Il termine è stato coniato, così sembra, dall’eclettico Edwars Luttwak nel 1999 nel suo libro “Turbo-Capitalism: Winners And Losers In The Global Economy”, in italiano pubblicato da Mondadori senza il turbo, ma semplicemente con La dittatura del capitalismo. Da allora fu usato spesso per individuare una supposta nuova fase del capitalismo.

Dopo il crollo del comunismo alla fine degli anni ’90 del secolo scorso, i critici del capitalismo si sono sentiti orfani di strumenti di contestazione, anche perché dal 1995 si era dato avvio alla globalizzazione con la creazione dell’Organizzazione mondiale del commercio (OMC o WTO).

Iniziò così una nuova campagna anticapitalista che cerca di demonizzare il capitalismo attraverso messaggi che traducono i possibili problemi economici contingenti in fenomeni di crisi strutturale, mescolando economia ecologia morale e quanto può servire.

Superati quei problemi si tacque per un po’ fino a riprendere la grancassa a seconda di episodi che avvenivano ora qua ora là. Non è una novità, perché la crisi e la fine del capitalismo sono il tema dominante di una parte degli intellettuali dalla metà del 1800 in poi.

Il capitalismo risorge sempre dalle sue ceneri presunte, si rafforza e si diffonde, ma i critici continuano imperterriti.

Si era cominciato anni prima con l’espressione neoliberismo, poi anarco-liberismo e il nuovo secolo si apre all’insegna del turbocapitalismo, espressione che vuole mettere in evidenza la velocità con cui si muove l’economia del nuovo millennio, ma che ben presto diventa qualcosa di diverso, per cui il nuovo capitalismo e la sua velocità indicano qualcosa di più grave, un’ideologia totalitaria, emblema della solitudine umana, motore di catastrofi e esecutore della collera divina. Il turbocapitalismo non è solamente veloce, ma diventa “sfrenato”, “cieco”, “selvaggio”, “imperante”.

Ci si riempie di parole per evitare una riflessione sulla realtà e sui concetti: la critica di Adorno e della Scuola di Francoforte era più seria, ma troppo debole per i nuovi rivoluzionari.

Esempi e citazioni che seguono sono tratte da un articolo ironico che vale la pena leggere integralmente; io ne riporto solo piccole parti. L’articolo è intitolato È tutta colpa del liberismo di Andrea Minuz, Il Sole-24 Ore del 22 maggio 2015.

Gli esempi citano Amazon e i suoi capannoni dove operano i nuovi schiavi controllati dai nuovi kapò; il terremoto in Nepal è frutto dell’avidità, dell’egoismo, della religione del profitto, del trekking (A. Nair, scrittrice indiana).

Il termine selvaggio è chiarito dal dizionario: “Bestiale, disumano, efferato, sanguinario, incivile, rozzo, spietato, violento”. Cosa può esserci di peggio?

Il liberismo è anche la causa degli uragani: Haiyan, «frutto del turbocapitalismo» (P: Ferrero, Rifondazione Comunista); Katrina, simbolo «delle diseguaglianze sociali, di un’America segnata dal cinismo, dal liberismo sfrenato, dal fanatismo religioso» (Antonio Tabucchi); Sandy, abbattutosi su New York e «ultimo capitolo di una storia molto lunga che ho chiamato “The Shock Doctrine”», (Naomi Klein) secondo cui gli uragani sono al servizio delle privatizzazioni e della «licenza di saccheggio delle multinazionali». C’è poi Giovanna Gagliardi, autrice del documentario «pluripremiato» “Venti anni” che Repubblica riassume così: «la tesi del film dovrebbe essere condivisa da chiunque: il turbocapitalismo è il male assoluto e potrebbe rappresentare la rovina dell’umanità”.

 

PARTE PRIMA

Ma torniamo al tema, cercando di capire dove i creatori di questo termine vogliono arrivare.

Finché si riconosce che l’attuale società appare dominata da un moto sempre più accelerato dei modi e degli scambi di idee e notizie, si può essere d’accordo e in fondo è ciò che tutti siamo in grado di riconoscere. Il problema sorge quando da questa premessa si traggono conseguenze molto astratte, supposizioni come ce ne sono tante, del tipo “Hitler è vivo” oppure “la scienza dimostra che potremmo scomparire all’improvviso” (sottolineo il verbo “dimostrare”).

Si prende una parola come “novità” che ha caratterizzato l’economia da almeno mille-1000 anni e si comincia la critica, non motivata da niente. Così la novità è spasmodica e per questo si è costretti a partecipare a una sfida quotidiana contro i propri limiti, a vendere sempre di più, esportare sempre di più e più lontano, aprire nuovi mercati oltre ogni confine. Gli individui, sempre più disorientati e privi ormai di qualsiasi riferimento ideologico, politico o culturale, non si accontentano più di vivere ma vogliono supervivere, annullando i contenuti essenziali del confronto e della condivisione (sic! con tutti i mass-media e social di oggi questa affermazione appare difficile da sostenere).

Basta creare un clima di suspense per dare l’impressione di una follia collettiva la cui causa è il turbocapitalismo, ma ciò che si afferma è quanto succede da sempre: è alla base della vita sociale degli uomini occidentali almeno dal tempo dei Greci e per quelli orientali dai primi popoli abitatori presso i grandi fiumi.

È una novità che non ha nulla di nuovo, ma è proposta in modo da suscitare apprensione come in un thriller e infatti arriviamo al gran finale, naturalmente catastrofico, perché il capitalismo, il liberismo, neo-, anarco-, turbo- non può che portare alla catastrofe. Eccolo il gran finale:

“I cambiamenti climatici, la prossima fine delle risorse del pianeta ipotizzabile di fronte alle esigenze energetiche sempre più pressanti da parte di dieci miliardi di individui, l’imperversare di nuove pestilenze, l’estinzione di specie animali e vegetali utili all’uomo e le catastrofi ambientali completano una mappa da cui i Big Data non riescono a trarre indicazioni per un miglioramento delle condizioni sulla terra”.

Quanto sopra è tratto da “Benandanti | Breve fenomenologia del turbocapitalismo”.

 

PARTE SECONDA

Siamo nel pieno di una grande trasformazione all’interno del mondo del lavoro: la terza finora avvenuta nella storia moderna.

La prima trasformazione avvenne agli inizi del XIX secolo.

La seconda trasformazione è avvenuta agli inizi del XX secolo con il ‘taylor-fordismo’.

Anche in questo caso nulla di nuovo, perché è da 40 anni che gli studiosi parlano di una terza trasformazione (chi la chiama terza rivoluzione industriale e chi preferisce altri termini) citando moltissimi aspetti positivi (maggiore aspettativa di vita, più tempo libero, maggiore conoscenza, maggiore comunicazione, approfondimento della realtà, ruolo più importante per l’individuo…)

No, niente di tutto ciò, per i creatori del termine “turbocapitalismo. Questa terza trasformazione che giunge ora, agli inizi del XXI secolo, è caratterizzata dalla produzione snella ‘just-in-time’ e dal lavoro flessibile; ciò fa temere una destrutturazione e una precarizzazione in cui Richard Sennett vede il rischio di una “corrosione della personalità”.

Ieri i sociologi studiavano la fatica, l’oppressione, la monotonia, l’estraniazione; oggi devono studiare la discontinuità, l’instabilità, l’insicurezza, la precarietà.

L’impresa oggi è spinta a operare in modo sempre più congestionato, convulso, quasi parossistico

Questo impazzimento è noto come ‘turbocapitalismo’.

 In questo vertiginoso clima, in questi mercati perennemente nevrotizzati, non si ha più tempo da dedicare ai dipendenti e alla loro formazione se non per poter attingere a sovvenzioni pubbliche, ma la fretta, la concitazione e la frenesia impediscono a queste imprese di valorizzare le risorse umane. (Qui siamo alla fantasia pura dal momento che è noto a specialisti e non che viviamo in un’economia della conoscenza in cui la formazione è permanente, n.d.a.)

Come se tutto ciò non bastasse si sta procedendo “verso lo sfruttamento integrale di corpi, cervelli ed emozioni”. Lo stesso computer e, ancor di più alcuni gadget elettronici concorrono verso questo raccapricciante obbiettivo.

Quanto sopra è tratto da Il ‘turbocapitalismo’   a cura del CENTRO STUDI Arya (arianuova.org).

 

Come si vede l’uso del termine corrisponde alla litania che ci accompagna da più di mille anni, prima con l’idea della fine del mondo legata ai nostri peccati e poi identificando nel capitalismo il peccato principale.

Il nodo, culturale e storico, che dobbiamo affrontare e che oggi siamo in grado di fare, consiste nel superamento di un termine-concetto, quello di capitalismo, che appartiene a una visione semplicistica, riduzionista, determinista, una visione che riduce la complessità del reale credendo che esista una linea e non una rete, che dunque esista un ramo principale che rende gregari tutti i rami secondari. Per questo ho deciso di concludere con il capitolo “Il capitalismo. Perché l’uso di questa categoria è inappropriato” del mio libro “12 lezioni di Storia. Flussi”.

Questa operazione non è solo il frutto del fatto che il termine “capitalismo” presuppone il suo opposto “socialismo”, che dopo il crollo dei regimi comunisti è cosa impraticabile. Questa operazione è anche legata all’evoluzione del concetto di scienza che obbliga a rifuggire da ogni forma di schematismo e vedere la complessità delle relazioni sociali, complessità che ritroviamo anche nei rapporti socioeconomici. Continuare a parlare di società capitalistica impedisce di cercare soluzioni reali che portino a un miglioramento della vita, che altrimenti risulta intrappolata in flash puramente ideologici.

Senza questa operazione culturale continueremo a prendere decisioni su cui solo successivamente, molto successivamente, la realtà ci obbligherà a fare marcia indietro sbattendoci in faccia con tutto il suo peso.

 

Il capitalismo Perché l’uso di questa categoria è inappropriato

Come docente di storia qualche anno fa decisi di svolgere una lezione dal titolo “Il capitalismo non esiste”. Ero serio e provocatorio allo stesso tempo. Qui di seguito svilupperò il senso di quella lezione.

Il termine capitalismo-capitalista è divenuto qualcosa di cui vergognarsi, quasi un’offesa. Capitalista è infatti sinonimo di ricco sfruttatore sulla pelle della povera gente e capitalismo è una società basata sullo sfruttamento e sulla disuguaglianza.

Marx aveva previsto il crollo del capitalismo perché l’impoverimento operaio avrebbe provocato una rivoluzione: non è successo. Allora i marxisti hanno detto che il capitalismo sopravviveva grazie all’imperialismo, cioè al furto nelle colonie: come scrisse Lenin, l’imperialismo è la fase finale del capitalismo. Oggi che le colonie non esistono più da 60 anni e che le ex-colonie registrano complessivamente migliori condizioni di vita, allora si torna a criminalizzare il capitalismo, questa volta finanziario, con l’aggiunta razzista che è tutta colpa degli ebrei.

Ma non è questo l’aspetto più interessante della questione.

In cosa consiste un’economia capitalista?

Chi produce e chi consuma sono due figure differenti: produzione-vendita-acquisto-consumo. Perché questo avvenga occorre che qualcuno (singolo, gruppo, società) abbia denaro (capitali) per comprare-affittare un locale, comprare degli strumenti, pagare i lavoratori che usano quegli strumenti. I beni prodotti appartengono a chi ha investito quel denaro, il quale provvederà a venderli. Tutto qui.

Diversamente da prima (Marx la chiamava economia feudale) quando vigeva l’autoconsumo: il produttore consumava direttamente; cibo, strumenti, vestiti, scarpe era tutto prodotto da lui che era sia artigiano sia agricoltore. Produceva anche per il signore feudale: non c’era bisogno di passare per il mercato. È vero che anche in passato esisteva il mercato, in cui si vendeva e si comprava, ma è sempre stato una modesta parte della produzione e del consumo totali di una regione.

Le società sono entità complesse per cui ridurle, come fece Marx, a (1) comunismo primitivo, (2) società schiavista, (3) società feudale, (4) società capitalistica, (5) società socialista, (6) società comunista, è semplicistico, come semplicistico è ridurre i conflitti sociali a due classi: padroni e schiavi, nobili e servi, capitalisti e proletari.

Se ne accorse Lenin in Russia e lo capì perfettamente Trotskij.

Quando nel Basso Medioevo, intorno all’anno Mille, cominciarono a diffondersi borghesi e mercati non era scontato che avrebbero retto e si sarebbero affermati, ma ciò successe e da quel momento in poi l’economia di mercato crebbe in quantità e in qualità fino a raggiungere i livelli attuali. Anche questo non fu un processo semplice e univoco, perché vide molteplici forme, nuovi soggetti, conflitti eterogenei, stasi e limiti: nell’Italia degli anni ’50 del 1900 (anche in Toscana) parte significativa della produzione rientrava nell’autoconsumo. Oggi questo rimane solo nell’orticello di casa, nella marijuana coltivata in giardino, nelle conserve, nel bricolage: ma in tutti questi casi dipende pur sempre dal mercato.

EVOLUZIONE DEL CAPITALISMO? All’inizio era un’economia nuova, ma abbastanza semplice, con limiti legati alle corporazioni che stabilivano molte regole, con un mercato, libero ma relativamente. Col passare del tempo e la sua diffusione, essa passò per diverse e spesso contrastanti fasi, come il protezionismo, il mercantilismo, l’intreccio con la finanza, la divisione del capitale attraverso le azioni, l’intervento a lato o diretto dello Stato. Non solo, ma permise che cambiassero le istituzioni politiche di cui la borghesia aveva bisogno: si passò dai Comuni al cui governo erano le Arti di mestiere, cioè i borghesi stessi, allo Stato che era composto anche di professionisti. Non fu un percorso omogeneo, ma ogni fase si realizzava attraverso la composizione di numerose forze, pronta a riaprire il confronto e lo scontro tra le parti che erano rimaste in campo e quelle che nel frattempo si erano formate.

Marx aveva ridotto tutto alla lotta di classe tra due gruppi; invece, abbiamo assistito alla presenza di classi, ceti, istituzioni, organizzazioni in tale quantità e talmente variopinte che era spesso difficile riconoscerle: i loro comportamenti non erano predeterminati e spesso la borghesia, teoricamente amante del libero mercato e della concorrenza, ha preferito appoggiarsi ai comodi cuscini dello Stato per la protezione dei propri prodotti. In più dobbiamo aggiungere l’incognita personale, quella dell’individuo che, agendo in un modo invece che in un altro, ha spinto in una direzione invece che in un’altra.

Detto questo entriamo di più e meglio dentro la parola “capitalismo”.

Il grande dizionario della lingua italiana della UTET è quanto di meglio si possa trovare sull’uso della lingua italiana: si tratta di 21 volumi con 22.700 pagine e ogni pagina è divisa in 3 colonne. Andiamo alla parola “capitalismo” e vediamo che ad essa sono dedicate solo 7 righe di significato e 14 di citazioni. Gli autori citati sono Panzini, B. Croce ed E. Cecchi, tutti autori di fine 1800 e del 1900; anche la voce “capitalista” è articolata in misura poco maggiore. Cosa vuol dire tutto ciò? semplicemente che il termine ha una storia recentissima che fa riferimento allo sviluppo del socialismo e in particolare del marxismo, di cui ha mantenuto tutti i colori e gli accenti negativi. Insomma, è una parola che si impone per i suoi connotati spregiativi e lo ha fatto ancora di più da quando la cultura è diventata di massa.

I capitalisti del 1200 non si ritenevano tali e tali non si chiamavano: allora la ricchezza era esempio di distinzione e di emulazione, o di rispetto, nel caso non si potesse raggiungere.

La narrazione contemporanea è curiosa se non peggio: nel momento in cui tutto ruota intorno al capitalismo si manipola la realtà facendo finta che esista un’alternativa all’economia in cui viviamo da molti secoli. Dopo il crollo del comunismo e il velo squarciato sulla sua sostanza non esiste più nemmeno l’illusione di un sistema completamente e complessivamente diverso. Ma anche questa contrapposizione risponde al semplicismo dicotomico dissolto di fronte alla complessità. Non c’è bisogno di essere anticomunisti per capire che i comunismi realizzati altro non erano che forme di “capitalismo di stato”: lo aveva già detto Trotzkij il grande capo dell’Armata Rossa ucciso da Stalin. “Non è possibile il comunismo in un solo paese”.

Il punto è che se ci liberiamo della parola “capitalismo” usciamo dalla prigione in cui siamo stati rinchiusi per un secolo e mezzo e cominciamo a pensare a quale strada percorrere per migliorare le condizioni di vita dell’essere umano. Oggi sono sul banco degli imputati il capitalismo finanziario, il supercapitalismo, il turbocapitalismo, la finanza internazionale (ebrea, ovviamente), come se non si trattasse di ideologia di propaganda. Criticare la Thatcher, Reagan, Bush, il riscaldamento globale è stato ed è un modo per criticare il capitalismo: eppure Keynes era per il capitalismo, l’economia svedese e norvegese (la così detta socialdemocrazia) è un’economia capitalistica. Non esistono alternative.

Viviamo da tempo in una società di mercato, dove si produce per vendere prodotti (più o meno materiali) che i compratori useranno, dove la proprietà privata è fondamentale, dove la libertà del mercato pure: libertà economica e libertà politica sono andate di pari passo e continuano a farlo. In modo reticolare e complesso, certo, con accelerazioni e frenate, con la creazione di nuovi istituti, nuove norme, nuove realtà: non è mai stato un processo semplice e lineare né mai lo sarà. A nulla serve demonizzare questa o quella figura, questa o quella organizzazione, questa o quella società: non si deve mai dimenticare che l’interesse soggettivo è la molla dello sviluppo. Ergersi a difensori di un generico interesse pubblico senza mettere in luce gli interessi personali è pura ipocrisia: le lobbies americane sono lì per rendere pubblici gli interessi privati e la beneficenza (vastissima) è un modo con cui si redistribuisce parte della ricchezza senza mostrarsi né S. Francesco né Santa Teresa.

Come viene presentato l’argomento nei libri di storia?

Si parla della comparsa della borghesia dopo l’anno Mille, poi essa scompare dal testo, per riapparire con la Riforma Protestante e in particolare il calvinismo (anche grazie alla nota tesi di Weber), poi la borghesia ricompare ai tempi della Rivoluzione inglese. Dopo è la volta della Rivoluzione Industriale, di cui si danno per scontati i benefici, mentre pagine e pagine vengono spese per parlare degli effetti negativi: sfruttamento, lavoro infantile e femminile, problemi ecologici e poi disoccupazione, distruzione della famiglia…e chi più ne ha più ne metta. Praticamente eguale è il discorso per la seconda rivoluzione industriale: non si parla di benefici (ad esempio in campo medico o di trasporto), ma solo di un ipotetico peggioramento delle condizioni di vita a causa soprattutto del capitalismo finanziario. Un eventuale miglioramento è frutto della rapina ai danni degli altri continenti. Ancora crisi del capitalismo, inevitabile, e crollo nel 1929: la crisi del ’29 è indicata come un dramma cosmico, al cui confronto i problemi in URSS, compresi i morti per fame, appaiono come poca cosa. Il punto è proprio questo: i fatti ci sono tutti, almeno da qualche decennio, ma non esiste un confronto tra quella che è l’economia di mercato e la sua alternativa socialista e, se per quanto riguarda la prima si propongono tutti i problemi e le difficoltà, per la seconda si enfatizza lo sforzo del paese e il contributo alla sconfitta del nazismo. Di Cuba sono messe in evidenza le differenze rispetto al regime di Batista, ma il fallimento della politica economica socialista non appare: sempre e solo difficoltà.

Il crollo del comunismo 30 anni fa ha permesso di capire che esiste un solo tipo di economia e che per questo non ha più senso chiamarla con un nome particolare, “capitalismo”, perché essa illude che esista un’alternativa. Quindi non “capitalismo”, ma semplicemente “economia”.

Perché parlare solo di “economia”? Quando l’avventura borghese ebbe inizio, circa mille anni fa, esistevano due modi di procurarsi ciò che era necessario alla vita: quello che ruotava intorno al mercato (produzione-vendita-acquisto-consumo) e quello “feudale” basato su produzione-consumo. Ciò avveniva perché ampie regioni erano separate tra loro senza alcun tipo di comunicazione e in genere il contadino non si allontanava dal campo e dalla casa in cui viveva con la famiglia: un territorio a macchie di leopardo, dove alcune macchie erano colorate di autoconsumo e altre di mercato. Da circa un secolo le macchie dell’autoconsumo sono praticamente scomparse e oggi, con la globalizzazione, l’interconnessione è totale e tutti viviamo grazie all’esistenza di mercati locali e di un mercato globale. L’ideologia ha fatto credere che il socialismo-comunismo fosse una realtà diversa e in questo abbaglio sono caduti anche molti liberali: esso era invece un misto di capitalismo di stato e regime schiavista, per i milioni di prigionieri dei gulag (uso qui volutamente la terminologia marxista). Con l’avvento e lo sviluppo della borghesia l’economia si è modellata intorno al mercato, ma attraverso forme svariate che erano il frutto di rapporti di forza e volontà di potenza che producevano realtà attraverso la loro composizione.

Abbiamo visto la corsa al denaro, la condanna del denaro, l’accettazione dello status quo e le più violente jacqueries, una borghesia costruire istituzioni politiche adeguate e una borghesia pronta al compromesso con la Chiesa e con l’Impero.

Abbiamo visto la comparsa e il rafforzamento di uno Stato di tipo nuovo che ora si integrava con i borghesi ora si accaniva contro di loro, abbiamo visto il disprezzo per il lavoro e l’esaltazione anche religiosa del lavoro. La borghesia ha trasformato nobili in borghesi e ha anche dovuto lottare contro i nobili, ha delegato ad altri la gestione del potere e se ne è assunta la responsabilità in prima persona. Ha influenzato filosofi, scienziati, letterati e artisti tanto da subirne la suggestione proponendo mondi a lei vicini e utopie estreme. Ha sfruttato il potere del denaro per imporre scelte e imporsi, non si è fatta mai mancare nulla e non si è tirata indietro quando c’era da aiutare i più bisognosi, ha trovato scuse per non cambiare nulla e ha forzato la mano a se stessa e agli altri per decidere cambiamenti anche radicali. Ha dato vita a piccoli negozi, a modeste imprese, a campioni nazionali, a colossi multinazionali e transnazionali, ha rischiato con coraggio mettendo in discussione ricchezze di lunga data, ha compromesso la sua immagine evitando di rischiare e appoggiandosi su legami forti e ambigui con lo Stato. Abbiamo visto la più sfrenata e imponente concorrenza e allo stesso tempo il comodo riposarsi sulle rendite monopolistiche, abbiamo visto chiedere favori allo Stato pagati poi pesantemente. Abbiamo visto uno Stato crescere esponenzialmente, farsi capitalista e monopolizzare un potere che si allontanava dal mercato talvolta per venire incontro al popolo degli elettori molto spesso per sfruttare la propria posizione. Insomma, in questi mille anni si è visto di tutto e di più. Da quando l’economia di mercato ha superato l’economia di autoconsumo imponendosi sempre più, le forme con cui si è manifestata sono state molteplici e spesso anche contrastanti.

La prima attività mercantile aveva limiti evidenti, poi la nascita e il rafforzamento degli stati nazionali ha portato a quelli che vengono chiamati mercantilismo e protezionismo. Nel 1700 invece si è affermato il liberismo che grazie alla parola d’ordine “Laissez faire, laissez passer” ha permesso uno sviluppo economico, qualitativo e quantitativo mai visto. Questo liberismo puro è durato fino alla seconda metà del 1800 quando la crescita imprenditoriale ha prodotto i monopoli e la concorrenza internazionale ha spinto verso il protezionismo. La storia economica del 1900 è abbastanza nota per continuare: Keynes e Von Hayek, statalismo e privatizzazioni, Mitterand e Reagan, fallimento della società comunista.

E ora sembra che tutto venga rimescolato e messo in discussione.

L’economia. Non l’economia capitalistica.

Ciò a cui assistiamo oggi a una prima osservazione non appare nulla di nuovo. Conosciamo il liberismo spinto dalla globalizzazione e allo stesso tempo conosciamo, dai tempi degli Atéliers Nationaux di Luigi XIV, lo Stato imprenditore; non sono nuovi i dazi di cui parlano tutti i giornali né ci sono ignoti gli accordi tra Paesi; non è nuovo neppure il potere della finanza che si muove a lunghissime distanze: di nuovo c’è solo la velocità delle comunicazioni e delle operazioni, ma non è questo sufficiente a far pensare a un cambiamento sostanziale. Neppure l’aspirazione a quella che viene pomposamente chiamata “decrescita felice” è cosa nuova, dai tempi di Francesco d’Assisi e di Gerolamo Savonarola. Non è nuova neppure la critica all’egualitarismo di chi propaganda “uno vale uno”: un corteo di intellettuali, santi, uomini politici ha camminato per queste strade. In fondo non è nuovo neanche quello che io da decenni considero una novità, e cioè il ruolo dell’individuo: esso nasce con la società liberaldemocratica ed oggi si assiste a una sua progressione geometrica. Il corpo e l’anima, la materia e lo spirito, il cuore e il cervello, il reale e l’ideale, il concreto e il sogno, il quotidiano e il futuro, la Società e l’Individuo, l’uomo e Dio: sono tutti aspetti agli antipodi che hanno visto, di volta in volta, primeggiare per essere sostituiti poco dopo dal suo opposto. Cosa può alterare questo quadro di fenomeni dejà vus, pur in abiti originali?

In una società con un grado di complessità come la nostra la quantità di nodi e il numero delle relazioni che si interconnettono sono tali che basta veramente poco per provocare grosse trasformazioni: in questo senso l’effetto farfalla, quello del battito d’ali in un continente che provoca tempeste in un altro, è qualcosa di effettivo e significativo. Ciò non vuol dire, cosa difficile da comprendere per i deterministi, che basta questo piccolo battito per sconvolgere il sistema; ciò vuol dire che il sistema opererà delle trasformazioni tali da farlo sopravvivere fortificato. Cambiano le forme, i soggetti coinvolti, le relazioni, ma il quadro di riferimento si chiarisce e si solidifica: alcuni battiti di ali saranno più forti di altri, ma provocheranno una reazione del sistema (cioè l’insieme delle relazioni) che non rinuncerà alle sue prerogative. Chiariamo innanzitutto che il termine “sistema” da me in uso non è quello che storicamente appartiene al marxismo soprattutto dopo il ’68: un qualcosa che non è mai definito concretamente ma che evoca e suggerisce il riferimento al “potere borghese”, allo “Stato borghese”, al “capitalismo”, un riferimento talmente generico che è praticabile solo da chi ha una visione semplice della realtà. Lo stesso termine non è neppure quello che oggi la destra e il populismo identificano nei “poteri forti”, nella “finanza internazionale”, negli “speculatori” alla Soros: anche in questo caso siamo nel terreno del semplice che è incapace di cogliere la sempre più articolata complessità del mondo in cui viviamo. L’acquisizione della complessità in tutti i campi ha permesso di mettere fuori gioco la visione dicotomica della realtà che, dai tempi di Aristotele, ha caratterizzato il nostro pensiero.

Il semplice continua a ragionare come se il Potere fosse sempre quello identificabile nel Palazzo d’Inverno, espressione della borghesia, il cui unico scopo è combattere e tenere sottomesso il proletariato o, più genericamente e attualmente, il popolo. Il Potere non è mai stato solo ed unicamente quello, perché gli individui hanno sempre saputo mantenere viva almeno una fiammella, ma sicuramente oggi non è riducibile e semplificabile. Ciò non vuol dire che non esiste più alcuna forma di potere, ma che esso presenta una ricca articolazione a livello istituzionale e una frammentazione di non poco conto per quanto riguarda la sfera individuale e personale.

Questo è il nuovo punto di partenza con cui fare i conti. E questo in economia significa abbandonare la categoria ideologica del “capitalismo” che presupporrebbe una categoria opposta altrettanto potente. L’economia ha bisogno di contributi e non di slogan che sottendono ideologie, anche perché oggi esiste un’economia globale in cui dobbiamo imparare a ragionare ed operare avendo in considerazione il contesto internazionale.

La politica, e soprattutto quella economica, è la scelta migliore in un dato contesto: quando l’Italia ha bandito il nucleare (che Francia e Germania sviluppavano a qualche centinaio di km) ha fatto una scelta ideologica e non politica. Numerosi sono gli esempi. Al di là dei singoli numerosi esempi che potremmo fare, e non solo in Italia (le 35 ore in Francia), c’è una questione di metodo che è fondamentale e riguarda il ruolo che lo Stato deve avere in una società liberaldemocratica. Ed è in questo campo che dovrebbero esserci sia certezze sia dubbi: i vincoli nascono dalla storia economica e sono questi stessi vincoli a creare orizzonti e determinare delle possibilità.

Lo Stato si è sempre presentato come soggetto non secondario nella vita economica di una nazione: nei paesi anglosassoni meno, nel continente di più. Il termine “via prussiana allo sviluppo” nasce dall’intervento statale per favorire la nascente industria tedesca nella seconda metà del 1800; negli USA dopo la crisi del ’29 si è avviata una politica di forti aiuti statali e anche in Italia durante il fascismo lo Stato aveva in mano leve decisive dell’economia: in tutti questi casi però va detto che allora il mondo era diviso in aree protezionistiche. Il liberalismo puro prevede che lo Stato limiti il proprio intervento al massimo (difesa, fisco e poco più) e questo è incomprensibile in Europa dove il peso del socialismo è stato notevole; soprattutto in Italia dove tutto il 1900, se si esclude il periodo del boom economico, è stato vissuto all’insegna del più spudorato statalismo. Tra nessun intervento e la statalizzazione di stampo sovietico sono possibili tante varianti, ognuna delle quali deve fare i conti con la storia nazionale e anche con la realtà del contesto internazionale. La storia economica ha dimostrato come i due estremi siano inagibili e inattuali: il socialismo è fallito, mentre lo Stato ha imposto la sua presenza anche in quelle nazioni, come gli Stati Uniti, che hanno sempre cercato di valorizzare il ruolo dell’individuo; e non sto parlando di Roosevelt ma dell’America del 2000.

Non esiste alternativa all’economia di mercato, su questo non c’è dubbio: gli ecologisti che innalzano la bandiera della salvezza del pianeta e i neosocialisti, sognatori di un passato che non ci fu, non hanno futuro. Essi non hanno futuro perché i loro proclami non sono proposte politiche, ma pura e semplice ideologia: suggestioni che da un lato lasciano il tempo che trovano e dall’altro servono alla carriera politica e alla notorietà di qualcuno.

La gestione statale dell’economia è stata un fallimento ovunque. Più credito ha il mantra ecologista, dove il “consumare meno” e la “decrescita felice” contraddicono le basi della vita stessa, non solo dell’economia. Se poi il “consumare meno” lascia il posto al “consumare meglio”, espressione accattivante certo, i nodi vengono subito al pettine: chi stabilisce cosa sia “meglio”? Il Soviet Supremo o il Grande Fratello dei consumi? Basta Suv e tutti in Panda? Basta mango sudamericano arrivato in aereo e tutti a mele e pere? Mele della Val di Non o Anurca campane? E così via. Non sarebbe una novità: è ancora una volta il comunismo delle Trabant, delle macchine scatoletta e degli appartamenti in comune per una parte del popolo, mentre le Volga e le Dacie sono riservate all’apparato del partito. In realtà, dietro la propaganda ecologista radicale e catastrofista si cela lo spirito dittatoriale e il rifiuto della libertà. L’ecologismo consapevole è già in moto per cambiare le cose, operando gradualmente, senza bisogno di Diktat o norme emergenziali.

Il mercato, e l’economia che si basa su di esso, sono ancora la risposta migliore: per venire incontro a un consumatore più attento le aziende producono auto poco inquinanti, mentre altre imprese hanno saputo dar vita a prodotti frutto del riciclo della plastica. Non c’è bisogno di tassare le bevande zuccherate, ci ha già pensato la Coca Cola a produrre bevande sugarfree. E così via. La libertà di scelta e di mercato è l’unica condizione per migliorare la vita del pianeta con il contributo degli esseri umani: se vuoi vendere i tuoi prodotti questi devono rispondere alle aspettative dei consumatori; se continui come un tempo e fai il furbetto prima o poi fallirai. È interesse del produttore rispettare le sensibilità del consumatore, che sono il frutto di una crescita culturale individuale e collettiva. Non certo di interventi coercitivi e dittatoriali a danno della libertà d’impresa e di mercato. Cultura ed educazione. Purtroppo, la scuola dal 1968 continua a ignorare il problema, non solo nel mancato insegnamento dell’economia, ridotta a contabilità o annullata nella diatriba sociale, ma anche nella stessa progettazione da parte dei docenti che vedono solo l’aspetto tecnico e organizzativo, come se la dimensione economica non li riguardasse.

E così torniamo al punto di partenza.

Il solo citare la parola “capitalismo” evoca dolore e sofferenza, miseria e sfruttamento, lotta di classe e rivoluzioni, per cui l’uomo normale, l’uomo della strada prima di proporre, trovare o approvare una soluzione si sente in dovere di individuare e dichiarare le magagne, le truffe, le corruzioni. L’economia non viene vista come uno strumento, certo imperfetto ma utile, per migliorare la vita delle persone, ma come qualcosa che deve risolvere un problema. L’occupazione è la soluzione al problema della disoccupazione, la Cassa Integrazione è la soluzione al problema della crisi industriale, ogni scelta ha senso solo come soluzione di un problema. Ed ecco che a questo si lega un altro aspetto che da noi è fortissimo: il ruolo decisivo dello Stato. Indipendentemente dall’ideologia l’economia è vista come qualcosa che riguarda essenzialmente lo Stato e dunque decisiva è la politica economica del governo: non viene preso in considerazione il fatto che essa sia invece principalmente qualcosa che riguarda i cittadini nel loro vivere insieme. Infatti, economia deriva da oichos (casa) e nomos (regola, legge), cioè prima di tutto riguarda la gestione del patrimonio di una famiglia, ovvero come il capofamiglia si procura i mezzi di sussistenza.

Avere un’idea, trasformarla in progetto, acquistare gli strumenti, procedere alla produzione del bene, usarlo direttamente o venderlo: tutto questo viene prima e ha permesso alla società di consolidarsi e svilupparsi. Si è visto che la produzione per il mercato e la divisione del lavoro offrivano molti vantaggi e si è proseguito secolo dopo secolo per quella strada attraverso la creazione di nuovi strumenti e nuove strutture mano a mano che l’organizzazione della società si faceva sempre più complessa. Ad un certo punto è entrato in scena anche lo Stato sia perché voleva approfittare della ricchezza generata sia perché si sentiva la necessità di un Ente al di sopra di tutti che fornisse garanzie. Non sempre le cose sono andate in modo liscio e dopo una richiesta allo Stato di tenersi fuori dalle attività economiche, esso si è imposto sempre di più. E questa è storia recente.

Le pretese di tenere fuori lo Stato dalla vita economica sono ormai tramontate sia perché il peso assunto è tale da rendere impossibile una sua uscita di scena sia perché alcune funzioni non previste due secoli fa sono diventate necessarie nella società di massa.Parimenti le pretese di ricondurre tutta l’attività economica alle decisioni e alla supervisione dello Stato sono impraticabili sia perché esse minerebbero la libertà individuale sia perché il costo a carico di tutti i cittadini sarebbe troppo alto.

Quale strada verrà percorsa è difficile da dirsi. Siamo in una fase di gestazione, non definita e tanto meno definitiva: si scontrano vari interessi ed entrano in gioco molti aspetti che precedentemente (diciamo gli ultimi 50-60 anni) erano poco visibili. La società di massa sta cambiando le proprie forme e anche gli abiti dell’organizzazione statale; il più importante di tutti è il fatto che il popolo votante ha sempre più la pretesa di essere preso in considerazione e di risultare decisivo, spingendo i governi a scelte demagogiche che, se non venissero prese, li priverebbero del potere. Non solo, ma come succede in tutti i comparti della vita sociale, la società di massa porta a una perdita della qualità, facendo sì che il mestiere di parlamentare e uomo politico sia un mestiere come un altro, ma un mestiere ben remunerato, che dipende dal voto e dall’umore degli elettori.

Quale strada verrà percorsa è difficile da dirsi. Di certo esistono dei punti di riferimento che abbiamo creato nel corso dell’evoluzione storica delle nostre società e che rappresentano le fondamenta su cui erigere il nostro futuro. I principali punti di riferimento storicamente determinati sono: l’economia di mercato, la libertà individuale, la liberaldemocrazia. Rinunciare a questi sarebbe fare un salto nel buio.