IDENTITTI di Mithu Sanyal (2021; Keller 2025)

                                                           “Essere bianchi significa uccidere persone di un colore della pelle diverso” (pag. 315).

                                                                                                 “Essere bianco significa essere colpevole per sempre” (pag. 334).

Romanzo di una studiosa di femminismo, razzismo e postcolonialismo, una studiosa che ha scritto anche dei saggi.

Il romanzo è stato presentato in pompa magna come qualcosa di originale e innovativo e affronta principalmente il tema dell’identità. Ora sappiamo che il tema dell’identità è qualcosa di emergente negli ultimi anni e ha rappresentato un tema forte per movimenti sociali antisistema, come LGBTQ+, me too, woke, ma ha generato anche molta confusione e molte contraddizioni all’interno di quegli stessi movimenti.

Il romanzo si basa su una professoressa di teoria postcoloniale che ha falsamente affermato di essere indiana e che alla scoperta che è bianca ha polarizzato il dibattito: “non conta il colore della pelle” versus “non può essere interprete di ciò che caratterizza i PoC (people of colour)”.

Il libro purtroppo pretende di sviluppare un discorso teorico attraverso l’incontro tra diverse persone soprattutto con antenati PoC, ma per voler coniugare i due aspetti produce qualcosa che non è né l’uno né l’altro, dando vita a dinamiche superficiali.

Saraswati, la professoressa, e Nivedita, la studentessa a lei più vicina, parlano insieme ad altri giovani personaggi e al fratello della prof. Parlano come si può fare durante una cena o al bar, ma con citazioni che vorrebbero dare spessore alle loro affermazioni.

Il romanzo si riduce così a un quadro che non entra molto nel merito, ma si propone con colori forti e linee nette: il colonialismo è stato solo occidentale, il razzismo riguarda solo i bianchi, l’emarginazione dei PoC è un dato di fatto, la violenza sulle donne ha a che fare con il mondo occidentale (il Kamasutra mostra la libertà sessuale indiana).

Il filtro metodologico usato è ovunque quello dell’abolire il riferimento al contesto e alla complessità delle dinamiche storiche e sociali. Il peso che viene dato nel finale all’attentato perpetrato da un razzista bianco ad Hanau nel febbraio del 2020 che ha ucciso nove persone con background migratorio mostra bene questo aspetto, perché rimuove dal dolore e dall’empatia i diversi attentati o aggressioni perpetrati da gruppi e comunità islamiche. Come dimenticare ciò che successe il 1° gennaio 2016 a Colonia quando ben 1200 donne denunciarono violenze, stupri e furti ad opera di maschi nordafricani e mediorientali? Ma il libro è interessato solo alla Whiteness.

La rimozione della storia va di pari passo con la rimozione di aspetti fondamentali proposti come l’amore. Nel romanzo si parla molto di amore in modo tale che siamo obbligati a farci i conti; purtroppo, il lettore si accorge subito che l’autrice non ha fatto i conti con l’amore, che viene riproposto nei termini più semplici e ordinari a cui siamo abituati. L’amore come bellezza e desiderio, niente di più; un amore sbarazzino e giovanile, aperto e fluido, ma nulla di più. Un sentimento ovvio, dato per scontato, di cui non si indaga né l’origine né le prospettive, insomma un luogo comune.

E ce n’è per tutti, persino per Hanna Arendt, di cui viene citato un passo catalogato come razzista, completamente decontestualizzato: ma in fondo lei era per di più ebrea. Questo metodo oltre ad essere irritante risulta controproducente perché toglie valore alle tesi che soggiacciono alla costruzione della trama. Le citazioni di Petersen fanno la stessa fine, mentre le frasi dominanti sono quelle che criticano soprattutto l’essere bianchi, in forme che non lasciano lo spazio per una idea diversa, che non è ammessa. C’è anche qualche frase di Marx, per far capire dove siamo. Si dirà: è un romanzo; certo, ma proprio per questo si chiede conto delle dichiarazioni che, senza contraddittorio e ridotte ad affermazioni, risultano principalmente degli slogan.

Nonostante questo, la posizione di Saraswati si presenta rivoluzionaria, perché contro il razzismo (parola derivata da “razza”, nata recentemente e non a caso in Europa), esige il riconoscimento individuale di ogni persona; il che sarebbe un grosso passo avanti, nonostante le critiche unilaterali all’Occidente, se non fosse che esso non va nella direzione che ci si aspetterebbe: negando la dimensione storica ciò che emerge è necessariamente il moralismo. Individui sì, ma i bianchi devono provare sulla loro pelle il senso di dolore derivate dall’emarginazione.

E così cercando di negare valore alla razza, ma non volendo riconoscere al mondo occidentale i suoi progressi che risultano essere unici nel panorama mondiale il tutto si risolve in un appello che ha perso la virulenza del moralismo, diventando un generico e astratto buonismo.

L’ultima frase del libro riassume l’evoluzione della problematica posta e preparata negli ultimi capitoli: “Noi siamo la Creazione e noi siamo la vita, e quindi la nostra maledetta colpa e la nostra responsabilità consistono in questo, nell’amore reciproco. Let love flow like a river”.

Insomma, una conclusione da figli dei fiori.

Pot-pourri o, meglio, accozzaglia di elementi culturali che rispondono a una dichiarazione universale: il Bianco è il Male. Ripeterla in continuazione non la rende né più vera né più convincente. Tra le righe si capisce che in gioco è il potere (distribuito iniquamente, pag. 347), ma il lettore pagina dopo pagina è sottoposto a un’infusione del messaggio morale contro i bianchi. Però il finale deve essere ecumenico: nessuna pena per i bianchi, ma solidarietà e amore.

Leggerò il suo saggio intitolato “Stupro” anch’esso presentato come rivoluzionario e vedremo se il romanzo è solo il vanesio tentativo di farsi leggere fuori dal circolino degli addetti ai lavori.