Non esiste parola più usata e abusata di questa: un luogo comune grande quanto la Terra. Soprattutto perché cela nelle sue pieghe una quantità incommensurabile di sottintesi pesanti.
Sgombriamo il campo da un primo equivoco: come la scienza ha appurato alla fine del secolo scorso non esistono razze. Ciò non toglie che prima delle scoperte scientifiche, legate soprattutto alla genetica e ad altre contigue discipline, si credesse all’esistenza di razze separate nettamente. Oggi così si preferisce unificare il termine razzismo con un altro, meno impegnativo, quello di xenofobia. Esso permette una gestione più ampia e più moderna del senso sotteso, coinvolgendo etnie, popoli, gruppi sociali. Sembra che, non esistendo due individui identici, non abbia senso parlare di razze; invece sembra che abbia senso parlare di etnie, popoli o altro.
Insomma, cambia poco: se, giustamente, il conflitto tra razze non è concepibile, è però ammissibile il conflitto tra etnie, popoli, gruppi sociali. La cultura al posto della natura spiega e legittima il conflitto.
Il fatto che nel 1800 in Occidente si fosse creata una teoria che esaltava la razza bianca non significa che l’esaltazione di una razza o di un popolo sia esclusiva dell’Occidente e dei bianchi. È evidente che lo sviluppo del pensiero occidentale sia incomparabilmente superiore in quantità rispetto a tutti i pur rispettabilissimi contributi provenienti da tutte le parti del pianeta: tra i tanti difetti che caratterizzano l’Occidente il più evidente è senz’altro il discutere, pensare, teorizzare (sulla vita passata, su quella presente e sulle aspettative). È vero che l’Islam ha inventato l’algebra, ma poi tutto ritorna e finisce nel Corano. Più o meno lo stesso nel lontano Oriente con Confucio e Lao Tse, in India con il Mahabarata e il Bhagavad Gita o gli Upanishad.
Unito alla libertà di espressione tutto questo discutere occidentale ha portato a percorrere molte strade e in molte direzioni, tra queste anche De Gobineau che dette vita al filone del “razzismo scientifico”. Come sempre in occidente la discussione porta al confronto e questo permette di portare alla luce, spesso in tempi lunghi, quelle che sono le prospettive più adeguate al maggior numero di persone.
In questa ansia teorica che cerca di stare dietro alle sinapsi del cervello (un 10 con 13 zero) esistono fesserie vere e proprie, fake news, concetti aperti, concetti chiusi e tutte le tipologie possibili. Purtroppo, in questa vastità esistono anche i sensi di colpa che, se rimanessero afflizioni personali, non avrebbero peso, ma una volta esposti a livello di comunità sono estremamente deleteri: è il caso del razzismo. Si arriva così a prendere su di sé le colpe del mondo (ah! Cristo, Cristo!) nascondendo la verità storica e favorendo coloro che vogliono affermare la propria volontà di potenza e considerano la riflessione una cosa da ridere.
Prendiamo Wikipedia e la sua pagina “razzismo”, dove troviamo quanto appena detto.
Secondo Wikipedia il razzismo è nato con il Medioevo e la Chiesa nei confronti degli Ebrei e poi è continuato ad opera delle Nazioni Coloniali, solo quelle occidentali ovviamente. La pagina prosegue lungamente con riferimento ai Paesi Occidentali, soprattutto gli USA, ma anche altri Paesi Europei e l’Australia, con un riferimento al Giappone vista la sua occidentalizzazione. L’unico paese non europeo o legato all’Europa è il Ruanda, cui vengono dedicate quasi quattro righe che cominciano così “La presunta questione razziale”: il massacro di 2.000.000 di esseri umani (tra Hutu e Tutsi) in pochi mesi sarebbe “questione razziale presunta” perché da un punto di vista genetico -dice la pagina- i due gruppi sarebbero affini. Eppure, l’incipit era che “in senso scientifico (di scienza attuale) le razze umane non esistono”.
Innanzitutto, far originare il razzismo con il Cattolicesimo è una assurdità che solo il politicamente corretto può permettersi di fronte a un pubblico quotidianamente deprivato delle sue origini, della sua storia, del suo orgoglio.
Per quel poco che conosciamo della storia precristiana è difficile trovare un’affermazione più falsa e assurda di quella sopra riportata. Il fatto che in Occidente si sia discusso del razzismo per giungere a condannarlo non significa che altrove non esistesse: c’era ma non se ne parlava e tanto meno ci si rifletteva sopra. E questo probabilmente perché non lo si considerava un problema.
Non sta a me fare qui l’elenco di tutte le popolazioni degli altri continenti che non hanno discusso di razzismo ma lo hanno praticato e su larga scala. La cultura occidentale è l’unica che ha saputo (e ha avuto il coraggio) di discuterne per poi arrivare al suo rifiuto. Altrove lo si praticava e non se ne discuteva tant’è che la mancanza di riflessione fa sì che esso continui proprio fuori dai paesi di cultura occidentale.
Non sta a me fare qui quell’elenco. Basta ricordare cosa succedesse tra le popolazioni indigene del Sud-America o del Centro-America, comprese le più importanti come Inca, Maya e Aztechi. I pellerossa, i nativi americani (che però provenivano dall’Asia), tra loro erano tutt’altro che solidali e così le numerose etnie africane che ancor oggi si fronteggiano. E, come sempre, chi ha più potere, in termini di ricchezza, istituzioni e eserciti, ha sempre agito per sottomettere gli altri popoli. Talvolta succedeva che i più deboli, come le poleis greche, riuscivano ad avere la meglio sui giganti che li avevano attaccati. E chiamarono i persiani “barbari”, parola che oggi il politicamente corretto stigmatizza, ma che ha ragioni precise, in quanto indicava la differenza linguistica e quindi culturale (bar-bar era voce onomatopeica simile al nostro bla-bla).
Torniamo al razzismo. Qualcuno potrebbe dire che i soprusi persiani erano solo desiderio di conquista e che, non avendo teorizzazioni razziste, non possono essere definiti come razzisti.
I Persiani, come i Maya che giocavano a palla con la testa dei nemici, o i cinesi, i giapponesi, i sami che asportavano il cuio capelluto (lo scalpo) disprezzavano i popoli che volevano sottomettere. Come tutti dall’estremo Oriente al Medio Oriente attraverso l’India Vedica, gli Ottomani nei confronti degli Armeni e degli altri, gli Arabi un pò ovunque. Persino i greci e i romani riservavano un trattamento speciale agli stranieri, seppur non di violenza, e con i Romani che allargarono il diritto di cittadinanza in misura crescente.
La cultura, anzi la civiltà, occidentale è l’unica che ha saputo superare le ostilità che nascono dalle differenze attraverso l’affermazione dell’individuo; e lo ha fatto anche trasformando le proprie istituzioni. Non solo, ma quello che viene criticato dal politicamente corretto, e cioè il cosiddetto etnocentrismo, comune a tutte le civiltà, nel caso dell’Occidente ha permesso che esso si aprisse ai contributi che provenivano da fuori, un fuori anche molto lontano. L’apertura agli altri è possibile solo se riconosciamo i valori che ci caratterizzano: proprio l’opposto del relativismo culturale dominante che annacqua tutto nell’equidistanza.
Ciò che trovo irritante è l’esaltazione che viene fatta nelle scuole e nei media di un sottile e sotterraneo dilagante razzismo che pervade le popolazioni occidentali nei confronti delle migliaia di immigrati. Come se questo fosse il problema più importante oggigiorno. Si perde il senso della misura. Viviamo in una società liberaldemocratica che ha tra i suoi fondamenti il rifiuto di ogni forma di discriminazione etnica, dentro una cultura che -a ragione o a torto- è di tipo fortemente solidaristico, in cui la storia ci ha educati al rispetto degli altri. In tale contesto ci inventiamo il razzismo come pericolo, riportando quei pochi casi che hanno alla base uno spirito di intolleranza. Si tratta di un’ideologia che si ammanta di belle parole cercando di esportare un senso di colpa fuori dalla storia, producendo così risultati sempre più negativi.
E’ ciò che ho messo in evidenza fin dai primi capitoli: il politicamente corretto nega la storia e la sostituisce con la morale, per giunta una morale che è il prodotto della ricerca del mondo occidentale.
Un esempio. Nella scuola italiana sempre più multietnica, i ragazzi provenienti da certe aree geografiche (Balcani, Nordafrica e Africa subsahariana) ma non da altre (India, Ceylon, Cina) hanno preso al volo questa situazione di debolezza; così di fronte a rimproveri e voti negativi è sempre più frequente sentirli accusare i professori con l’epiteto “razzista”. Cosa fanno i professori? Invece di sanzionare quella che è a tutti gli effetti un’offesa, si giustificano spiegando che “no, loro non sono razzisti”.
E questo esempio è una buona chiave di lettura per leggere il fenomeno.
La cultura occidentale ha saputo aprirsi a tal punto da accettare al proprio interno contributi di altre culture, interrogando e interrogandosi, senza mai rifiutare il confronto e il dialogo, sapendosi far valere quando è stato necessario. Ma la cultura occidentale oggi soffre proprio per questa esuberanza di riflessione, per cui, essendo giunta al riconoscimento dell’individuo, ha prodotto anche una visione che, riconoscendo il valore dell’altro, nega se stesso. Come dice il proverbio: Chi pecora si fa il lupo se la mangia. Tanti segnali portano in questa direzione: le aperture della Chiesa a un mondo musulmano che punisce il passaggio a un’altra religione; le critiche negli USA al Columbus Day, perché Colombo è stato il primo imperialista; l’incapacità della scuola di porre al centro dell’educazione i valori della nostra civiltà, preferendo occuparsi dell’accoglienza degli altri; l’intolleranza accademica nei confronti di Israele, unico paese democratico in Medio Oriente; l’intolleranza accademica del politicamente corretto nei confronti di chi politicamente corretto non è. E si potrebbe continuare.
Vorrei concludere con due piccole riflessioni.
- Fare i conti con la storia della società umana significa anche accettare che persone possano non amare il prossimo, soprattutto se hanno ben poco in comune. Nel rispetto della diversità va rispettato anche chi ha paura del diverso o non lo ama, purché la cosa resti nell’ambito del pensiero. Lo Stato liberaldemocratico ha istituzioni per evitare tali discriminazioni; i tribunali sono preparati per condannare chi agisce contro chi volesse minare la libertà e l’integrità degli individui (uguali o diversi che siano);
- Il modo migliore perché il razzismo si diffonda e passi dal pensiero all’azione è proprio quello di nascondere le differenze profonde che esistono tra le diverse culture. Poiché la cultura occidentale non ha avuto problemi a interrogarsi sugli eventi storici che l’hanno vista protagonista, occorre non nascondere (aletheia, verità in greco significa “non nascondere”) gli eventi storici che hanno contraddistinto gli altri, i cui errori e i cui crimini devono venire alla luce ed essere discussi apertamente. Come è assurdo condannare in toto gli altri per alcuni (anche numerosi comportamenti) lo stesso vale (anzi, dovrebbe valere a maggior ragione) per ciò che riguarda noi, la nostra storia, la nostra cultura, la nostra appartenenza.
Come siamo capaci di riconoscere il gay-pride, sarebbe l’ora di diventare protagonisti del Western-Pride.
Le informazioni che seguono sono tratte dal libro di D. Murray, La pazzia delle folle.
Martin Luther King Jr. nel 1963 disse:” I have a dream…che i figli potessero vivere in una nazione in cui non saranno giudicati per il colore della pelle ma per quel che costituisce il loro carattere”. La color-blindness.
Le cose stanno andando diversamente.
Come dalla celebrazione delle donne si è passati alla denigrazione degli uomini, così nel campo degli studi afroamericani, nati per togliere lo stigma, si è passati ad attaccare le persone di diverso colore, i bianchi essenzialmente. Anche qui il nodo non è tanto nelle tesi in sé, quando rimangono in campo accademico, ma nel fluidificare e disperdersi tra la gente comune, che le tratta secondo i propri interessi e la propria capacità di comprensione. Avviene dunque che il suprematismo bianco, che è sempre esistito, pur rimanendo oggi in posizione residuale, abbia ripreso slancio di fronte a quegli attacchi. Questo è l’effetto che si ottiene ogni volta che si estremizzano delle posizioni, in un contesto democratico che aveva fatto enormi progressi nella convivenza.
Come per i preconcetti sessuali anche in questo campo si parla di “strutture invisibili che producono la supremazia e il privilegio dei bianchi” (Studi sulla bianchitudine in Research Encyclopedia Oxford University Press). Anche qui si propone una rieducazione molto simile agli orrori della rieducazione nei campi di lavoro maoisti o nei gulag russi, con la differenza che per ora siamo solo al livello della propaganda.
In alcune Università, soprattutto americane (Oympia, WA; Yale, CN; Claremont McKenna, CA), si assiste a una caccia alle streghe, cioè ai bianchi: catastrofizzazione, dichiarazioni che non hanno la minima attinenza con fatti dimostrabili, accampare pretese mettendo tutti sullo stesso piano, volgere le parole in violenza e la violenza in parole.
Come gli Armeni, i Kulaki, gli Ebrei, i Borghesi ora è la volta dei bianchi, che devono tacere perché sono bianchi: “Diversità di pensiero non è altro che un eufemismo per supremazia bianca” (Michael Harriot, The root, 2018).
E’ il trionfo dell’anacronismo e del moralismo e il peggio è che autorevoli giornali e intellettuali stanno al gioco chiedendo scusa e sentendosi in colpa, in colpa per eventi che risalgono ai secoli scorsi. È il caso addirittura di National Geographic (Per decenni i nostri servizi sono stati razzisti, 2018) e dell’abolizione dalle Università di autori “razzisti e sessisti” come Shakespeare, Kipling e altri. Si vuole riscrivere la storia, ma è solo una lotta di potere di cui trarranno vantaggio solo alcuni leader afroamericani, al costo di una accresciuta tensione e conflittualità razziali.
C’è poi il discorso dell’appropriazione culturale, a cui ho dedicato un capitolo apposito.
Ancora una volta “Victimhood is powerful”.
Come il gay Thiel era un traditore perché appoggiava i repubblicani, lo stesso è successo anche per Candice Owens, intellettuale afroamericana ma conservatrice.
Il problema centrale è chiarito proprio dalla Owens: “Quel che sta accadendo ora nella comunità nera…Si sta svolgendo una guerra civile ideologica. Neri concentrati sul loro passato che blaterano di schiavitù. E neri concentrati sul loro futuro. Quello che state vedendo è la mentalità da vittima contro la mentalità da vincitore”.
Il clima che questo evidente razzismo afroamericano ha generato è sotto gli occhi di tutti e parte dalla serietà con cui certe affermazioni vengono fatte: “I bianchi sono geneticamente predisposti a scottarsi più rapidamente al sole, essendo perciò logicamente più adatti a vivere sottoterra come folletti striscianti”, “I bianchi sono stronzi, eliminiamo i bianchi” ed altre amenità: sono tweet di Sarah Jeong nata in Sud Corea e assunta dal New York Times. Naturalmente erano interventi di anni prima, ma non ci furono problemi ad assumerla: infatti fu perdonata. Non succede lo stesso però nelle situazioni inverse: lei ha capito l’errore, ma altri, che magari hanno usato la parola che non piace (tipo colored), vengono espulsi perché la bianchitudine non si cura.
E così mentre autori afroamericani del calibro di James Baldwin hanno lavorato contro le ingiustizie razziali, per un maggior riconoscimento della gente di colore nella prospettiva di un loro superamento, altri autori come Na-Ti Coates, vivente, si impongono ampliando le differenze operando per uno scontro sempre più duro. Il punto è che anche se sono romanzi lasciano nel lettore una scia di risentimento e il fossato si allarga. Basta vedere un real crime in TV, con poliziotti, detective bianchi e afroamericani, e la prima cosa che un omicida afroamericano dice: siete razzisti.
Numerosi studi mostrano che
1) le differenze all’interno dei gruppi razziali sono maggiori delle differenze tra un gruppo e l’altro;
2) i gruppi che sono svantaggiati non sono gli afroamericani (13 % della popolazione), ma gli asiatici (6 %) e gli ebrei ashkenaziti, quelli cioè provenienti dall’Europa (3 %).
Qualche cifra sul razzismo concreto dell’Iran Islamico
Cosa ha fatto la Repubblica islamica in Iran nel 2023, in nome di Allah? Ha impiccato 823 persone, per gran parte prigionieri politici curdi e beluci. Ha trucidato 332 kolbar, lavoratori transfrontalieri curdi. Ha arrestato 2342 attivisti impegnati nella rivoluzione per la liberazione dell’Iran dalla Repubblica islamica, “Donna, Vita, Libertà”. Ha massacrato 122 donne. Ha ucciso migliaia di cittadini beluci e baha’i e di altre minoranze etniche e religiose, spesso costrette a celare la loro identità non persiana e non sciita”.
(Mariano Giustino su Twitter 1.1.2024, citato da Cerasa il 2)
P.S. Il post non cita gli afroiraniani, discendenti degli ex-schiavi (non certo resi tali dall’Occidente).