La parola “pena-punire” risale alla radice pu- che ritroviamo in “puro” e quindi vuol dire “rendere puro” come il sinonimo “castigo-castigare” richiama la parola “casto” e dunque significa anch’essa “rendere casto, puro”.

Si tratta di una parola impegnativa perché coinvolge un insieme di altre parole che ci aiutano a comprendere meglio ciò di cui stiamo parlando, come colpa, responsabilità, tolleranza, errore e simili.

Quando diciamo che il mondo, le società, la realtà sono diventate più complesse dobbiamo capire anche che noi stessi siamo diventati più complessi; ma non possiamo limitarci a questo perché dobbiamo vedere anche ciò che ci sta dietro, ciò da cui veniamo e individuare i vari passaggi che ci hanno portato a questa nuova dimensione. Spesso mi capita di richiamare quanto scrisse Stoppard in Arcadia per mettere in luce il concetto di complessità: le montagne non sono piramidi. Eppure, un tempo esse erano considerate come delle piramidi e tali le vedevamo; fu grazie a questo che fu possibile creare una geometria che funzionava nel tentativo di rappresentare la realtà nella quale eravamo inseriti. Possiamo chiamare quel periodo “semplice” o, più correttamente, “meno complesso”.

Ricordo che questi termini, semplice e complesso, non indicano né preferenze né giudizi morali, essi implicano una realtà dove i soggetti presenti e i loro legami sono minori e di minore intensità. Una relazione tra due corpi è semplice, mentre la relazione che si stabilisce tra tre corpi lo è molto meno: basterebbe chiedere al fisico Poincaré che non seppe darsi pace su ciò alla fine del 1800.

È di facile comprensione il fatto che anche nella vita sociale la presenza di due elementi è, per la sua maggiore semplicità, il primo stadio su cui i nostri antenati si sono soffermati. Questi due elementi dovevano essere antitetici perché li si potesse avvicinare e dispiegare meglio. Si comincia dunque con Verità ed Errore che si traducono facilmente nella vita sociale in Correttezza e Colpa.

Nei tempi antichi e in qualsiasi luogo presso le varie popolazioni conosciute si pretendeva il rispetto di alcune norme che solo dopo alcuni tentativi divennero delle leggi scritte. Dalle norme alle leggi il passo non fu breve, perché si dovette riconoscere che l’autorità, il potere si assumeva un impegno; potevano anche disattenderlo, ma la creazione di leggi scritte richiese un affinamento del modo di convivere e di mantenere unito il corpo sociale. Non c’era molta differenza tra l’esigenza di mantenere saldo il potere e mantenere salda la convivenza sociale. Il tuo comportamento deve essere corretto, rispettoso delle norme e se ciò non avviene è la legge stessa che stabilisce il carattere della tua colpa, una colpa che può essere riparata, purificata, attraverso la punizione. Quello che a noi oggi pare un comportamento disumano per i nostri antenati era invece una pratica umana, voluta dagli uomini (talvolta in nome di un ente superiore, Dio) nell’interesse della società umana.

La tortura era una pratica comune e nessuno (o quasi) storceva la bocca: occorreva un salto abbastanza grosso per cominciare a mettere in discussione un certo modo, violento, di procedere. Questo salto doveva riguardare la conoscenza e l’atteggiamento spirituale: senza questo salto sarebbe stato impossibile procedere a una revisione del sistema dei delitti e delle pene a cui si erano abituati gli uomini antichi, un po’ per semplicità un po’ per istinto difensivo. La prima cosa che i popoli primitivi avevano imparato era l’esistenza di gruppi con interessi simili (es. procurarsi il cibo) con cui non era possibile mettersi d’accordo: difesa e attacco divennero subito una necessità così come nutrirsi.

Il mondo era popolato di popoli così come di nemici.

Queste sono le nostre radici.

Il mondo greco preparò quel salto, ma fu il Cristianesimo a realizzarlo. Per la prima volta si parlò in termini non generici di amore e perdono; non fu qualche illuminato isolato e folgorato, ma un gruppo di persone che andò diffondendosi in maniera rapida e ampia. Il salto era stato compiuto.

Se non riusciamo a vedere la storia dell’uomo come una serie di flussi, caratterizzati da quel modello evolutivo che trova oggi quasi tutti d’accordo, ebbene saremo sempre in balia di un presente tiranno, emotivo, superficiale, illusorio. Non è qui che dobbiamo discutere quante guerre di religione ci siano state nell’ambito del Cristianesimo né quanto poco amore e poco perdono si sia registrato in quell’ambito; ciò che deve interessare è che quel messaggio di “amore e perdono” non è rimasto una “vox clamans in deserto” ma ha saputo formare e conformare, senza mai interrompersi, le varie generazioni nel corso dei secoli.

L’importanza della persona, il libero arbitrio, le possibilità di sviluppare e migliorare l’uomo (Gesù è Dio ma anche uomo) hanno permesso la nascita di libere istituzioni, dello Stato di diritto, dell’inviolabilità della persona e tutto ciò che caratterizza le società aperte, le istituzioni liberaldemocratiche, l’Occidente nel suo complesso. A proposito di pene come non ricordare il saggio di Beccaria “Dei delitti e delle pene” che rappresenta una sintesi importante, sociale civile giuridica, di quanto sviluppato fino ad allora. Le società occidentali, seppur in maniera non lineare e anche contraddittoria, hanno proseguito nel percorso avviato dal Cristianesimo. Senza rinnegare gerarchie e autorità si sono costruiti modelli che cercavano di stabilire un equilibrio tra le colpe e le punizioni, tra i diritti e i doveri, in modo tale che, nel salvaguardare l’interesse complessivo della società, non ci fosse il predominio dell’autorità, del potere, del dovere come era sempre stata la pratica dei regimi assolutisti.

Tutto questo si è realizzato attraverso scontri, convinzioni, discussioni, approfondimenti, in modo tale da investire anche quei settori un tempo neanche minimamente scalfiti dal problema.

Cosa c’entra il “politicamente corretto” con tutto ciò? Non poco. Esso ha cercato e cerca di rompere quell’equilibrio, storico e culturale, che si era creato nel corso dei secoli e in particolare negli ultimi 50 anni. Ciò è successo mettendo in discussione alcuni concetti che sono costitutivi della coesione di una società.

Eredi del pensiero rousseauiano per cui “l’uomo nasce buono, ma è la società che lo rende cattivo”, esempio da manuale di ciò che è ideologia, anacronismo e moralismo, hanno cominciato con “Nessuno tocchi Caino”, che mette in discussione il principio di colpevolezza e riduce la pena a qualcosa di inutilmente vessatorio. Lentamente si è cominciato a rompere l’equilibrio tra diritti e doveri, equilibrio che stabiliva un bilanciamento tra i due, mentre lo spazio occupato dai diritti è diventato quasi assoluto. Diritto al lavoro, diritto allo studio, diritto alla salute, diritto al successo scolastico, diritto alla pace, diritto al benessere, diritto alla felicità: da aspirazioni legittime (è giusto che ognuno aspiri a essere felice) si sono trasformate in richieste normative, cioè pratiche, che hanno conformato un numero sempre maggiore di persone.

Naturalmente questa deriva è avvenuta in Occidente, perché abituato alla discussione, mentre in altri continenti tutto è continuato come prima e dobbiamo considerarci fortunati se là troviamo parvenze di società aperte in cui regna l’equilibrio diritti-doveri.

In Occidente il “politicamente corretto” esaltando i diritti rispetto ai doveri ha messo in discussione la pena, trasformando la punizione in un atto non più doveroso ma negativo, diseducativo: la punizione è diventata così essa stessa “colpevole” di non risolvere i problemi connessi ai reati. I colpevoli, anche in fragrante, sono diventati “presunti” e guai a chi tralascia questo aggettivo; ogni colpa, reato, delinquere viene trasformato in “errore” semplicemente da correggere. Ogni colpa o reato o delinquere ha le sue spiegazioni e dunque le sue giustificazioni: infanzia triste e dolorosa, bullismo o violenza subiti, famiglie disfunzionali, stato di povertà, origine etnica e culturale.

Nota di cronaca. Il mostro di Milwaukee, Jeffrey Dahmer: esperti e professionisti cercavano di trovare le cause del suo comportamento, ricorrendo alla solita litania sociologica (l’infanzia, la famiglia, il quartiere, il lavoro…), mentre lui rimanendo impassibile rispondeva che non c’erano scuse, cioè motivazioni, da ricercare fuori dalla sua persona. Da allora, era il 1992, la deriva è proseguita e si è consolidata. Non si tratta della pena di morte, si parla di un atteggiamento che alcuni chiamano “buonista”, ma che è semplicemente stupido.

La scuola ha smesso di punire e questa parola è diventata di per sé violenza. Esistono leggi per cui non si può fumare nel recinto del plesso scolastico, esistono norme che attribuiscono voti da 1 a 10 ma guai a scendere sotto il 4, mentre risulta quasi impossibile sospendere o espellere uno studente violento. Nei tribunali vengono liberate persone anche in flagranza di reato e la polizia, per definizione garante dell’ordine pubblico, viene subito criticata se alza il manganello per garantire l’ordine pubblico.

Con la pretesa di rieducare il condannato, pene per delitti anche atroci risultano annacquate dalla buona condotta, dalla convinzione religiosa della redenzione e nessuno studia i casi di reiterazione del reato. L’esempio della California è divenuto da manuale, ma succede ovunque in Occidente: tolta la pena di morte, si parla di ergastolo che in realtà (vedi Inghilterra) non supera i 25 anni e poi, con le varie scusanti ed eccezioni, si riduce ulteriormente. La legittima difesa ha cessato di essere legittima quando è stato creato il reato di “eccesso colposo di legittima difesa”. Quando si pone l’accento sui diritti e si trascura di citare congiuntamente anche i doveri si prepara la caduta nell’abisso. Chi pretende il rispetto dei doveri, visto che di diritti non siamo carenti, è subito infamato di essere forcaiolo, stuzzicando la natura puramente repressiva dell’animo umano. Non è un caso che i Romani dicessero “In medio stat virtus” e che simbolo della giustizia sia la bilancia, ma di tutto ciò si cerca di cancellare ogni traccia.

Il termine “punitivo”, nato in ambito militare per indicare un atteggiamento che va al di là delle necessità operative in campo aperto, è divenuto moneta corrente per tutti coloro che richiedono il rispetto della giustizia anche quando può risultare pesante. La difficoltà dei docenti a far ripetere una classe ai suoi studenti fa riferimento a questo tessuto culturale e utilizza tutti i mezzi tecnici possibili: sei insufficienze diventano tre e poi a settembre si soprassiede alla pessima preparazione enfatizzando lo studio modesto di una delle tre materie.

Il rifiuto del merito, il rifiuto di giudicare attraverso decisioni anche pesanti fa sì che si stia attuando un percorso di diseducazione; ma ci si dimentica che anche la diseducazione è una forma di educazione, educazione alla ramanzina senza punizione. Ciò che avviene nella scuola si riverbera nella società, negli scontri tra tifoserie, nelle vendette giovanili, nella diffusa attività di borseggio, con la sicurezza che la punizione viene sostituita dal perdono.

Ecco che fine ha fatto il perdono cristiano. Da gesto spirituale che coinvolge i singoli individui si è passati a un perdono che fa dire ai genitori, ai docenti, ai giudici quanto siano buoni e in pace con la coscienza, mentre colui che viene perdonato incassa come un premio quella decisione.

Ciò che ancora una volta il “politicamente corretto” compie e che dobbiamo rifuggire è il moralismo, la cecità, il mescolare la dimensione istituzionale che ha il dovere di giudicare con l’ambito morale che dipende da valutazioni soggettive e culturali.

 P.S. Appendice sulla parola TOLLERANZA

La parola “tolleranza” oggi trova la vetrina delle prime pagine soprattutto grazie alla presenza dell’Islam e al fenomeno dell’immigrazione. Ne consegue che chi non si dichiara tollerante è necessariamente un razzista.

In gioco non è, come ormai si sarà capito, essere o non essere tolleranti. … così qui non si tratta di sostenere o combattere la tolleranza, ma di studiare in profondità la parola e la sua storia. Non è corretto impadronirsi di una parola, come tolleranza, darle una pittura di bontà in modo che solo essa occupi lo spazio obbligando alla scelta manichea e falsa tra tolleranza e intolleranza.

Voglio recuperare la storia e la dignità di questa parola perché con la sua ricchezza ci apra nuovi orizzonti.

Tolleranza è usata con il seguente senso: “Atteggiamento di apertura e rispetto verso idee, principi, opinioni…usanze e comportamenti diversi dai propri…” (Grande dizionario della lingua italiana-Utet). Con questo significato la parola è usata solo a partire dal XIX secolo ed è l’undicesimo significato, mentre i primi dieci vanno in una radicale altra direzione, che vedremo tra poco. Ma anche in questo undicesimo significato l’uso attuale risulta improprio, come gli esempi riportati ci fanno capire. Rosmini, prete e grande filosofo cristiano, dice che tolleranza esprime solo una condotta non una dottrina e include la riprovazione della dottrina oggetto della tolleranza.

Mazzini parla di tolleranza per gli individui, ma richiama alla più severa rigidità in fatto di princìpi.

Il filosofo Croce infine ricorda che tolleranza non significa la rinunzia alla difesa o all’offesa nell’affermazione di ciò in cui crediamo; e che purtroppo dietro tolleranza c’è indifferenza.

Torniamo dunque ai significati principali.

Il primo è “Virtù, capacità di restare fedele ai propri princìpi, alle proprie convinzioni, alla propria fede, di resistere al vizio, alle tentazioni, al peccato”. In questo senso la parola è stata usata fin dalle origini della lingua volgare italiana. Interessante è poi lo specifico significato n.7: “Atteggiamento passivo che, con il non opporsi agli atti o comportamenti che contrastano con un proprio diritto…e un proprio potere, di fatto consente la diffusione e la stabilizzazione di tali comportamenti”.

Riassumiamo. Compreso il significato 11.

1)La tolleranza è apertura mentale verso ciò che è diverso.

2)Tale apertura avviene rimanendo fedeli ai nostri principi, che vanno messi avanti in tutte le forme, difendendosi e attaccando.

3)Se non rispettiamo questi due aspetti fondamentali e decisivi soccombiamo, moriamo, perché ciò che tolleriamo, e in quanto tale non è nostro, si diffonderà, ci fagociterà e alla fine ci digerirà rafforzando il proprio organismo.

Tollerare deriva dal latino (radice di fero/tuli) e significa sopportare. Sopportiamo, anche volentieri, ciò di cui faremmo a meno, ma certamente non andiamo a cercare persone o situazioni che dovremo sopportare. Qualcuno dirà che è meglio sopportare che essere feriti, ma il sub-portare è già un sub-ire ed è dunque la strada per essere feriti. Si assiste poi alla contemporanea affermazione di frasi opposte: da un lato tolleranza e dall’altro “non rinunciare ai tuoi sogni”; da un lato tolleranza e dall’altro “né rimpianti né rimorsi”. Come è possibile che le persone che fanno tali affermazioni non si rendano conto dell’assurdità di tale convivenza?