In questo capitolo non intendo parlare della religione in sé ma del credente mussulmano, la persona che ha fede nell’Islam crede in Allah e riconosce Maometto come suo profeta. Naturalmente non è possibile parlare del credente senza fare riferimento alla fede, ma qui il punto di vista che apre la prospettiva è quello della persona.
La religione mussulmana è una religione monoteistica ed è la seconda per numero di fedeli, circa 2 miliardi di persone. Essa è partita dall’Arabia e da qui si è diffusa in Africa, Medio Oriente, Asia centrale, Indonesia, mentre in Europa ha dominato nel sud per poco tempo prima di essere respinta in Africa. Con lo sviluppo dell’economia mondiale e soprattutto con la globalizzazione una discreta presenza la troviamo in tutto il mondo.
Chi dice che tutti i mussulmani sono terroristi offre agli oppositori una via di fuga per non affrontare il problema. È naturale, vero, corretto, reale che “non tutti i mussulmani sono terroristi”. Detto questo possiamo entrare nell’argomento che sottintende questo falso scontro: essere mussulmani può favorire il terrorismo? Citerò due esempi importanti per dire che ci sono persone importanti che sono mussulmane e che non solo non favoriscono il terrorismo ma che lo combattono.
Il primo è il sindaco di Londra, Sadiq Khan, di origini pachistane che guida una delle città più importanti del mondo.
Il secondo svolge un ruolo ancora più importante perché guida una comunità mussulmana a Drancy in Francia; si tratta dell’imam franco-tunisino Hassen Chalghoumi, che cambia spesso casa e deve indossare un giubbotto antiproiettile durante la preghiera. Sulla sua testa è stata messa una taglia dai terroristi: 150 mila euro. Quando Chalghoumi ha sostenuto la legge che vietava il burqa in pubblico, gli islamisti hanno preso d’assedio la sua moschea. Uno degli islamisti ha esclamato: “Aiqtalah, aiqtala! Uccidiamolo! Uccidiamolo!”. L’imam viaggia con sei poliziotti e si muove in un veicolo blindato. Nel 2020 una nuova fatwa trasmessa dallo Stato islamico: “Giustiziatelo! È più disgustoso dei miscredenti
“Non è possibile fare il 7 ottobre in nome dell’islam”, dice Chalghoumi. “L’islam vieta di uccidere i civili, hanno ucciso bambini, neonati, bruciato, decapitato, tagliato teste, l’islam vieta di trattare i corpi in questo modo, è vietato prendere in ostaggio civili, bruciare alberi, bruciare case, distruggere, è la peggiore ferocia”. Chalghoumi sferza il silenzio dei correligionari. “Il silenzio delle organizzazioni musulmane d’Europa? Le organizzazioni dei Fratelli musulmani sono aggressive. Hanno superato anche Hamas negli slogan, è orribile. Cantano ‘ebrei ebrei tremate, l’esercito di Maometto sta tornando’. Slogan antisemiti, di odio”.
L’imam di Drancy mette in guardia il vecchio continente. “L’Europa è in pericolo, corre lo stesso rischio di Sderot e Ashkelon, del Bataclan”, conclude Chalghoumi al Foglio. “L’Europa corre un rischio enorme. Gli europei sono in crisi, gli dobbiamo la libertà. L’Europa è finita, mi scusi, ma questa è una verità. Gli ebrei d’Europa sono attaccati, devono nascondere la kippah, la mezuzah dalle porte. Dopo questo pogrom, questo massacro, questa Shoah, l’Europa non può sostenere queste organizzazioni terroristiche in nome della causa palestinese. L’Europa deve vietare l’islam politico”.
Le voci musulmane di condanna della barbarie, senza infingimenti, senza ma e senza distinguo, sono poche e si contano sulle dita di una mano. Sul Monde, il filosofo musulmano Abdennour Bidar chiede “parole chiare, forti, responsabili e coraggiose da parte dei rappresentanti della comunità musulmana di Francia. Tacere sarebbe imperdonabile”. Ma è sull’Express francese che una serie di personalità musulmane firma l’unico appello a difesa di Israele. Ci sono nomi di peso, come l’imam Hassan Chalghoumi e lo scrittore algerino Boualem Sansal, ma anche la psicoanalista Sonya Zadig e la belga Fadila Maaroufi (G. Meotti, Il foglio 14.11.2023).
Per completare il quadro la Grande Università del Cairo, Al Azhar, e l’Unione studenti mussulmani di Doha hanno lanciato una Fatwa: “Non esistono civili israeliani, sono tutti obbiettivi”.
Viviamo in società aperte con istituzioni liberaldemocratiche, tanto che nella vituperata, ma democratica, Israele potevano esprimere la propria voce persino Hezbollah e Al Jazeera e dunque tendiamo a garantire a tutti il diritto di parola. Detto questo le rare voci di dissenso all’interno del mondo mussulmano mostrano quale è il nodo della questione, un nodo difficile da tagliare, ma con cui dobbiamo fare i conti e da affrontare senza ipocrisie, lasciando da parte il suicidio buonista e la condanna a priori.
È comprensibile la diffidenza di moltissime persone nei confronti di chi pratica la fede mussulmana, nonostante i giornali lascino credere che l’atteggiamento comune e migliore sia quello dell’integrazione. Purtroppo, non esiste integrazione e il ridottissimo numero di mussulmani che si schierano contro la barbarie estremista dimostra con chiarezza questa mancanza.
Si può discutere all’infinito se il terrorismo islamista sia coerente con il libro sacro dei mussulmani, il Corano, il fatto che non può essere trascurato è che gli attentati che hanno sconvolto il mondo, dall’Argentina agli Stati Uniti, dalla Spagna alla Francia all’Inghilterra alla Germania, dalla Nigeria all’Egitto alla Somalia, da Israele all’Irak all’India all’Indonesia alle Filippine sono stati fatti da persone riunite in organizzazioni mussulmane che si sono mosse al grido di Allah U Akhbar (Allah è grande). Per non parlare della completa mancanza di libertà che si registra in quasi tutti i paesi mussulmani.
Di fronte a un attacco generalizzato all’Occidente e ai Paesi democratici da parte del mondo mussulmano, come Occidente dobbiamo affrontare il tema non solo del terrorismo, ma anche di cosa significhi la presenza dei milioni di mussulmani che vivono in Occidente, perché molto spesso è tra quelle masse che si creano simpatizzanti e nuove reclute.
Se analizziamo con attenzione vediamo che, indipendentemente dalla vicinanza o meno al radicalismo, nelle famiglie mussulmane ritroviamo alcuni elementi che non possono essere nascosti.
Il primo elemento è il senso di comunità religiosa che identifica queste famiglie, nel senso che prima di tutto si sentono mussulmani e non francesi, inglesi o semplicemente cittadini. In questo contesto è facile, indipendentemente dall’intenzione originaria, passare dalla professione della fede al supporto del terrorismo richiamato in termini religiosi.
Il secondo elemento è il fatto che questa comunità religiosa pretende il riconoscimento del potere assoluto della figura maschile e la totale emarginazione della donna. Si crea quindi un collante che unisce la famiglia e le famiglie tra di loro intorno al potere assoluto del maschio, che impone le regole e i valori che tengono unita la comunità religiosa. La Moschea in questo senso raramente è un luogo di preghiera, ma normalmente diventa il luogo dove si continua a veicolare quello spirito con cui i maschi sono cresciuti, lo si rafforza e lo si diffonde.
Potremmo parlare della religione che nel nome stesso, Islam vuol dire sottomissione, nasce e si caratterizza per la subordinazione assoluta ai poteri che la incarnano. Potremmo parlare del fatto che è l’unica religione al mondo impegnata, in una sua significativa componente, a combattere le altre religioni, in primis l’ebraismo, poi il cristianesimo, ma anche l’Induismo. Potremmo parlare degli Stati mussulmani dove, anche se a comandare non è la legge coranica, la Sharia, esiste una grande difficoltà per cristiani ed ebrei a condurre una vita normale. Nei Paesi mussulmani è l’Autorità religiosa quella che rappresenta sempre e comunque il punto di riferimento.
Potremmo parlare di questi ed altri aspetti di carattere più teorico, ma qui ho parlato di due aspetti fondamentali che sono facilmente leggibili nella vita quotidiana delle famiglie mussulmane e che devono farci riflettere sulla difficoltà di convivenza e sulla necessità di avere un approccio più realistico con quelle comunità.
Non può essere sottovalutato ciò che è successo in Italia a quattro ragazze mussulmane, Hina, Sanaa, Sana e Saman uccise dai parenti perché non volevano sottostare agli usi e dunque agli ordini della tradizione religiosa, perché cercavano di realizzare una vita secondo le proprie scelte in nome di quella libertà che avevano imparato ad amare da noi. Questi episodi si sono realizzati anche in altri paesi, mentre fenomeni di aggressione a donne per violenza sessuale hanno assunto caratteristiche di massa come è successo a Colonia il giorno di Capodanno del 2016 mostrando una base culturale precisa. In questi giorni la difficoltà di integrazione è emersa sia in Italia dove una professoressa di origini libanesi ha elogiato Hitler per lo sterminio degli ebrei sia in Germania dove una profuga palestinese tale Reem, che aveva commosso anche la Merkel appena arrivata, ha pubblicato immagini inneggiando alla scomparsa di Israele.
Con la fine della Guerra dei Trenta Anni nel 1648 in Occidente sono finiti i conflitti interreligiosi; con la fine della Seconda Guerra Mondiale sono finiti i conflitti tra nazioni per il dominio. Il percorso iniziato nel Medioevo per la separazione tra Stato e Chiesa e per il riconoscimento delle libertà individuali è arrivato al suo punto più alto nel riconoscimento dell’individuo in quanto tale (vedi tutte le Costituzioni moderne) che ha favorito l’accoglienza di molte persone provenienti da aree geografiche e culturali molto diverse.
Nel mondo mussulmano questa separazione tra Stato e Chiesa non si è compiuta, anzi i conflitti religiosi all’interno della grande comunità religiosa islamica continuano fino ad oggi. Le due grandi confessioni, quella sunnita e quella sciita si sono confrontati in una guerra sanguinosa tra Irak e Iran, mentre il tentativo dell’Iran sciita di destabilizzare la regione in maggior parte sunnita non si è mai interrotto in Siria, in Libano, in Irak e in Yemen.
Gli ultimi mille anni hanno creato istituzioni sempre più libere e aperte, ma hanno anche formato individui che nella generalità hanno sempre più goduto di quelle libertà e insieme hanno imparato a rispettarle: il processo non è né definito né completo né perfetto, ma la realizzazione è sotto gli occhi di tutti.
I migranti hanno risposto in maniere diverse: le comunità asiatiche (indiane, cinesi, coreane) non hanno avuto problemi nella globalità, senza rinunciare alla propria cultura; le comunità mussulmane invece riportano nei paesi che li accolgono tutta integra la loro cultura che, essendo fondata sulla dimensione religiosa, risulta intoccabile.
Ed è questo aspetto che rende problematica, ma non impossibile, la convivenza. Le ragazze e le donne mussulmane sono quelle che maggiormente mostrano l’esigenza di rompere non con la religione ma con la schiavitù imposta dai padri, fratelli, mariti: ed è per questo che è soprattutto contro di esse che si esercita il potere della cultura di origine. Nei confronti invece delle ragazze e delle donne non mussulmane quei padri, quei fratelli, quei mariti si sentono liberi di esercitare il proprio potere a tutti i livelli sia perché è così che sono stati educati sia perché si sono creati una falsa immagine della donna occidentale.
Il discorso di Papa Benedetto XVI a Ratisbona il 12 settembre 2006 su Fede e Ragione mette in chiaro il tema fondamentale di cui sono intrise la cultura occidentale e la cultura mussulmana. La violenta reazione che a quel discorso molto pacato ci fu da parte del mondo mussulmano dimostra come difficile sia il dialogo e dunque la convivenza. Per noi fede e ragione operano insieme (Gesù è uomo e Dio), per i mussulmani la ragione dipende dalla Fede (Maometto è servo di Allah).
“La convinzione che agire contro la ragione sia in contraddizione con la natura di Dio è soltanto un pensiero greco o vale sempre e per se stesso? Io penso che in questo punto si manifesti la profonda concordanza tra ciò che è greco nel senso migliore e ciò che è fede in Dio sul fondamento della Bibbia. Modificando il primo versetto del Libro della Genesi, il primo versetto dell’intera Sacra Scrittura, Giovanni ha iniziato il prologo del suo Vangelo con le parole: “In principio era il λόγος“. È questa proprio la stessa parola che usa l’imperatore: Dio agisce „σὺν λόγω“, con logos. Logos significa insieme ragione e parola – una ragione che è creatrice e capace di comunicarsi ma, appunto, come ragione.
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Certamente ci sono elementi nel processo formativo della Chiesa antica che non devono essere integrati in tutte le culture. Ma le decisioni di fondo che, appunto, riguardano il rapporto della fede con la ricerca della ragione umana, queste decisioni di fondo fanno parte della fede stessa e ne sono gli sviluppi, conformi alla sua natura.
L’occidente, da molto tempo, è minacciato da questa avversione contro gli interrogativi fondamentali della sua ragione, e così potrebbe subire solo un grande danno. Il coraggio di aprirsi all’ampiezza della ragione, non il rifiuto della sua grandezza – è questo il programma con cui una teologia impegnata nella riflessione sulla fede biblica, entra nella disputa del tempo presente. “Non agire secondo ragione, non agire con il logos, è contrario alla natura di Dio”, ha detto Manuele II nel 1391* (dotto imperatore bizantino Manuele II Paleologo), partendo dalla sua immagine cristiana di Dio, all’interlocutore persiano. È a questo grande logos, a questa vastità della ragione, che invitiamo nel dialogo delle culture i nostri interlocutori. Ritrovarla noi stessi sempre di nuovo, è il grande compito dell’università.”
*La riflessione dell’Imperatore era sulla relazione tra le tre “Leggi” o tre “ordini di vita”: Antico Testamento – Nuovo Testamento – Corano.