in molteplici direzioni, anche relative a discipline comunemente considerate distanti.

Il concetto di emergenza e di auto-organizzazione è ad esempio usato negli studi storici relativi all’attuale situazione dell’Europa Orientale da parte di Cosma Shalizi; le proprietà emergenti delle interazioni sociali negli studi di Lesley King sulla guerra civile in El Salvador e in Sud Africa; l’uso di modelli complessi elaborati nel campo della biologia è alla base del progetto di ricerca sulla solidità dei processi sociali da parte di Erica Jen. Un’analisi dettagliata della produzione operata dai ricercatori del SFI permette di allargare il campo degli esempi.

Ricordo, ad esempio, come Christopher G. Langton, ricercatore esperto di Vita artificiale, elabora il concetto di margine del caos, che abbiamo già visto in uno dei primi capitoli: ciò che rende possibile la vita e la mente è un certo tipo di equilibrio tra le forze del disordine e quelle dell’ordine. E se guardiamo il comportamento dei sistemi piuttosto che i loro componenti si trovano i due estremi dell’ordine e del caos. Proprio fra i due estremi, in una sorta di transizione di fase astratta detta ‘margine del caos’ si trova anche la complessità: questi sistemi sono abbastanza stabili per memorizzare informazione, ma anche abbastanza labili da trasmetterla: sono i sistemi che possono essere organizzati per eseguire computazioni complesse, reagire al mondo, essere spontanei, adattativi, vivi.

Margine del caos, auto-organizzazione e sistemi emergenti ritornano negli studi del biologo Stuart Kauffman:

Il rapporto tra auto-organizzazione e selezione naturale…I sistemi viventi sono molto vicini a questa transizione di fase al margine del caos, dove le cose sono più sciolte e fluide. E la selezione naturale non è l’antagonista dell’auto-organizzazione. E’ più simile a una legge del moto: una forza che spinge di continuo sistemi emergenti, autorganizzantisi verso il margine del caos…Diciamo dunque che la transizione di fase è il luogo adatto per la computazione complessa…Mutazione e selezione ti condurrano là” (M.M. Walldrop, Complessità, cit. pp. 486-487).

Il concetto di coevoluzione e non di ottimizzazione emerge dagli studi di John Holland, capace di unire informatica e biologia:

In particolare, voleva capire un grande paradosso dell’evoluzione: perché la lotta incessante che dà origine alla corsa agli armamenti produce anche simbiosi e altre forme di cooperazione…In un mondo competitivo, perché gli organismi collaborano tra di loro? Perché non adottano precauzioni difensive nei confronti di alleati che potrebbero da un momento all’altro attaccarli?”(M.M. Walldrop, Complessità, cit. pp. 418).

La risposta viene dalla soluzione del cosiddetto dilemma del prigioniero, nota con il termine Tit for Tat, emersa alla fine degli anni Settanta in occasione di un torneo tra programmi per computer organizzato dal collega di Holland, Robert Axelrod. Il Tit for Tat divenne, nelle simulazioni al computer e nei programmi Echo elaborati da Holland, l’elemento portante di una spiegazione di dinamiche evolutive, anzi coevolutive, nei comportamenti sociali. In modo particolare i numerosi programmi, elaborati per studiare se una popolazione di individui che coevolvono attraverso l’algoritmo genetico potesse scoprire la strategia Tit for Tat, mostrarono che appariva e si diffondeva con rapidità tra la popolazione o la Tit for Tat o una strategia simile. Gli studi in questo campo dimostrano come le interazioni Tit for Tat conducano alla cooperazione nel mondo naturale pur escludendo il beneficio dell’intelligenza, come dimostrano i casi dei licheni, delle acacie e del caprifico” (Le informazioni sono tratte sempre dal libro di Walldrop, cap. VII.).

Lo stesso concetto di coevoluzione viene sviluppato negli studi di economia portati avanti soprattutto da William Brian Arthur:

Non c’è divisione tra chi fa e chi subisce perché apparteniamo a una stessa rete interconnessa…Il concetto di ottimizzazione perde ogni significato…Si deve parlare invece di adattamento e coadattamento…Mentre iniziamo a capire i sistemi complessi, capiamo anche di far parte di un mondo caleidoscopico sempre mutevole, interconnesso, non lineare…Dobbiamo rinunciare alla ottimalità e mantenere aperto il maggior numero di scelte possibili…Il ruolo del S.F.I. è quello di aiutarci a osservare il fiume in continuo mutamento e a capire ciò che stiamo vedendo. Se si ha un sistema davvero complesso, le configurazioni esatte non possono ripetersi…Esistono persone in sintonia con questo genere di cose: sono coloro che amano il processo e le configurazioni, all’opposto di quelli che si trovano più a loro agio con la stasi e l’ordine…(Come scrive il genetista Lewontin) i primi vedono il mondo come un processo di flusso e mutamento, con lo stesso materiale che circola costantemente in combinazioni infinite…(i secondi) se forze disordinate allontanano di poco un sistema dall’equilibrio, cercano subito di ricacciarcelo”( .M.M. Walldrop, Complessità, cit. pp 537-540).

Margine del caos, sistemi emergenti, auto-organizzazione, co-adattamento, coevoluzione sono termini, o meglio metafore come si ama dire a Santa Fe, con i quali si cerca di sviluppare lo studio dei sistemi complessi. Come abbiamo visto, questi termini hanno le loro radici negli studi della fisica novecentesca, così come si è sviluppata da Bohr a Prigogine, ma si irradiano verso discipline da sempre considerate non scientifiche.

La scienza della complessità come studio di sistemi complessi apre la strada a un incontro tra discipline diverse, incontro posto su un piano più alto di ricerca, un incontro che è nelle parole di Prigogine la nuova alleanza, titolo e concetto centrale del libro scritto nel 1981 insieme ad Isabelle Stengers.

 

La sfida della complessità

La comparsa del termine “complessità” in ambienti scientifici e la sua rapida diffusione hanno posto subito l’esigenza di chiedersi cosa sia la complessità, anche per l’abitudine secolare a procedere per de-finizioni. Rinchiudere e delimitare ogni elemento della vita, anche le parole, nel tentativo (e nell’illusione) di una migliore com-prensione (etim. prendere insieme). Purtroppo chi opera nell’ambito della complessità non può procedere a de-finizioni perché questa è una sua caratteristica, il che non vuol dire né che domini l’arbitrarietà né che si debba tacere.

Sentiamo cosa dice Isabelle Stengers in La sfida della complessità, Feltrinelli, Milano:

La nozione di complessità, sia che venga denunciata come una deviazione della scienza sia che venga annunciata come la sua redenzione, appartiene a un discorso a proposito della scienza. Non possiede…uno statuto assimilabile a nozioni come quelle di traiettoria, di guscio atomico o di codice genetico. Non rimanda nè a una disciplina specializzata nè a un insieme di tecniche capaci di risolvere una classe di problemi ben definiti” (pag. 61)

 

Non può esserci un paradigma della complessità: si tratta dunque di procedere per approcci successivi entrando sempre più nelle profondità di questa nozione. Per capire meglio tale questione la studiosa belga, nello stesso saggio, cita un noto biofisico francese di origini algerine, Henri Atlan, a proposito della differenza tra complicazione e complessità

“Un sistema complicato è un sistema di cui comprendiamo la struttura e i principi di funzionamento: di principio nulla impedisce che con tempo e denaro si possa giungere ad avere una conoscenza integrale. Al contrario il sistema complesso sarebbe quello di cui abbiamo una percezione globale, nei termini della quale possiamo identificarlo e qualificarlo, pur sapendo di non comprenderlo nei suoi dettagli” (La sfida della complessità, Feltrinelli, Milano, pag. 68-69).

La conclusione del saggio è che “la scoperta della complessità è lungi dall’essere una panacea universale. È piuttosto scoperta di problemi che non di soluzioni” (op.cit. pag. 80).

Questo punto di vista è anche quello da cui parte Edgar Morin:

“In ogni modo la complessità si presenta come difficoltà e come incertezza, non come chiarezza e come risposta…Per lungo tempo molti hanno creduto -e molti forse credono ancor oggi- che la carenza delle scienze umane e sociali stesse nella loro incapacità di liberarsi dall’apparente complessità dei fenomeni umani, per elevarsi alla dignità delle scienze naturali, scienze che stabilivano leggi semplici, principi semplici, e facevano regnare l’ordine del determinismo. Oggi vediamo che le scienze biologiche e fisiche sono caratterizzate da una crisi della spiegazione semplice” (E. Morin, La sfida della complessità, Feltrinelli, Milano. pag.49).

Edgar Morin è considerato il pensatore, per alcuni filosofo per altri sociologo, che per primo e meglio ha cercato di sistematizzare il senso dei cambiamenti che la scienza ha sviluppato al proprio interno: il pensiero complesso nasce all’interno di quella che Prigogine e Stengers hanno chiamato Metamorfosi della scienza. È in questo ambito che si muove tutto il pensiero di Morin e soprattutto operano le sue aperture che coinvolgono naturalmente altre discipline e che nelle numerose proiezioni toccano campi svariati (dal cinema all’etica). Qui mi concentrerò sui nodi fondamentali e consolidati di quella che Morin chiama «sfida della complessità».

A questo proposito egli individua alcune strade che conducono a questa sfida.

1)L’irriducibilità del caso o del disordine.

Da sempre la Scienza, quella classica con la Esse maiuscola, ha ricondotto il Caso alla nostra ignoranza, ma oggi l’approccio appare differente. Lo studio del calore, delle indeterminazioni microfisiche, delle strutture dissipative hanno portato alla luce aspetti nuovi:

il matematico Chaitin ha definito il Caso come incompressibilità algoritmica, aggiungendo che non possiamo dimostrare se quello che ci sembra Caso non sia invece dovuto alla nostra ignoranza.

Da un lato dobbiamo constatare che il disordine e il caso sono presenti nell’universo e svolgono un ruolo attivo nella sua evoluzione. D’altro canto, non siamo però in grado di risolvere l’incertezza arrecata dalle nozioni di disordine e di caso: lo stesso caso non è sicuro di essere un caso “(E. Morin, op.cit. pag.50)

Il Caso cessa di essere un’eccezione che per forza dobbiamo ricondurre dentro un quadro di leggi necessarie e diventa componente essenziale del processo storico.

 

2)Il superamento di quell’astrazione universalista che eliminava la singolarità, la località e la temporalità.

Questo avviene nelle scienze naturali, dove “la biologia contemporanea non considera più la specie come un contesto generale entro la quale l’individuo è un caso singolare…La vita stessa è una singolarità, all’interno dei vari tipi di organizzazioni fisico-chimiche esistenti” (idem, pag. 50). Lo stesso vale per la cosmologia come per le discipline ecologiche: “E così non possiamo eliminare il singolare e il locale ricorrendo all’universale. Dobbiamo al contrario connettere queste nozioni” (idem, pag. 50).

Cominciare a fare i conti con la temporalità, la località e la singolarità significa dotarsi di strumenti importanti per cogliere la dimensione reticolare delle relazioni umane: essi non vogliono significare relativismo culturale, ma al contrario vogliono stimolarci a pensare in modo ampio, aperto e interrelato cercando di cogliere il peso che nell’insieme generale può avere la dimensione specifica (singola, locale e temporale), senza doverla sempre annullare in un’astrazione universalistica, trasformandola in un’eccezione o in un’anomalia.

 

3) Relazione di complementarità –e allo stesso tempo di antagonismo logico- fra le nozioni di ordine, disordine e organizzazione.

 “Va in questo senso il principio dell’order from noise – formulato da Heinz von Foerster nel 1959- che si opponeva al principio classico dell’order from order (l’ordine naturale che obbedisce alle leggi naturali) e al principio statistico dell’order from disorder (per il quale un ordine statistico a livello delle popolazioni si produce a partire dai fenomeni disordinati e aleatori al livello degli individui). Il principio dell’order from noise indica che da un’agitazione o da una turbolenza disordinata possono nascere fenomeni ordinati (preferirei dire organizzati)” (idem, pag. 51).

L’idea di rumore implica il carattere non codificato né dell’ordine né del disordine; esso individua una zona dove si realizzano le trasformazioni, una zona che coincide con quello che abbiamo visto come il margine del caos.

Possiamo dire che questo concetto rappresenta il punto d’incontro tra la continuità e la rottura: di per sé il turbinio e l’agitazione di comportamenti e relazioni non garantisce l’evoluzione, in quanto può rimanere tale molto a lungo; ma in determinate condizioni esso è capace di ricomporsi in un insieme ordinato, cioè in una dimensione di organizzazione stabile.

 

4) La via dell’organizzazione.

“L’organizzazione è ciò che determina un sistema a partire da elementi differenti, e costituisce dunque un’unità nello stesso tempo in cui costituisce una molteplicità. La complessità logica dell’unitas multiplex ci richiede di non dissolvere il molteplice nell’uno, né l’uno nel molteplice”(idem, pag. 51).

 Per Morin la via dell’organizzazione dei sistemi complessi si articola secondo tre momenti concettuali:

  1. Un sistema è allo stesso tempo qualcosa di più e qualcosa di meno della somma delle sue parti.
  2. In essa vige il principio ologrammatico, per cui, come in un ologramma, ogni punto contiene quasi tutta l’informazione dell’insieme che l’immagine rappresenta.
  3. Né riduzionismo, che ignora il tutto, né olismo, che ignora le parti.

Morin cita a questo proposito un esempio che si riferisce a una brutale caduta demografica nella città di Berlino negli anni ’50. Mentre per la maggior parte degli studiosi di demografia questo fenomeno fu ritenuto eccezionale e legato alle particolari condizioni della città tedesca in quegli anni, Pierre Chaunu vide in quei valori il punto critico che annunciava il declino demografico generale. “Così la comprensione dei fenomeni globali o generali ha bisogno di anelli, di andirivieni e di spole fra i punti singolari e gli insiemi” (idem, pag. 52).

Morin parla di spiegazione circolare; io credo che dovremmo aprire la nostra mente a metafore che sappiano coniugare figure diverse: penso ad esempio alla figura della spirale che permette di recuperare la circolarità, all’immagine della struttura reticolare multidirezionale che recupera la linearità. Dovremmo infine riuscire ad accompagnare queste figure nello studio dei fenomeni storici, saperle connettere, tenerle presenti contemporaneamente come filtri concettuali, strumenti diversi che portano luci diverse e forniscono una capacità conoscitiva più profonda.

 

5) Il principio dell’organizzazione ricorsiva.

 “Ricorsiva è quell’organizzazione i cui effetti e i cui prodotti sono necessari per la sua stessa causazione e per la sua stessa produzione. E’ proprio il problema dell’autoproduzione e dell’autorganizzazione…Le nozioni di effetto e di causa erano già diventate complesse con la comparsa della nozione di anello retroattivo di Norbert Wiener (nel quale l’effetto ritorna in maniera causale sulla causa che lo produce): ciò che è prodotto e ciò che produce diventano nozioni ancora più complesse, e si richiamano vicendevolmente…La complessità non è soltanto un fenomeno empirico (caso, alea, disordini, complicazioni, grovigli nell’ambito dei fenomeni), ma è anche un problema concettuale e logico che confonde le demarcazioni e le frontiere così nette fra concetti quali produttore e prodotto, causa ed effetto, uno e molteplice” (idem, pag. 52).

In campo storico questo principio permette di andare ancora più in profondità contribuendo a superare una visione così frequente come quella lineare e causalistica; si tratta di un arricchimento di punti di vista, di prospettive, di percorsi e di flussi. Uno studio che, oltre a saper individuare un tessuto reticolare, riesce anche a individuare nei segmenti che lo compongono flussi multidirezionali e in uno stesso segmento flussi bidirezionali è in grado di fornire strumenti e chiavi di lettura più vaste e profonde.

 

6) La via della crisi dei concetti chiusi e chiari.

 “Qui abbiamo davvero una rottura con la grande idea cartesiana per cui la chiarezza e la distinzione delle idee sono indice della loro verità, e non possiamo quindi avere una verità che non si possa esprimere in maniera chiara e distinta. Oggi vediamo le verità manifestarsi nelle ambiguità e in un’apparente confusione. Assistiamo alla fine del sogno di stabilire una demarcazione chiara e distinta fra scienza e non scienza…vi è anche una crisi della demarcazione netta tra oggetto e soggetto, o fra organismo e ambiente” (idem, pag. 53).

Morin propone di servirsi del concetto di auto-eco-organizzazione. Il problema che sta dietro queste parole riguarda le relazioni interne al sistema e il rapporto con l’ambiente, il concetto di autonomia e quello di dipendenza. Autonomia e dipendenza, nella riflessione di Morin, sono allo stesso tempo complementari e antagonistici:

“Un sistema aperto deve essere nel contempo chiuso, e deve mantenere la propria individualità e la propria originalità…Nell’universo delle cose semplici è necessario che una porta sia o aperta o chiusa, mentre nell’universo complesso è necessario che un sistema autonomo sia nel contempo aperto e chiuso. Per essere autonomi bisogna essere dipendenti”(idem, pag. 54).

 

7) Il ritorno dell’osservatore.

Abbiamo già visto come a partire dalla fisica quantistica la scienza abbia modificato il ruolo dell’osservatore, obbligando tutte le discipline, scientifiche e non, a una costante, progressiva e sempre più decisiva reintroduzione del ruolo dell’osservatore.

“L’osservatore-concettualizzatore deve integrarsi nella sua osservazione e nella sua concezione…Possiamo dunque formulare il principio della reintegrazione del concettualizzatore nella concezione: qualunque sia la teoria, e di qualunque cosa essa tratti, essa deve rendere conto di ciò che rende possibile la produzione della teoria stessa. Se in ogni modo non è in grado di rendere conto di ciò, deve pur sapere che il problema rimane posto” (idem, pag. 55).

Alla logica classica, per la quale la contraddizione era il segnale d’allarme che indicava l’errore, Morin sostituisce una visione dialogica, capace di aprire la strada a un pensiero multidimensionale valorizzando con ciò il significato etimologico della parola complessità:

“Tutte le complessità a cui ho fatto riferimento costituiscono il tessuto della complessità. Complexus è ciò che viene tessuto insieme, e il tessuto deriva da fili differenti e diventa uno. Tutte le varie complessità si intrecciano dunque, e si tessono insieme, per formare l’unità della complessità, ma l’unità del complexus non viene con ciò eliminata dalla varietà e dalla diversità delle complessità che l’hanno tessuto” (idem, pag. 56).

 

CONCLUSIONE PARZIALE

Ho intitolato questo capitolo “Conoscere la conoscenza : la scienza e le sue molte facce. Il futuro (parte prima)” e l’esperienza del Santa Fe e di E. Morin hanno fornito delle risposte o, meglio, hanno indicato qual è il terreno su cui deve muoversi la Scienza già ai nostri giorni. La Scienza di oggi e del futuro ha molte facce perché ha cessato di essere univoca e monocromatica; essa si presenta come una rete in cui ogni hub è rappresentato da ogni singola disciplina e pretende un riconoscimento sia in sé sia per le relazioni che riesce a stabilire con gli altri hub. Come ogni rete (lo abbiamo visto nel capitolo 6) anche la Scienza trae nutrimento e linfa vitale dall’intensità degli scambi che ogni hub stabilisce con gli altri hub, che influenza e da cui è influenzato. La scoperta di una freccia del tempo da parte di Prigogine ha rivoluzionato gli studi storici, mentre questi hanno riscoperto il valore dell’individualità e dell’evento incontrandosi con molti aspetti della fisica quantistica.

La letteratura tra Ottocento e Novecento ha permesso un incontro insperato con le scoperte della fisica nel XX secolo e piano piano sono emersi concetti che ci permettono di collocare la storia dell’uomo nella storia della natura, superando atteggiamenti unilaterali che si presentano come residuo di una visione deterministica. L’uomo e la natura dialogano tra loro e non esiste una superiorità dell’uno o dell’altra; l’uomo non vede più la natura come nemica, ma come parte di un contesto di cui anch’egli è parte integrante; in questo senso non esiste un moralistico rispetto della natura posto al di fuori del rispetto che l’uomo ha di se stesso; non esiste un uomo astratto, ma uomini in carne e ossa il cui comportamento non è dissimile da quello degli altri esseri animati con cui dialogano, si confrontano e combattono.

La complessità permette di superare quelle visioni tradizionali che hanno spaccato l’esistenza, la conoscenza e la riflessione in due parti, in modo semplice e moralistico.

Naturalmente esistono fenomeni semplici che richiedono una scelta tra due opposti, ma oggi ci troviamo a vivere fenomeni complessi e a confrontarci con questi. Il conflitto attuale tra Russia e Ucraina è un fenomeno semplice: la Russia è l’aggressore, l’Ucraina è l’aggredita. Un omicidio è un fenomeno semplice dal punto di vista istituzionale e giudiziario, mentre (in genere) è un fenomeno complesso da un punto di vista psicologico e sociale.

La complessità diventa un filtro importante per un salto di qualità sia nella conoscenza sia nella vita personale: di questo parlerò nell’ultimo capitolo.