G – GUERRA
Uno degli slogan maggiormente usati nell’ambito del politicamente corretto è “PACE”, accompagnato o no dalla bandiera arcobaleno; d’altra parte, è comprensibile proprio perché esso si presenta non come qualcosa di scientifico o di politico, ma come un movimento che è caratterizzato dalla Superiorità Morale. Come abbiamo visto finora, esso rappresenta la voce del Bene e cosa c’è di più buono, grande e importante della Pace? Dunque, pace, pace, pace: tutti i conflitti trovano la loro soluzione all’interno del politicamente corretto, di cui è sufficiente seguire i propositi.
Purtroppo, il problema non è così semplice. Ancora una volta il politicamente corretto mostra la difficoltà a fare i conti con la realtà, sostituita sempre da valori e da principi intoccabili, che richiederebbero una realtà diversa da quella che storicamente viviamo.
Vediamo quale insegnamento può offrire l’origine della parola e la sua diffusione.
Pace è legata al latino pac-tum, patto che si fa dopo essersi combattuti. Guerra in latino era bellum (v. duellum), uno scontro ordinato, geometrico, euclideo, mentre la parola guerra è di origine barbara (v. war inglese) che vuol dire zuffa, indicando il diverso modo di combattere.
Ai pacifisti nostrani che inventano un mondo primitivo completamente pacifico contrapposto a un mondo moderno dominato dalla guerra occorre far notare una semplice cosa. Chiedete: cosa è la guerra? La risposta è semplice: scontro armato tra fazioni, popoli o paesi. Ebbene, ora chiedete: cosa è la pace? La risposta è sempre semplice: la fine della guerra.
Non bisogna essere persone di grande cultura: prima viene la guerra e poi la pace.
La PACE non è un presupposto, ma una faticosa conquista, che può richiedere anche interventi militari.
Molti professori e divulgatori hanno affrontato le tematiche storiche in modo moralistico, per cui la guerra è male e la pace è bene. Essendo poi rimasti, a livello metodologico, fermi a una visione semplicistica, causa-effetto, le guerre sono sempre presentate come semplice effetto di qualche “cattivo”. Nessuna analisi critica.
Se gli effetti drammatici di questa impostazione sono visibili in alcune Università soprattutto del mondo anglosassone con la così detta “cancel culture” è la televisione il mezzo di maggiore diffusione di questi luoghi comuni. Di recente la giornalista, sedicente storica, Bettany Hughes ha raccontato “Gli otto giorni che fecero Roma” visibile su diversi canali. È un esempio di anacronismo e moralismo. È una denuncia della violenza romana fatta a disprezzo della vita umana, un quadro di massacri e carneficine, di povertà e fatica contrapposte al lusso dei ricchi. È un continuo dichiarare il bene contro il male, il povero contro il ricco, lo schiavo contro il padrone. Nessuna contestualizzazione, come se nella storia passata i cattivi-violenti-carnefici fossero stati solo i Romani. Ciò che era comune a tutti i popoli (dai Persiani ai Cartaginesi, inclusi i democratici greci) diventa esclusiva caratteristica romana. Addirittura, la rivolta di Spartacus e degli schiavi è presentata come naturale sbocco dell’aspirazione universale dell’essere umano alla libertà.
L’operazione a cui assistiamo è legata alla difficoltà che le persone incontrano a gestire fenomeni complessi, risultando molto più facile manifestare frasi che sono solo slogan. Non si tratta dunque di cristallizzare le parole, ma di coglierne la dinamica, cioè la loro complessità. L’evoluzione storica riguarda anche le parole e, come sappiamo, una adeguata evoluzione (nella storia delle società e nell’uso delle parole) avviene solo se si privilegia la continuità rispetto alla rottura. “Le possibilità dipendono dai vincoli”, come scrive Mauro Ceruti).
L’anacronismo e il moralismo non hanno riguardato solo i mass media, ma più pesantemente la scuola, in particolare le superiori, dove si è assistito da alcuni decenni a una litania contro la guerra di cui si metteva in evidenza il dolore e la sofferenza che arrecava. Non si cercava di sbrogliare la matassa degli eventi e delle relazioni che hanno caratterizzato la Storia, ma ci si limitava a mostrare gli orrori della guerra: alla ricerca dei colpevoli e non dei flussi. E, guarda caso, in genere i colpevoli erano sempre i soliti: il capitalismo (riprendendo la tradizione leninista), il colonialismo che costringeva i popoli alla rivoluzione, il nazismo, mentre il comunismo era sempre presentato come portatore di libertà e le guerre che lo coinvolgevano erano appena appena citate.
Poiché il moralismo è un’attitudine religiosa e ideologica, prima si partiva dall’atto di fede e su quello si ricostruiva l’analisi (se così si può chiamare) storica. Questo tipo di “educazione” (chiamiamolo così) non ha solo privato gli studenti di due generazioni di sostanziali elementi conoscitivi, ma li ha privati di ogni difesa di fronte alla Storia che non ha mai dimenticato di essere sè stessa.
Questi aspetti li ho verificati sul campo in quanto professore di storia per tanti anni.
Di fatto ne troviamo conferma proprio in questi giorni di fronte all’aggressione russa all’Ucraina e al massacro perpetrato da Hamas contro gli Israeliani: molti sono i distinguo e i “sì, ma”, soprattutto però ciò che colpisce è la richiesta di “Pace subito” come se non si capisse che gli aggressori si sentirebbero rafforzati da una pace che ne riconoscesse gli eventi. Era già successo nel 1938 a Monaco con le concessioni fatte alla Germania Nazista.
E’ facile immaginare cosa sarebbe successo se nel 1943 la resistenza al nazismo avesse accettato il messaggio che circola oggi: Pace subito.
Ciò che ha impedito la formazione etica e culturale di due generazioni è stato proprio il sostituire lo studio dei flussi storici con lo slogan moralistico che aveva al centro “la Pace”. E questo è avvenuto anche perché l’Occidente, e soprattutto l’Europa, hanno vissuto decenni di pace, le famose “Trente glorieuses”, vissute nella più completa sindrome bipolare. Non c’è dubbio che quei decenni erano il frutto dello sviluppo economico e del benessere forniti dalla società capitalistica e liberaldemocratica, dove perfino il millenario conflitto tra francesi e tedeschi si era dissolto al punto da cancellare le frontiere. In compenso però nelle scuole si insegnavano le colpe del capitalismo, del suo passato coloniale, dello sfruttamento generalizzato arrivando a sostenere da parte di intellettuali di grande calibro come Sartre quelli che sono stati i crimini della Rivoluzione Culturale maoista e del khmer Pol Pot.
Si recita, all’inizio di ogni anno scolastico: studiare la storia per imparare dal passato.
Si dice ma non si fa, mentre il tentativo di presentare una storia oggettiva ha impedito un’acquisizione che dovrebbe essere fondamentale: non tutte le culture sono eguali e lo studio dei flussi storici non è la stessa cosa dell’osservazione naturalistica di una rosa. Un sistema liberaldemocratico, una società aperta, uno Stato di diritto non sono la stessa cosa di un regime dittatoriale, senza pubblica opinione, senza partiti, senza separazione dei poteri.
Come in campo scientifico si è scoperto che l’osservatore ha un ruolo e che non esiste analisi oggettiva, così nella riflessione sulla storia, siamo protagonisti. Ciò che manca in tal senso è proprio il riferimento con cui porsi di fronte agli eventi e l’unica pietra miliare del nostro giudizio è il sistema liberaldemocratico, una società aperta, uno Stato di diritto.
Qui di seguito passaggi di un articolo apparso sul Corriere che sposta sul piano politico i risultati di 50 anni di educazione e insegnamento della Storia proposti nelle scuole italiane, licei compresi. L’articolo del Professore è il frutto di un’osservazione che tutti siamo in grado di fare e, se il mondo adulto, quello delle responsabilità politiche, continua a nascondere il carattere conflittuale della Storia sciacquandosi la bocca con la parola “pace”, più pulita e più gradevole, vuol dire che è stato formato così. La responsabilità della scuola si rivela di conseguenza ancor più stringente.
“L’EUROPA, LA SICUREZZA E I TABÙ SULLE ARMI
di Ernesto Galli della Loggia| 22 ottobre 2023
Ma perché è un silenzio che parla di un’impotenza, dell’impotenza di noi europei.
Lo so che per la maggioranza della nostra opinione pubblica il tema è un tabù, ma non vale girarci attorno. Quel silenzio ha la sostanza amara della resa. Esso testimonia del fatto che ormai in questa parte dell’Occidente non riusciamo neppure più ad immaginare che in una qualunque circostanza, per un qualunque svolgersi degli eventi, possa esserci la necessità di un ricorso alle armi. Un ricorso alle armi vero, intendo, quello in cui si combatte per la vita o per la morte. O forse per qualcosa di ancora più importante: per non perdere la propria dignità, per continuare ad essere se stessi, a contare qualcosa.
È il tabù della guerra, l’illusione della pace perpetua che le opinioni pubbliche europee hanno potuto nutrire per mezzo secolo essendo riparate ben al sicuro sotto la protezione dell’arsenale atomico americano, addirittura prendendosi il lusso di organizzare periodiche dimostrazioni di protesta contro lo stesso. Naturalmente in nome della «pace». È il tabù della guerra, il rifiuto delle armi mentre ogni giorno cresce intorno a noi il numero dei Paesi che sembrano puntare tutto sul ricorso ad esse. Quel tabù che fa sì che da sempre nell’arena mondiale noi europei contiamo poco o nulla, non abbiamo nessuna voce in capitolo, nessuna politica estera. Sicché oggi ad esempio l’Ucraina stessa, a cui pure qualche aiuto militare lo stiamo dando, tuttavia sa bene che sul nostro sostegno non si può fare alcun affidamento, che solo gli Stati Uniti e la Gran Bretagna al dunque sono realmente al suo fianco.
Il silenzio di tanti nostri politici e di tanti nostri commentatori riguardo la risposta appropriata che, secondo loro, Israele dovrebbe dare all’attacco di Hamas è null’altro che il silenzio di chi è ormai così estraneo innanzi tutto psicologicamente alla dimensione del pericolo e della minaccia, e del conseguente eventuale scontro militare, che letteralmente non sa che cosa dire. Che non riesce neppure a immaginare che cosa davvero in certe circostanze possa e debba farsi o non farsi. È il silenzio dell’Europa, il silenzio del nulla.