Una caratteristica che unifica una parte consistente del mondo moderno, sia in Occidente sia altrove, è il vittimismo e ne ho fatto riferimento praticamente in ogni capitolo del presente lavoro.

Vediamo prima di tutto quali sono le sue basi teoriche e culturali e poi passerò a una carrellata di esempi provenienti un po’ dappertutto.

Per vittimismo si intende un atteggiamento con il quale ci si riconosce vittima di un sopruso per esigere una riparazione e ciò avviene non tanto in campo giuridico, come dovrebbe essere naturale, ma in campo morale e di opinione. Il fatto che si collochi prima di tutto sul piano sociale, morale, politico o di opinione, chiarisce che l’obbiettivo è esclusivamente di spostare a proprio favore i rapporti nella società e dunque è una questione di potere. Il vittimismo che caratterizza il politicamente corretto reintroduce il concetto di comunità che si vuol anteporre al concetto di individuo che invece è alla base del diritto e delle società moderne.

Il vittimismo naturalmente fa riferimento alla parola vittima e, anche in questo caso, l’etimologia ci aiuta a comprendere quale sia il punto di partenza e ci permette di capire anche il contesto nel quale ci stiamo movendo.

Vittima era la creatura vivente immolata in sacrificio come ringraziamento rivolto agli dei: esistono varie interpretazioni in proposito, dal vitto-cibo come offerta, al fatto che essa era portata legata (victa), al riconoscimento di una vittoria e anche al semplice vinto (victus) perché spesso erano i vinti ad essere immolati per propiziare gli dei. In tutti questi casi la vittima era legata al sacrificio (sacrum-facere) e i due aspetti erano inscindibili.

Naturalmente un significato che si è affermato successivamente non ci interessa: è quello di chi “Chi perisce in una sciagura, in una calamità, in seguito a gravi eventi o situazioni” (Treccani) o di “Chi soccombe all’altrui inganno e prepotenza” (Treccani).

Vittimismo è invece legato al significato originario del termine.

Essere vittima ha sempre significato, nel mondo del passato molto più semplice, la contrapposizione tra vinti e vincitori. La Storia è tale perché essa è stata fatta dai vincitori i quali hanno agito secondo i loro interessi, e non c’è da stupirsene perché la Storia degli uomini è fin dalle loro origini una storia di potere, di lotta, di imposizione, di attacco e di difesa: spesso era in gioco la sopravvivenza, ma spesso era in gioco anche il prestigio e l’onore. Il mondo moderno, creato dall’Occidente, ha vissuto tutto questo, come il resto del mondo, ma in più è riuscito a caratterizzarsi per aver proceduto, in maniera non lineare certo, a creare regole e comportamenti che limitassero eccessi e soprusi. E lo ha fatto riconoscendo a ogni individuo in quanto tale diritti fondamentali, che potevano essere garantiti solo da un’istituzione sovraindividuale, lo Stato liberaldemocratico. Come diceva Churchill, la democrazia “è la peggior forma di governo possibile, eccezion fatta per tutte le altre forme che si sono sperimentate finora”. Nell’ultimo secolo si sono tentate molte strade alternative, soprattutto il fascismo e il comunismo, ma esse non sono riuscite ad imporsi e oggi la Storia continua secondo la strada intrapresa molti secoli fa.

Gli esseri umani non sono solo forza e potere e da sempre hanno cercato di creare codici di comportamento (e di pensiero) che li giustificasse: accanto alla politica è sorta la morale che stabiliva il giusto e lo sbagliato, il Bene e il Male. Non esiste però una morale universale, bensì giudizi che dovrebbero inquadrare i comportamenti, ma che spesso si scontrano con la nuda e cruda realtà dei fatti.

Cartagine fu distrutta dopo due guerre (Carthago delenda est) e oggi molti sostengono che non era necessario, il che può darsi ma il problema cartaginese che aveva disturbato e impegnato Roma per più di cento anni era stato risolto. D’altra parte, abbiamo l’esempio di Monaco 1938 che invece di pacificare i nazisti li spinse a quello che conosciamo nei sette anni successivi. Sulla fine di Hitler e del regime nazista quasi tutti nel mondo si sono trovati d’accordo; Hitler e i nazisti sono sempre sembrati il Male assoluto e la loro condanna sembrava universale (a parte qualche gruppetto insignificante), eppure durante l’attuale guerra Israele-Hamas si sono sentite voci filopalestinesi che richiamavano come positiva l’azione di Hitler per estirpare il cancro ebreo; enorme e stupefacente è il credito che Hitler ha presso i giovani palestinesi (Bahraini Writer, MEMRI 2016).

Voci per la mitezza, la pace, il superamento dei conflitti ci sono sempre state in Occidente e in Oriente, ma solo il Cristianesimo le ha trasformate in qualcosa di molto più incisivo e decisivo, giungendo a introdurre anche il concetto di amore e di perdono. Ciò non ha cambiato di per sé la Storia, ma l’ha resa più complessa, talvolta intorbidendola: Machiavelli sosteneva (cap. XVIII de Il Principe) che chi ha il potere deve apparire generoso, ma essere inflessibile. E da allora la Morale si è inserita dentro la Storia per legittimare il Potere: bisogna apparire buoni e trovare tutti i motivi per giustificare le nostre azioni.

La forza, la vittoria rimanevano alla base delle relazioni, ma non erano più sufficienti: i vinti sono stati sconfitti non perché deboli (di forza e di cognizione) ma per i soprusi e le ingiustizie dei vincitori.

Tutt’altra storia in passato, non solo Roma. La democrazia ateniese sconfisse i Meli che si sentivano vicini a Sparta e, per dare l’esempio, decise di distruggere la città: sottomissione o morte.

In Tucidide: “Ma per quanto riguarda la pietà dei sentimenti verso la divinità, neppure noi crediamo di restare indietro, ché noi non esigiamo né facciamo alcuna cosa che devii dalle umane credenze nei confronti della divinità, o dagli umani desideri nei confronti degli stessi. Noi crediamo infatti che per legge di natura chi è più forte comandi: che questo lo faccia la divinità lo crediamo per convinzione, che lo facciano gli uomini, lo crediamo perché è evidente. E ci serviamo di questa legge senza averla istituita noi per primi, ma perché l’abbiamo ricevuta già esistente e la lasceremo valida per tutta l’eternità, certi che voi e altri vi sareste comportati nello stesso modo se vi foste trovati padroni della nostra stessa potenza…”

Anche negli ultimi mille anni si è continuato così in tutto il mondo, ma non bastava, Cristianesimo o non Cristianesimo.

Inevitabilmente è successo che, introducendo la Morale nell’agone Politico, questi due mondi entravano in conflitto. Il diritto evolveva cercando di creare garanzie per un numero sempre crescente di persone (da Hobbes a Locke a Montesquieu) ma la Morale, il Bene, non cercava garanzie, perché era legittimata dal suo solo esistere: i processi di Robespierre e dei regimi comunisti nulla avevano a che fare col diritto, ma si autogiustificavano per il solo fatto che essi esprimevano e facevano vivere il Bene, di cui erano gli unici interpreti. Si trattava di un bene che nascondeva il più brutale esercizio della forza dietro parole introdotte dal Cristianesimo: fratellanza, libertà e soprattutto eguaglianza.

Non voglio qui ribadire quanto più volte affermato e spiegato: la volontà di potenza materiale è costitutiva dell’essere umano, proprio per la sua complessità, e ad essa l’Occidente ha saputo porre un freno creando lo Stato di Diritto, separando la Religione dalla Politica e facendo dell’individuo il nucleo della società. Sono cose chiare.

Qui voglio fare un passo avanti mostrando il legame tra vittimismo e responsabilità, un legame antico, ma che nelle società moderne si è sviluppato coinvolgendo sia le comunità sia i singoli.

Responsabilità non è colpa, sebbene nell’uso comune (e anche in campo giuridico) le due parole tendano ad essere intercambiabili: la colpa presuppone un giudizio esterno (la legge o la morale), mentre la responsabilità riporta tutta la nostra esistenza nell’ambito della scelta della nostra persona (latino respondere, rispondere a se stessi) per cui siamo noi a dar vita a quello che è di volta in volta ciò che siamo.

Trovo interessante un riferimento antichissimo, risalente al VII-VI secolo a. C. Un frammento della poetessa Saffo recita: “Non si addice il lamento alla casa dei poeti”, grande monito per le future generazioni e ancor più attuale ai giorni nostri. Il poeta (dal greco poiein) è colui che crea, dà vita a qualcosa di nuovo; per questo non gli si addice il lamento.

Il lamento è la base del vittimismo, perché esso non costruisce nulla né tanto meno crea; esso si rivolge su se stesso, non fa passi avanti, non fa i conti con se stesso, non si assume nessuna responsabilità (rispondere a se stessi, non colpa). Il suo futuro è il passato, da cui non riesce a staccarsi perché se lo facesse dovrebbe riconoscere quei momenti e imparare, trarre una lezione; invece preferisce rimuginare, cercare colpevoli, non vedere le responsabilità, scagliare tutta la propria rabbia e il proprio livore nei confronti di realtà esterne. E questo avviene a livello individuale in modo sempre più chiaro, ma avviene anche a livello sociale ed è di questa forma di vittimismo che si è appropriato il politicamente corretto in una lotta attraverso la quale cerca di strappare privilegi giocando sul semplicismo emotivo (ricordo che le emozioni sono il livello più semplice del comportamento umano che si eleva e si fa più complesso attraverso il sentimento e il pensiero).

Il lamento impedisce la costruzione e la creazione. A livello individuale si registra lo stesso vittimismo che troviamo a livello sociale: tutti abbiamo vissuto relazioni in cui si cerca in tutti i modi di dare la colpa all’altro, amico o amante. “Se la nostra relazione si è deteriorata è colpa tua, perché mi hai offeso, perché mi hai sbattuto la porta in faccia, perché non mi sei stato vicino”. Frasi come queste sono il più frequente modo con cui si cerca di uscire indenni da una realtà di cui siamo comunque responsabili e, invece di ricostruire i singoli momenti che hanno portato a quel punto, si trova più semplice e facile demonizzare. Ne ho parlato diffusamente nel mio libro sull’amore (Lascia che il tarlo scavi, lascia la piaga gemere: amore e complessità).

A livello individuale le regole non sono scritte, mentre a livello sociale sì. Così la legge opera nei confronti degli individui ritenuti colpevoli, perché, come recita l’art. 27 della nostra Costituzione, “la responsabilità penale è personale”. Tutte le società moderne democratiche esprimono questo principio che è l’altra faccia del rapporto diritti-doveri: una società che riconosce come diritti fondamentali i diritti degli individui deve necessariamente ricondurre a questi anche i doveri.

Negli ultimi anni il politicamente corretto ha cercato di ribaltare questa prospettiva, non accorgendosi di proporre un ritorno a quelle impostazioni che la democrazia moderna ha combattuto e superato. Sostituire l’individuo con la comunità è pericoloso e sta sconvolgendo la struttura delle nostre società democratiche, perché non esiste un riconoscimento comunitario pieno e totale. Non tutti gli afroamericani si riconoscono nel vittimismo nero; non tutti i cattolici irlandesi si riconoscono nelle posizioni estreme dell’IRA; non tutti gli arabi palestinesi vogliono la distruzione di Israele; non tutte le donne appoggiano il pensiero delle neofemministe né, come abbiamo visto, non tutti i gay si riconoscono nel movimento LGBTQI+.

Lo Stato liberaldemocratico garantisce la pluralità di opinioni e la libertà di pensiero e di organizzazione, ma pretende che alla base sia la Legge, in quanto interprete della volontà popolare:” La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione” (art. 1). La legge, a partire dalla Costituzione stabilisce come avviene questo esercizio.

Le società democratiche favoriscono il pluralismo, il dibattito, il pensiero e l’organizzazione di posizioni diverse e a livello istituzionale creano dei contrappesi tali che evitino di cancellare la presenza di posizioni minoritarie. Non bastano le elezioni: a Gaza, dopo la restituzione del territorio da parte di Israele si sono tenute le elezioni nel 2006 e Hamas ha vinto sull’ANP, avviando subito dopo una guerra civile per espellere l’ANP da Gaza.

Il vittimismo non solo rifiuta la storia, perché rimane fermo al passato, ma rifiuta di fatto anche lo Stato liberaldemocratico perché in quanto vittima ritiene di essere l’unico portatore di verità e giustizia e dunque pretende di imporle al di là della legge; non lavora per modificare la legge, ma avvia processi pubblici cercando di terrorizzare, colpevolizzare e demonizzare chi non concorda con il politicamente corretto.

Il vittimismo nega per principio la propria responsabilità e come i mendicanti fuori dalla Chiesa cerca di commuovere, con l’aggravante che accusa gli altri. I colpevoli, con la diffusione dei social, sono andati crescendo: i poteri forti, il (turbo)capitalismo, le multinazionali, i bianchi in quanto tali, i maschi in quanto tali, gli eterosessuali, gli occidentali. Questa impostazione è risultata troppo generica per fare presa e così si è scelto di prendere delle persone, fare i nomi e trasformarli in casi esemplari. Il pubblico non poteva tirarsi indietro di fronte a nomi come Rowling, Depardieu, Kevin Space, Candice Owens, G. Greer, giornalisti e professori universitari fuori dal coro. Come con le Brigate Rosse, ma in forma diversa, si applica il principio maoista “Colpirne uno per educarne cento”.

Il rifiuto del lamento e la valorizzazione della responsabilità sono stati il leitmotiv della cultura da Saffo in poi. Persino Manzoni, dopo un primo periodo in cui rimandava tutto all’al di là (il male si può solo fare o subire), scelse la responsabilità ne I Promessi Sposi (se ti comporti bene finisce bene).

È a partire dalla seconda metà del ‘900 che il vittimismo ottiene un lasciapassare e una diffusione sempre più ampia.

Partendo da quelli che allora erano solo dei segnali R. Hughes, noto critico d’arte australiano, pubblicò nel 1993 un libro che anticipava la degenerazione vittimistica e il politicamente corretto: La cultura del piagnisteo. La saga del politicamente corretto. Non è possibile qui riassumere tesi ed esperienze riportate dal libro, perché sono tante, anzi troppe; il senso complessivo è comunque nei capitoli di questo mio libro. Citerò solo alcuni punti per la capacità dell’autore di guardare in profondità.

La nuova ortodossia del femminismo sta abbandonando l’immagine della donna autonoma…a favore della donna vista come inerme vittima dell’oppressione maschile” (pag. 25).

Veniamo creando un’infantilistica cultura del piagnisteo, dove c’è sempre un Padre-Padrone a cui dare la colpa e dove l’ampliamento dei diritti procede senza l’altra faccia della società civile: il vincolo degli obblighi e dei doveri” (pag. 26).

Come racconta il Village Voice: La cameriera Barbara che nel 1991 si rifiuta di servire la colazione a un signore perché leggeva Playboy e “la sola vista della rivista è una forma vicaria di stupro, di molestia sessuale sul posto di lavoro, di offesa alla dignità delle donne…” (pag. 31).

Omofobia è un termine clinico che indica un disturbo patologico, un’ossessione causata dal timore fortemente represso di essere omosessuali” (pag. 36), ma oggi è usato per definire chi è contro gli omosessuali, categoria in cui rientrano anche coloro che hanno la minima riserva”.

Sempre riguardo agli omosessuali, “La grande maggioranza degli omosessuali americani non fa capo a gruppi militanti come Act Up o Queer Nation; disprezzano le posizioni del cardinale O’Connor sul preservativo, ma non per questo interrompono la messa nella chiesa di St. Patrick. Vorrebbero solo vivere la propria vita senza essere perseguitati per via dell’orientamento sessuale” (pag. 47-48).

Nessuna sostituzione di parole è in grado di ridurre il tasso di intolleranza presente in una società” (pag. 37).

Il riferimento è al linguaggio corretto che le istituzioni tendono a imporre e che è dilagato negli ultimi dieci anni coinvolgendo, come si è visto, persino il povero Natale. Ed è qui che la cultura si scontra con la sciatteria e l’ideologia (il governo canadese è in prima fila, ndr): esempio è l’uso di man, termine nato neutro, tanto che per denotare il sesso il maschio era waepman, la femmina wifman.

Tra l’altro, aggiungo io, umano-uomo nasce non come affermazione del maschio ma come legame col latino humus-terra, dunque terrestre, oppure dal sanscrito crescere e generare.

E i nativi americani, non più indiani né pellerossa: “(sottintende che) i bianchi con progenitori insediatisi qui da tre, da cinque o magari da tutte e tredici le generazioni trascorse dal 1776 siano ancora in un certo modo degli intrusi, non nativi del paese” (pag. 40).

Mi fermo qui e spero di aver fornito ulteriormente il senso di quanto proposto: tra pagina 48 e pagina 235 riflessioni ed esperienze si moltiplicano.

 

Passo ora ad un saggio scritto nello stesso periodo delle conferenze di Hughes che sono la base del suo libro. Il saggio è un lungo articolo di una femminista storica, Cathy Young, apparso sulla rivista Reason nell’Ottobre del 1992 e il titolo è già di per sé illuminante: Victimhood is powerful. Anche in questo caso riporterò solo alcuni passi; il saggio è facilmente recuperabile su Internet.

Un punto importante che caratterizzerà i nuovi movimenti, compreso il neofemminismo, e che porterà all’intersezionalità è che: “Laddove un tempo le donne combattevano per l’uguaglianza giuridica dei sessi, la nuova scuola di studi giuridici femministi sostiene che, poiché le donne sono socialmente svantaggiate, trattarle come pari davanti alla legge non può che renderle ulteriormente vittimizzanti”.

Un altro aspetto che troverà riscontro e diffusione tra il 1992 e il 2024 riguarda il principio della libertà di scelta: per gli attivisti antipornografici una donna che “allarga le gambe davanti a una telecamera” non può esercitare la sua libera scelta, lo stesso vale per una donna che allarga le gambe davanti a una macchina aspiratrice, quella per l’aborto?

Lo stesso discorso viene fatto a proposito del sesso: “Fisicamente la donna nel rapporto è uno spazio invaso, un territorio letteralmente occupato; occupato anche se non c’è stata resistenza; anche se la persona occupata ha detto: ‘Sì, per favore, sì, sbrigati, sì di più.'” Questa è Andrea Dworkin in Rapporto sessuale, il libro che dice esplicitamente ciò che molte femministe radicali alternativamente implicano e negano di aver lasciato intendere: tutto il sesso eterosessuale è stupro”. E così “Nei seminari sulla prevenzione dello stupro tenuti nei campus, ai giovani viene detto che potrebbero aver violentato alcune delle loro partner apparentemente consenzienti se non avessero chiesto e ottenuto un esplicito “sì”. (Vedi “Sembra che ti abbia violentato!”, Luglio 1990)”.

“Ci sono pressioni sociali certo…e i media possono inviare messaggi contraddittori e lo fanno. La maggior parte delle donne oggi, e in misura minore gli uomini, sono spinte in direzioni diverse da imperativi tradizionali e “liberati”. Eppure, alla fine (la riaffermazione dell’ovvio, come osservò una volta George Orwell, è un dovere al giorno d’oggi), sono loro che fanno le scelte”.

“Come illustra la questione della promiscuità, le stesse esperienze possono significare molte cose diverse. Una donna che si sottopone a protesi mammarie può sentirsi talmente padrona della propria vita da voler scegliere anche la forma del proprio corpo; un altro potrebbe essere uno zerbino il cui fidanzato minaccia di scaricarla a causa del suo seno insufficientemente ampio. Una donna single coinvolta con un uomo sposato può essere una stupida che continua a fidarsi delle sue promesse di lasciare la moglie, o una professionista incentrata sul lavoro che sceglie consapevolmente una relazione che richiederà poche richieste al suo tempo e alla sua autonomia. E se un uomo può egoisticamente spingere la sua ragazza ad abortire, un altro potrebbe essere profondamente ferito dal non avere alcuna voce in capitolo sul destino del figlio che ha generato – abbastanza profondamente, in alcuni casi, da unirsi all’Operazione Rescue.

Le ideologhe femministe che vendono l’immagine della donna come vittima, e, in modo diverso, le loro controparti antifemministe, perseguono il potere – il potere di imporre un’agenda sociale, sia agli uomini con l’intimidazione attraverso il senso di colpa, sia alle donne dicendo loro cosa è buon per loro. I conservatori sono ovviamente meno alla moda e meno influenti culturalmente; le femministe radicali, d’altro canto, sono riuscite a intimidire il mondo accademico, e anche gran parte dei media, brandendo l’arma della colpa di genere.

Il vittimismo può essere uno scudo molto efficace. Per citare ancora Steele, “quando i neri prendono la parola e indicano le loro difficoltà come prova della vittimizzazione, la confutazione non è facile: sembra una continuazione dell’atto di vittimizzazione, come incolpare la vittima”. Di fronte al dolore, evidentemente sincero e profondamente sentito, gli argomenti logici sembrano freddi, spietati, insensibili. “Come osa interrogare una donna che afferma di essere stata violentata?” ringhia The rag, la rivista femminista di Harvard. In una conferenza del Consiglio nazionale per la ricerca sulle donne lo scorso giugno, quando una delle partecipanti suggerì che l’insularità e l’astrusità della teoria femminista fossero in parte responsabili della sua scarsa immagine pubblica, un’altra donna protestò immediatamente: “Non è un peso eccessivo per gli oppressi chiedere che non solo sviluppare una teoria della loro oppressione ma assicurarsi che venga compresa?” A tutti i diritti delle vittime si aggiunge il diritto all’incomprensibilità.

Lo status di vittima assolve dalla responsabilità dei propri fallimenti e problemi e così la tradizionale nozione americana di diritto alla ricerca della felicità si trasforma in diritto alla felicità; si radica la convinzione che l’infelicità sia uno stato di cose innaturale e quindi colpa di qualcun altro. Il diritto a essere al sicuro dalla violenza sessuale diventa un diritto a relazioni libere da traumi.

È facile persuadere alcune persone a considerarsi vittime perché, dopo tutto, c’è qualcuno che non si sente talvolta trattato ingiustamente? Dare la colpa al sessismo – o alla liberazione delle donne – può far sembrare la cosa in qualche modo più semplice, meno arbitraria e più rimediabile; la propria sofferenza può essere addirittura nobilitata facendone una causa politica. Denunciare l’ingiustizia della vita – per non parlare di considerare attentamente alcune delle tue decisioni che potrebbero aver contribuito alla tua infelicità – è molto meno allettante che denunciare gli uomini, o le femministe, o entrambi.

La conseguenza più grave del potere che il vittimismo genera è che l’identità individuale viene sostituita da un’identità di gruppo basata sul vittimismo; se una donna non si percepisce come una vittima, non può più parlare a nome delle donne e non è più vista come se parli con una voce “autenticamente femminile”.

Avviene anche una distorsione della logica: “se il 10% delle donne intervistate si sente vittima di materiali didattici sessisti, ma il restante 90% che utilizza gli stessi materiali no, la conclusione non è che il 10% sia paranoico ma che il 90%  si trovi tristemente in un basso stato di coscienza”.

“Le giovani donne vengono indottrinate [alla mentalità della vittima] nelle università”, dice Linda Chang. “Fortunatamente, la maggior parte delle persone ha una riserva di buon senso nascosta da qualche parte.” La maggior parte delle donne può uscirne indenne, ma per molti che si sentono scoraggiati dalle difficoltà della vita, la tentazione del vittimismo potrebbe essere troppo grande.

Ma c’è sempre speranza. Il movimento maschile, con le sue Bibbie in cima alle liste dei best-seller proprio accanto all’opera di Susan Faludi, sembra riguardare principalmente una grande verità: anche gli uomini sono vittime. Sono vittime della civiltà industriale, dei loro padri, delle loro madri, delle femministe. Sono vittime della spogliarellista che assumono per un addio al celibato perché li fa arrapare pur rimanendo sessualmente indisponibili. (Davvero.)

Sembra che siamo a pochi passi da un mondo nuovo e coraggioso in cui tutti sono vittime di tutti e nessuno è da incolpare”.

Il tema è finalmente esploso nel XXI secolo: è cresciuto il vittimismo che coinvolge ogni comunità; ma è cresciuta anche la rivolta contro questo pensiero e questo atteggiamento attraverso la rivendicazione della responsabilità individuale con la consapevolezza che non si può tornare indietro. Da un lato ci sono persone sottoposte al processo nei social che resistono e dall’altro cresce il numero degli intellettuali che forniscono elaborazioni teoriche importanti nella critica al vittimismo elaborato dal politicamente corretto. Tra questi mi piace citare un filosofo italiano, Daniele Giglioli, con il libro “Critica della vittima” (ed. nottetempo, 2014).

Da Saffo a Young a Hughes a Giglioli i termini sono chiari e ognuno è libero di scegliere. Questi sono i termini. La società moderna e le istituzioni democratiche sono nate dopo secoli in cui il vecchio potere veniva lentamente scalfito, caratterizzandosi per il riconoscimento dell’individuo rispetto al ruolo svolto da famiglie, gruppi, caste, categorie, insomma da delle comunità. Nella comunità l’individuo è gregario e ad essa deve sottomettersi. Perché ciò si potesse realizzare era necessario dar vita a una struttura che si collocasse al di sopra e oltre l’insieme degli individui, cioè lo Stato. Perché il carattere decisivo dell’individuo si realizzasse era necessario che potesse dare il suo contributo alla nascita dello Stato, attraverso le elezioni e le diverse libertà (opinione, pensiero, organizzazione, partecipazione ecc.), ma anche attraverso la creazione di uno Stato fondato sulle Leggi, sulla separazione dei tre poteri, sulla separazione tra politica e religione, sulla separazione tra politica e morale.

Tutto ciò che pretende di rinviare al primato di comunità nega la responsabilità individuale nei confronti sia dello Stato sia degli altri individui componenti la società; dà vita, come abbiamo visto nei capitoli precedenti, a insanabili contraddizioni perché le comunità sono luoghi chiusi e non comunicanti, mentre l’unità fondamentale e irriducibile di una società, e dunque anche di una comunità, è l’individuo. Come gli stessi teorici dell’antirazzismo sono costretti a riconoscere, pur non capendone le conseguenze: non esistono razze ma solo individui.